Quando si parla di giovani delle aree interne è facile ascoltare o leggere la parola coraggio. Il coraggio di restare, il coraggio di tornare. È come se ci fosse un filo rosso a unire le tante storie virtuose e di impegno nell’Italia interna: giovani agricoltori e artigiane, nuovi ristoratori e imprese innovatrici, giovani coppie che arrivano e che restano.
Nonostante tutto, nell’Italia remota e periferica, c’è questa dose di caparbietà che investe una parte della popolazione giovanile e che sembra determinare i destini di chi ha diciotto, venti, trent’anni. Imprese insolite, di singoli o al massimo di coppie, che sfidano l’esistente in alta quota, in provincia o in campagna a colpi di coraggio. Perché esiste questa tendenza a considerare le storie dei giovani delle aree interne come nuovo eroismo? Forse è l’esito di un certo storytelling sui margini che non lascia spazio alla dimensione collettiva e politica, ai bisogni della popolazione giovanile. Bisogna ascoltare, osservare, approfondire; occorre analizzare nel concreto quel “nonostante tutto”.
Lo studio del Gran Sasso Institute e i dati forniti dal progetto Giovani Dentro
L’esigenza di lavorare attraverso dati e analisi dei fenomeni di migrazione degli under 40 nelle aree interne ha portato il Gran Sasso Science Institute (GSSI) dell’Aquila a studiare le scelte di vita dei giovani, problematizzando partenze e ritorni. Da qualche settimana il gruppo di ricerca ha pubblicato sulla rivista scientifica “Regional Studies, Regional Science” i risultati della prima indagine.
“Questo è il primo studio che cerca di tracciare le caratteristiche dei giovani che restano e che arrivano. Abbiamo avuto come base dello studio un campione di mille tra ragazze e ragazzi under 40. Il lavoro è iniziato con il progetto Giovani Dentro curato da Riabitare l’Italia. Attraverso la somministrazione dei questionari, il percorso di Riabitare l’Italia ha fornito dei dati che abbiamo interpretato e criticato, consegnando una panoramica dei diversi gradi di migrazione e di propensione a restare e a partire”, spiega a Economiacircolare.com Giulia Valeria Sonzogno, ricercatrice del GSSI, che ha condotto la ricerca insieme a Alessandra Faggian e Giulia Urso.
Con questa analisi quantitativa è possibile capire meglio le ragioni di chi intende andare via da un paese e di chi decide di restare. Secondo la ricerca, la maggioranza dei giovani che vive nelle aree interne vuole rimanere nel suo paese: “il 53% dei giovani intervistati è fermamente convinto di restare, mentre soltanto circa il 12% preferirebbe lasciare questi territori. Ancor più interessante è il profilo dei migranti per necessità: circa il 16%, nonostante vorrebbe restare, si sente costretto a lasciare il proprio comune periferico perché non offre opportunità lavorative e prospettive di vita. Tuttavia, sarebbe interessante indagare se lavorare da remoto o lavorare da casa potrebbe alimentare le possibilità di permanenza per i soggetti all’interno di questo gruppo che ora si sentono costretti a migrare. Infine, circa il 19% rimarrà a causa della mancanza di alternative”, si legge nelle conclusioni dello studio.
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Le differenze territoriali
Analizzare le aree interne interrogando la popolazione giovanile ha portato le ricercatrici del Gran Sasso Science Institute a prendere in considerazione le differenze territoriali delle varie zone marginali. Secondo i dati raccolti, infatti, nelle zone dell’Italia centrale c’è una maggior probabilità di rimanere e di considerare il proprio territorio come progetto di vita. Potrebbe sembrare banale, ma esplicitare questo tipo di differenze è invece un esercizio importante, perché la diversità delle aree interne è spesso occultata e volutamente trascurata, in favore di una narrazione che tende a uniformare ciò che non è città.
“Questo risultato – si legge nella ricerca – potrebbe essere dovuto al fatto che i giovani che vivono nell’Italia centrale beneficiano di un ambiente più connesso e policentrico (ad esempio Roma e altre importanti città di medie dimensioni) rispetto ad altre macroaree, in particolare le regioni meridionali e le isole. Tuttavia, per comprendere meglio questi modelli geografici, sono necessarie ulteriori indagini per fornire prove specifiche in merito alle condizioni favorevoli locali che influenzano questo esito positivo”.
