“Siamo in un’emergenza di adattamento. Dobbiamo comportarci di conseguenza. E adottare misure per colmare il divario di adattamento, ora”. Le parole del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres suonano ancora più urgenti proprio nei giorni in cui l’Europa è stata sferzata dalla tempesta Ciaran, il ciclone extra-tropicale giudicato tra i più intensi della storia dagli esperti, che ha visto sferzare Paesi come l’Italia da venti oltre i 150 chilometri orari e onde alte più di 15 metri.
Di adattamento dovrà necessariamente parlare la Cop28, l’annuale conferenza sul clima che quest’anno si terrà a Dubai a partire dal 30 novembre. E proprio in vista di questo cruciale appuntamento il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, noto con l’acronimo UNEP, ha rilasciato l’Adaptation Gap Report 2023. Nelle 112 pagine del report viene ribadito, dati alla mano, che il mondo è impreparato, poco attrezzato economicamente e privo della necessaria pianificazione, lasciandoci tutti esposti.
Il rapporto UNEP avverte che, invece di accelerare, i progressi nell’adattamento ai cambiamenti climatici sono in fase di stallo. Tanto da scegliere una copertina a effetto: su uno sfondo rosso acceso la scena è dominata da una casa divorata dalle fiamme, mentre una giovane ragazza assiste impotente, provvista solo di un misero secchio pieno d’acqua. Come a sintetizzare che senza i necessari strumenti di adeguamento la crisi climatica potrebbe travolgerci tutte e tutti.
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Gli insostenibili costi per il mancato adattamento
L’inferno climatico è lastricato di promesse non mantenute: è ciò che si evince dal report sull’adattamento diffuso da UNEP. “Nonostante gli impegni presi alla Cop26 di Glasgow di raddoppiare il sostegno finanziario per l’adattamento portandolo a circa 40 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 – si legge – i flussi pubblici multilaterali e bilaterali di finanziamenti per l’adattamento verso i Paesi in via di sviluppo sono diminuiti del 15%, arrivando a circa 21 miliardi di dollari nel 2021. Allo stesso tempo, si stima che il divario finanziario per l’adattamento sia pari a 194-366 miliardi di dollari all’anno”.
D’altra parte è noto che una delle maggiori ingiustizie sociali della crisi climatica è che i Paesi più colpiti sono quelli meno colpevoli di averla generata – anche se, come dimostra il recente caso della Toscana (che si aggiunge a una lunga lista di disastri), anche i Paesi più ricchi devono fare i conti con gli eventi meteorologici estremi. Il report mostra come i costi di adattamento aggiornati per i Paesi in via di sviluppo sono stimati tra 215 e 387 miliardi di dollari all’anno in questo decennio, riflettendo stime più elevate rispetto agli studi precedenti che sono destinati ad aumentare in modo significativo entro il 2050.
Va considerato poi come è altamente probabile che i costi aumenteranno rapidamente nei prossimi decenni, soprattutto in assenza di misure di mitigazione e adattamento efficaci. “Il rapporto di oggi mostra che il divario nei finanziamenti per l’adattamento è il più alto mai registrato. Il mondo deve agire per colmare il divario di adattamento e garantire la giustizia climatica”, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, commentando i risultati del rapporto.
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Il mancato sviluppo del fondo Loss and Damage
L’egiziana Cop27 dello scorso anno aveva ottenuto, a voler essere ottimisti, risultati interlocutori. L’unico vero traguardo, salutato con soddisfazione in maniera pressoché unanime, era stato il riconoscimento formale del fondo Loss and Damage (Perdite e Danni): si era cioè sancito di istituire un fondo ad hoc destinato a ristorare le conseguenze dei cambiamenti climatici che non possono essere evitate né mitigate, soprattutto a sostegno degli Stati più colpiti dai danni irreversibili.
Dal novembre dell’anno scorso a quello di quest’anno, però, non si sono registrati grandi passi in avanti su quello che rimane, finora, una formulazione di principio. L’ultimo stallo, ad esempio, vede contrapposti da una parte i Paesi ricchi, che spingono per farlo gestire alla Banca Mondiale, mentre gli Stati emergenti vogliono che sia un fondo indipendente. A tale aspetto il report UNEP dedica un capitolo ad hoc. Si cita ad esempio uno studio recente che indica che solo le 55 economie più vulnerabili al clima hanno già subito perdite e danni per un valore di oltre 500 miliardi di dollari negli ultimi due decenni. Ma la questione centrale resta un’altra: chi finanzia il fondo? Banalmente: chi ci mette i soldi?
