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lunedì, Maggio 13, 2024

“Tra 20 anni le montagne saranno un rifugio climatico: agiamo ora”. Intervista a Giorgio Vacchiano

Nella Giornata internazionale della montagna, abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano, ricercatore, docente e scrittore, del presente e del futuro delle montagne: dalla gestione forestale all’emergenza climatica, passando per lo spopolamento delle aree interne sino alla tutela della biodiversità

Giulia Quercini
Giulia Quercini
Giornalista freelance esperta di comunicazione per il terzo settore e le associazioni non-profit, lavora principalmente su temi di attualità, con particolare riguardo alle tematiche legate alla sostenibilità sociale, ambientale e alle tematiche di genere. Ha lavorato per Greenpeace Onlus, World friends e Legambiente Onlus, dove si è occupata principalmente di ufficio stampa, comunicazione e nuovi media. Ha scritto e collaborato con l'agenzia di stampa Dire, Left, il manifesto. Attualmente scrive e si occupa di comunicazione per EconomiaCircolare.com

Nominato nel 2018 dalla rivista Nature tra gli 11 scienziati emergenti nel mondo che “stanno lasciando un segno nella scienza”, Giorgio Vacchiano è un appassionato e profondo conoscitore delle montagne italiane e delle loro foreste. Con una cattedra in gestione e pianificazione forestale all’Università di Milano, ha incentrato la sua ricerca scientifica sui modelli di simulazione in supporto alla gestione forestale sostenibile, la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico e ai disturbi naturali delle foreste temperate europee. Ha all’attivo numerose pubblicazioni scientifiche e un libro “la resilienza del bosco”, edito con Mondadori. Attualmente è membro della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF), dell’Ecological Society of America (ESA) e consigliere dell’Associazione Pro Silva Italia.

Oggi è la Giornata internazionale delle montagne: qual è lo stato di questi indispensabili ecosistemi nel nostro Paese e cosa possiamo fare per tutelarli?

Per raccontare i cambiamenti in atto nelle montagne italiane, dobbiamo necessariamente partire dallo stato di benessere ed espansione delle nostre foreste montane: attualmente l’Italia è tra i primi paesi al mondo per velocità di aumento delle foreste, che hanno riconquistato aree rurali e spazi interni. Nonostante apparentemente possa sembrare una buona notizia, l’abbandono di pascoli e coltivazioni da parte delle popolazioni montane, per un’insostenibilità economica forte di quei territori – come confermato dagli ultimi dati pubblicati dall’inventario forestale nazionale italiano – ha portato le popolazioni locali a lasciare queste zone in favore delle pianure, e dunque ad abbandonare totalmente la gestione delle montagne e dei loro boschi.

Se a questo aggiungiamo la vulnerabilità climatica e i cambiamenti climatici che in montagna procedono al doppio della velocità rispetto alle pianure e che stanno provocando fenomeni sempre più estremi come incendi, siccità, venti estremi, abbiamo un quadro preciso dello stato delle nostre montagne. La siccità che quest’estate che ha colpito molte foreste, appenniniche e alpine, ci dimostra che in montagna gli eventi climatici avversi sono amplificati e che, proprio in un momento in cui le montagne hanno più bisogno delle foreste e dei loro servizi, non possiamo permetterci di abbandonarle a loro stesse: le foreste sono grandi alleate contro i cambiamenti climatici – sequestrando il carbonio, proteggendo i territori dal dissesto idrogeologico, trattenendo i suoli, i massi, contrastando l’effetto delle piogge estreme sui versanti – ma se vengono colpite da questi eventi estremi, vengono meno al loro ruolo.

Si pone quindi la necessità sempre più impellente di aumentare la funzione delle foreste montane, per irrobustire la loro capacità di resistere alle pressioni esterne del clima, cercando però di riportare le popolazioni sulle montagne e bloccando questo processo di abbandono della loro gestione che rischia di renderle molto meno funzionali per noi. Questo deve essere chiaro: la foresta lasciata a sé stessa come bosco funziona benissimo, va avanti tranquilla per la sua strada ecologica. Il problema è la funzione per la società.

In questa giornata voglio quindi lanciare un appello alla politica per la definizione di strategie che rilancino un rapporto con le foreste di montagna economicamente sostenibili per le popolazioni che le vivono e che vada in direzione di una maggiore resistenza del bosco. Io credo che il mercato dei crediti ecosistemici al momento sia una delle possibilità messe in campo e più in generale il pagamento dei servizi ecosistemici, ovvero riconoscere un valore economico a chi gestisce la foresta o produce servizi intangibili per la società ma fondamentali, come la protezione dai danni idrogeologici. È indubbio che sia necessario allargare la riflessione a molte altre difficoltà che si incontrano nella gestione della montagna, per esempio la frammentazione delle proprietà o la necessità di incentivare la gestione consorziata o associata, mettendo insieme piccole priorità, come ribadisce la strategia nazionale forestale.

