Tra le tante tecniche di greenwashing dell’industria della carne c’è, incredibilmente, attribuire la colpa esclusiva ai combustibili fossili – insomma, che problema mai saranno i rutti e i peti delle mucche in confronto a bruciare petrolio?
E questa bugia, perché di questo si tratta, è penetrata ovunque: negli spazi politici, nei salotti televisivi dove ancora viene dato spazio ai negazionisti della crisi climatica, e anche negli ambienti più comuni.
Ad aiutarci a sradicare questi dubbio c’è un nuovo report di Greenpeace, “Turning down the heat: Pulling the Climate Emergency Brake on Big Meat and Dairy – with special focus on methane”, che ci dimostra come le emissioni di metano delle 29 più grandi aziende che producono carne e latticini rivaleggiano con quelle delle 100 maggiori aziende di combustibili fossili. E che se vogliamo davvero avere qualche speranza di ridurre gli effetti disastrosi della crisi climatica – pensiamo a quanto è successo in Emilia-Romagna – dobbiamo rivoluzionare il nostro sistema alimentare.
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Il metano: perché inquina e come impatta sulla crisi climatica
Di metano si è parlato anche alla Cop29 sul clima di Baku, grazie all’allarme e al lavoro dell’Unep. Il rapporto di Greenpeace offre un particolare focus appunto su questo gas serra. La ragione è facile da spiegare: quando parliamo dell’impatto ambientale degli allevamenti questo gas è il protagonista. Il metano è emesso infatti in grandi quantità dagli allevamenti intensivi, che rappresentano la maggiore fonte singola di emissioni di metano di origine antropica a livello globale. Questo è principalmente dovuto alla fermentazione enterica nei ruminanti, che costituisce il 91% delle emissioni di metano legate agli animali.
Ma perché questo è un dato importante? Perché il metano è il secondo gas serra più presente nell’atmosfera dopo l’anidride carbonica (CO2): ma rispetto alla CO2, sebbene sia il secondo, ha un effetto climalterante fino a 80 volte superiore nei primi 20 anni .
E questo ha un diretto impatto sulla crisi climatica. Se non si rimedia alle perdite di metano, come richiede l’Unep, e se non si riduce l’enorme produzione di carne e derivati, quest’ultima potrebbe essere responsabile di un aumento della temperatura globale di 0,32°C entro il 2050. Di questo aumento, oltre il 75% sarebbe attribuibile alle sole emissioni di metano.
I grandi dell’Agribusiness rivaleggiano con le Big Oil
Sfogliando il report è inquietante vedere come l’industria della carne e del latte sia diventata un gigante delle emissioni di gas a effetto serra, paragonabile – e in alcuni casi addirittura superiore – alle Big Oil.
Il report ci mostra come le 29 principali aziende produttrici di carne e latticini emettono circa 20 milioni di tonnellate di metano all’anno – un quinto delle emissioni globali di metano provenienti da tutti gli allevamenti.
Sommando le emissioni di metano delle cinque più grandi aziende che producono latte e carne – e cioè JBS, Marfrig, Minerva, Cargill, e Dairy Farmers of America – risultano più alte a quelle di alcuni giganti del settore petrolifero come BP, Shell, ExxonMobil, TotalEnergies e Chevron messe insieme.
Stesso discorso delle tre maggiori produttrici di latticini – Dairy Farmers of America, Lactalis (Francia) e Fonterra (Nuova Zelanda): emettono più metano di alcune delle più grandi aziende fossili al mondo, come ExxonMobil. Il fatto che queste tre aziende producano più metano di una delle principali multinazionali di petrolio, ci deve far capire quanto siamo impattanti sul clima queste attività.
Se prendiamo JBS, il più grande produttore di carne al mondo, vediamo come le sue emissioni di metano superino quelle di ExxonMobil e Shell messe insieme, rendendo JBS una delle principali aziende al mondo per emissioni di metano, subito dopo i colossi del settore fossile.