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Vivere i luoghi e restare per necessità
“Tornate, non dovete fare altro”, recita un verso del paesologo e poeta Franco Arminio, che in sostanza esorta i giovani del Sud a un ritorno nei paesi che si stanno spopolando. Ma dalla ricerca del GSSI emerge una tensione non avvertita dal romanticismo, ossia che chi è attivo nelle organizzazioni sociali locali e nazionali ha il doppio delle probabilità di essere un necessity stayer, cioè una persona che resta per necessità. Di certo emerge un attaccamento al territorio, c’è un legame con i luoghi che passa anche per forme collettive e dell’attivazione sociale. Ma l’atteggiamento di necessità “può rivelare le difficoltà percepite e connesse a questa scelta”, precisa lo studio.
Incitare a tornare senza prendere in considerazione i rapporti di forza, i vecchi e nuovi patriarchi, il ricatto lavorativo, le dinamiche di potere familiari e clientelari – che in un paese possono diventare più tossiche rispetto a una grande città – vuol dire correre il rischio di infragilire ancor di più i territori. Oltre a non considerare i dati e la realtà, il ricorso alle storie coraggiose elencate all’interno del grande racconto sulla resilienza dei piccoli centri, a volte fa percepire le voci dei giovani soltanto come eccellenze che hanno saputo innovare, che ce l’hanno fatta con la loro idea di business.
In questo modo l’autorealizzazione offusca tutto il resto. Le lotte e i percorsi collettivi, la sottrazione di servizi e di reddito, le rivendicazioni e i conflitti, le lacerazioni e le spinte opposte con le quali può convivere chi abita in provincia: riprodurre una cultura tradizionale che ti protegge in qualche modo dalla ferocia dell’esclusione sociale e immaginarsi in un altrove, che a volte non arriverà mai. Quando i desideri, gli immaginari e l’altrove sono coltivati sotto casa dal protagonismo giovanile, allora c’è il pericolo che non vengano considerati o che possano essere fermati, ridimensionati, spezzati. E forse quel dato sull’attivismo racconta questo: di esperienze sociali, di giovani sindaci, di progetti di mutualismo e di welfare che ripensano i margini ma che restano inascoltati o esclusi dalle politiche dei ministeri.
L’attenzione alle nuove forme della socialità e dell’abitare, le nuove espressioni dell’attivismo, l’opposizione locale a forme di sfruttamento e di disuguaglianze sono pratiche e discorsi dei giovani delle aree interne. In generale, a differenza delle politiche centrali, c’è una parte di popolazione giovanile che pianifica di rimanere nell’Italia interna. Del resto, come ricorda Pierluigi Sacco, ordinario di Economia della cultura alla IULM di Milano, nel suo saggio contenuto in Contro i borghi, “l’Italia ha troppo spesso cercato di rimediare alla mancanza di una solida cultura della pianificazione territoriale con l’invenzione di formule facili e accattivanti, il cui interesse risiede più nei dispositivi retorici che sanno attivare piuttosto che nel repertorio di processi e soluzioni che propongono”.
Per Sacco uno sviluppo locale sostenibile nelle aree interne è concretizzabile soltanto se desiderato. E se le comunità giovanili sono essenziali per realizzare la conversione ecologica dei territori, vuol dire che la vivibilità dei luoghi deve essere garantita e percepita da quella fascia di popolazione.
“Lo studio ci dice che esiste una domanda in questi territori, ci sono giovani delle aree interne che considerano il proprio paese come spazio della contemporaneità, dove voler vivere dignitosamente e dove mettere a terra una conversione ecologica dei territori. Bisogna rispondere a questo segmento di popolazione, non solo con i servizi essenziali, ma con processi politici che cedano potere e che coinvolgano realmente i giovani”, aggiunge Sonzogno.
Questo studio può essere dunque un’occasione per aprire nuove discussioni pubbliche fondate sull’interpretazione dei dati, piuttosto che sul sentimento e sulle tendenze narrative legate alle aree interne e ai giovani. Un confronto in cui abitare l’Italia interna sia considerato un diritto, e non un sacrificio.
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