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La strategia forestale italiana segna un punto di svolta in Europa sul tema. 

L’Italia è il primo paese in Europa ad essersi dotato, all’inizio di quest’anno, di una strategia nazionale forestale, in coerenza con la strategia forestale europea. La strategia nazionale definisce le priorità per la gestione delle foreste italiane nei prossimi venti anni con alcuni pilastri fondamentali, tra i quali la pianificazione e l’aumento delle funzioni di regolazione del bosco, ovvero la necessità di una gestione forestale precisa e pianificata, l’uso sostenibile delle risorse in legno e la necessità di introdurre incentivi economici per i gestori e i proprietari per le pratiche che generino valore ambientale, come il sequestro di carbonio negli ecosistemi.

Le linee guida sulle quali è nata discendono dalle linee guida dettate dalla strategia forestale europea. Nel nuovo regolamento sul cambiamento sull’uso del suolo (LULUCF) l’Europa si è però data un altro obiettivo per quanto riguarda il sequestro di carbonio negli ecosistemi forestali: ovvero l’aumento del carbonio sequestrato sino a 350 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Un obiettivo estremamente ambizioso se pensiamo che ad oggi siamo a circa 300 milioni di tonnellate di CO2 sequestrate all’anno: questo aumento del 15% annuo è messo a repentaglio però dai dati, che ci dicono che il trend previsto in realtà è in diminuzione, sia perché lo stress climatico rischia di rallentare e interrompere la fotosintesi degli alberi e sia perché la congiuntura internazionale induce a pensare che si possa utilizzare il legno anche per la generazione di energia carbonizzata e non fossile. La grande sfida in tal senso è assicurare anche l’aumento dell’assorbimento di carbonio, che può avvenire solo incrementando la gestione sostenibile.

Altro punto fondamentale per l’Italia è il terzo pilastro della strategia forestale, che riguarda l’uso del legno. In questo caso il come usiamo il legno è di fondamentale importanza: in Italia difatti l’85% del legno prelevato finisce bruciato per generare energia e invece abbiamo grande dipendenza dall’estero per quanto riguarda gli usi industriali a lungo termine, che oltre a generare maggior valore economico, tengono anche il carbonio intrappolato più a lungo. Una razionalizzazione dell’uso del legno che passa non solo dalla gestione del bosco, ma anche dall’investimento su tutta la filiera è di fondamentale importanza per il nostro Paese: l’abbiamo toccato drammaticamente con mano con Vaia, quando abbiamo dovuto mandare tutto il materiale all’estero perché non avevamo abbastanza segherie specializzate in Italia. Agire su tutta la filiera del legno per legarla al territorio, genera posti di lavoro e può essere garanzia di sostenibilità se fatta all’interno di un lavoro di pianificazione.

Anche il quarto pilastro della strategia forestale, che ci impone invece di non incidere negativamente sulla deforestazione in altri Paesi, è una novità assoluta all’interno di una strategia forestale nazionale. Per capirlo, partiamo dal principio che i nostri consumi determinano chiaramente un aumento della deforestazione in altri paesi: lo vediamo, per esempio, nei Paesi tropicali, dove la deforestazione tropicale diviene la seconda causa di cambiamento climatico nel mondo, dopo l’uso di combustibili fossili. Proprio ieri il consiglio europeo ha approvato il nuovo regolamento sulla deforestazione importata, che entrerà in vigore a breve e poi darà 18 mesi di tempo agli operatori economici per adeguarsi, affinché chiunque voglia immettere sul mercato europeo un certo tipo di prodotti considerati a rischio dovrà dimostrare che sono stati ricavati senza deforestazione o degrado – la vera novità in tal senso. Non solo la deforestazione ma anche il cambiamento sostanziale della funzione del bosco e della sua biodiversità saranno criteri di giudizio. Si dovrà dimostrare con documenti e fornendo le coordinate geografiche del luogo di produzione che lo stato delle foreste o dei campi relativi alla filiera agricola non siano degradati o deforestati.

È la prima strategia al mondo che ha al suo interno una cosa di questo genere: chiaramente questo non risolve il problema della deforestazione globale ma ci permette di trainare altri paesi a fare lo stesso.

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State lavorando ad un nuovo decreto interministeriale che introduce nuovi criteri nazionali per la generazione dei crediti di carbonio. Ci può parlare di questa importante novità?