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Greenwashing e false soluzioni: il biogas
Oltre a inquinare, queste imprese sono molto brave ad annacquare le informazioni, come detto all’inizio dell’articolo. Tra le diverse tecniche di greenwashing che vengono analizzate, nel report di Greenpeace si prende una posizione molto chiara sul biogas, una delle soluzioni parziali e ingannevoli che gli allevamenti ci propinano.
Il biogas viene usato come combustibile nei motori o per generare energia e proviene dalla cattura del gas generato dalle deiezioni degli animali. Per questa ragione viene presentata come un’energia rinnovabile, fatta dagli “scarti di produzione” degli animali. Ma questa è solo una facciata, perché di fatto non vengono eliminate le emissioni provenienti dalla digestione dei ruminanti (che ricordiamolo, costituiscono il 91% delle emissioni degli allevamenti). Inoltre non dobbiamo dimenticare che il letame rilascia nitrati e particolato fine (come il PM2.5) che sono dannosi per la salute e l’ambiente, contaminando il suolo e le risorse idriche in caso di grandi quantità come quelle degli allevamenti intensivi.
Un altro problema del biogas è che non fa altro che incoraggiare l’espansione degli allevamenti intensivi, dato che la produzione di biogas è una risorsa economica. E qui si crea una preoccupante alleanza tra allevamenti e combustibili fossili: perché attraverso la presentazione del biogas come “energia pulita” le industrie fossili sono pronte a sfruttarla attraverso le loro strutture di distribuzione di gas naturale. Come mostra il report di Greenpeace infatti la Shell ha già investito in impianti che producono biogas dalle deiezioni degli allevamenti negli Stati Uniti e ha acquisito il maggiore distributore di biogas in Danimarca, che si rifornisce da queste strutture. Questa è una palese strategia per mantenere l’infrastruttura del gas attiva, rallentando ancora una volta la transizione a un’energia davvero sostenibile.
Gruppo Cremonini sotto analisi
Le grandi aziende produttrici di carne quindi non solo sono responsabili di grandi emissioni, ma sembra facciano di tutto solo per continuare a produrre e guadagnare come se niente fosse – business as usual. Per questo Greenpeace ha dedicato un’accurata indagine a10 grandi aziende per vedere quali effettivamente fossero i loro impegni concreti per diminuire le proprie emissioni. Tra questi spicca il Gruppo Cremonini, uno dei più grandi produttori italiani di carne.
Come spesso accade nel bilancio di sostenibilità di questi gruppi sono presenti impegni per la riduzione delle emissioni, ma nel caso di Cremonini, evidenzia Greenpeace, mancano target vincolanti di riduzione e obiettivi specifici. Questo nonostante il gruppo abbia aderito alla Science Based Target Initiative (SBTi), un programma che supporta le aziende nella definizione di obiettivi scientifici per ridurre gli impatti climatici – ma senza fissare obiettivi – e ricordiamo che, ad esempio, le nuove norme europee sulle compensazioni di emissioni parlino di obiettivi ma anche di fondi messi a disposizione per raggiungerli – la credibilità dell’intenzione di riduzione è tutta da dimostrare.
Quello che emerge dall’analisi di Greenpeace è molto semplice: questi gruppi stanno spingendo sull’acceleratore per continuare a produrre tantissima carne e, sfruttando il modello intensivo, massimizzare il guadagno, senza mettere in discussione il loro modo di produrre e i danni che questo causa.
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Le soluzioni proposte da Greenpeace
In questo contesto è necessario mettere in pratica normative vincolanti, che come prima cosa obblighino queste grandi aziende a dichiarare tutte le emissioni di cui sono responsabili – dirette e indirette. Senza possibilità di poter mentire su quanto effettivamente stanno distruggendo il pianeta.
Questo è il primo passo per attuare una riduzione delle emissioni, che passa necessariamente attraverso la riduzione drastica degli animali allevati, il divieto di apertura di nuove strutture intensive – contrariamente a quanto sta succedendo nel nostro Paese – e politiche che privilegiano sistemi alimentari più vegetali e davvero sostenibili.
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