Non è un mistero che l’Onu spinge affinché una delle fonti di finanziamento possano derivare dalle entrate fiscali dei grandi emettitori e inquinatori. Una tassa ad hoc sulle multinazionali e sulle aziende più impattanti: è questa l’idea che viene confermata anche dal report UNEP sull’adattamento. “I baroni dei combustibili fossili e i loro sostenitori hanno contribuito a creare questo pasticcio; devono sostenere coloro che ne soffrono”, ha affermato nel suo messaggio il segretario generale dell’Onu António Guterres invitando i governi a tassare i “profitti straordinari dell’industria dei combustibili fossili” e a destinare parte di questi fondi ai Paesi più vulnerabili.
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Cosa serve per un efficace adattamento?
Non tutte le speranze comunque sono ancora perdute. Le autrici e gli autori del rapporto sostengono un adattamento ambizioso, capace di migliorare la resilienza, che è particolarmente importante per i paesi a basso reddito e i gruppi svantaggiati, comprese le donne. Ad esempio, ogni miliardo di dollari investito nell’adattamento contro le inondazioni costiere porta a una riduzione di 14 miliardi di dollari dei danni economici, mentre 16 miliardi di dollari all’anno investiti in agricoltura potrebbero aiutare ben 78 milioni di persone a evitare la fame cronica dovuta agli impatti climatici.
Ulteriori strade includono le rimesse, l’aumento e l’adattamento dei finanziamenti alle piccole e medie imprese, lo spostamento dei flussi finanziari verso percorsi di sviluppo a basse emissioni di carbonio e resilienti al clima e una riforma dell’architettura finanziaria globale. “Le banche multilaterali di sviluppo dovrebbero inoltre destinare almeno il cinquanta per cento dei finanziamenti climatici all’adattamento e al cambiamento dei loro modelli di business per mobilitare molti più finanziamenti privati per proteggere le comunità dagli estremi climatici”, ha spiegato su questo punto il segretario delle Nazioni Unite.
Il rapporto UNEP identifica inoltre sette modi per aumentare i finanziamenti, anche attraverso la spesa interna e i finanziamenti internazionali e del settore privato. Secondo le stime delle esperte e degli esperti delle Nazioni Unite, da soli i finanziamenti per l’adattamento necessari per attuare le priorità di adattamento nazionali sono stimati in 387 miliardi di dollari all’anno. Si tratta di un punto molto importante per il nostro Paese, che invece su questo fronte sembra andare in direzione ostinata e contraria.
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L’adattamento italiano
Se è proverbiale la capacità di adattamento italiano, lo è meno, molto meno, l’adattamento climatico. Le torrenziali piogge in Toscana hanno ricordato come il nostro Paese sia ancora assolutamente sguarnito da qualsiasi forma di tutela agli eventi meteorologici estremi. Ne è prova, ad esempio, il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), che risulta ancora in fase di VAS (la Valutazione Ambientale Strategica). Lo scorso agosto è terminata la fase di consultazione e però, da allora, non si sono più registrate novità. In più di un’occasione il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin ha affermato che il piano sarebbe stato adottato attraverso un decreto, ma nella lunga lista di decreti legge preparati dal governo Meloni (da quello Energia al Piano Mattei) non c’è traccia di quello sull’adattamento. Senza considerare, poi, che in Italia non esiste una legge quadro sul clima, così come richiesto dalle associazioni ambientaliste e dalla comunità scientifica.
La sensazione è che prima del PNACC possa arrivare a compimento un altro provvedimento, quello sì certo, da parte del governo Meloni. Con la legge di bilancio 2024, infatti, l’esecutivo ha previsto un articolo destinato alle “misure in materia di rischi catastrofali”. Nella bozza che è stata destinata al Parlamento, che dovrà approvarla (senza, forse, neanche discuterla, visto il diktat sugli emendamenti chiesto dalla premier alla maggioranza parlamentare), all’art.24 si prevede che entro il 31 dicembre 2024 le imprese saranno tenute a stipulare contratti assicurativi a copertura dei danni “direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale”.
Ma quali sono questi rischi catastrofali? Dalla bozza non c’è una definizione precisa ma secondo alcune anticipazioni giornalistiche vanno intesi sismi, alluvioni, frane, inondazioni ed esondazioni. Mentre vanno esclusi altri fenomeni comunque causati dai cambiamenti climatici, come per esempio la siccità, e altri fenomeni dannosi per una impresa come per esempio gli incendi. Per questi ultimi è naturalmente possibile stipulare una polizza incendio che però non è obbligatoria.
Nel secondo comma viene previsto che lo Stato, compatibilmente con le proprie disponibilità, continuerà comunque a erogare indennizzi ma verranno in ogni caso privilegiate le imprese assicurate. Si prevede infine per queste misure una dotazione specifica di 5 miliardi di euro, che dovrebbe poi essere alimentata anche con le risorse finanziarie versate dalle imprese di assicurazione a titolo di remunerazione della copertura, al netto delle commissioni trattenute da SACE.
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