Si, sto lavorando nel comitato scientifico dei nuovi criteri nazionali per la generazione dei crediti di carbonio, che se tutto va bene, entro la primavera dovrebbe sfociare in un decreto interministeriale – Masaf e Mase – per la disciplina della generazione dei crediti da gestione dei boschi, coerente con il carbon farming, l’iniziativa sviluppata dalla Commissione europea, che mira a “incoraggiare le pratiche agricole che contribuiscono a catturare l’elemento dall’atmosfera e a immagazzinarlo nei suoli o nella biomassa”.

Una notizia che tanti stavano aspettando: questa nuova regolamentazione definirà un registro nazionale dei crediti di carbonio da gestione forestale, delle regole chiare per evitare il doppio conteggio, per definire in modo chiaro cos’è l’addizionalità e anche per dotare i piani di gestione forestale del loro corredo di crediti. Rispetto alla baseline che sarà regolamenti forestali vigenti, chi fa azioni o pianifica azioni migliorative di gestione del bosco può anche quantificare questi crediti di carbonio. Saranno vendibili solo in Italia attraverso un canale parallelo rispetto ai crediti istituzionali e ai mercati internazionali, che non vengono invece toccati.

Sarà credibile e finalmente regolamentato il nuovo codice forestale del carbonio, che uniformerà i vari standard esistenti e cercherà di disciplinare il far west che esiste al momento, aprendo la possibilità di generare crediti dalla gestione forestale. Il carbon farming ci ha fatto modificare degli aspetti in corsa, per renderci pienamente compatibili con le norme previste a livello europeo sull’introduzione della questione dei co-benefici: diviene obbligatorio difatti che un progetto di crediti di carbonio vada a incidere in positivo anche sulla biodiversità, sull’economia circolare e sugli gli aspetti sociali. Partendo da questa nuova norma, nel nuovo decreto interministeriale abbiamo inserito una nuova parte sui co-benefici, proprio per evitare il rischio che poi lavorare per i crediti di carbonio sia controproducente per altri aspetti, per esempio la biodiversità.

Altro aspetto che sarà reso obbligatorio nel nuovo decreto è l’esistenza di un piano di gestione delle foreste: sappiamo che al momento solo il 15% delle foreste italiane ha un piano di gestione. Al netto che la valorizzazione dei crediti di carbonio offre al momento grandi opportunità, è comunque necessario che la gestione forestale sia ben pianificata, razionale e scientificamente basata e sostenibile: questo è un requisito importante per l’Italia.

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È credibile, allo stato attuale, il metodo di calcolo del carbonio? E cosa si intende con eliminazione del carbonio di alta qualità?

Finora la rimozione del carbonio con progetti forestali è stata soggetta a una serie di problemi che ne hanno minato fortemente la credibilità: calcolare quanto carbonio il tuo progetto assorbe in più, comporta che tu determini quanto ne puoi assorbire senza il tuo progetto, ovvero partire da uno scenario di base, da una baseline. La baseline è però qualcosa di teorico e ipotizzabile, perché non è verificabile, quindi molti abbassano lo scenario di base inziale, per gonfiare quanto il progetto abbia assorbito in più.

Inoltre, il controllo post intervento (ad esempio dopo la piantumazione) diviene fondamentale per garantire gli alberi che non muoiano. L’alta qualità introdotta con il carbon farming garantisce che questi problemi vengano risolti e che la compensazione sia l’ultimo passo che compie un’azienda: anche noi nel codice nazionale chiariremo che le aziende che comprano i crediti di carbonio forestale, devono prima dimostrare di impegnarsi in processi di riduzione delle emissioni e poi in processi di compensazione. Su questo tema, un report molto interessante e passato sotto traccia, uscito nei primi giorni della COP, e redatto da un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, – dal titolo Integrity Matters: Net Zero Commitments by Businesses, Financial Institutions, Cities and Regions – ha definito delle linee guida contro il greenwashing ambientale: tra queste c’è la gerarchia della mitigazione, che deve prima passare dalla riduzione e poi dalla compensazione. Una lezione importante per aziende e consumatori.

Quali passi vede necessari e auspicabili nel futuro?

È necessario estendere nel futuro questi sostegni economici o incentivi finanziari anche alla biodiversità. In questi giorni si apre la Cop15 sulla biodiversità a Montreal, l’incontro in cui i rappresentanti di tutti i paesi dovranno concordare sui nuovi obiettivi globali per la biodiversità al 2030 – dopo un decennio in cui abbiamo clamorosamente toppato tutti gli obiettivi per il 2020 e in cui la crisi della biodiversità ha superato anche quella climatica, anche se se ne parla molto meno. Tutte le aziende hanno un’impronta sul clima e la biodiversità, perché dipendono da qualche territorio fisico: in alcuni paesi ci sono esperienza pilota di habitat banking, ovvero una disponibilità di aziende e consumatori a pagare per sostenere attività in cui la biodiversità viene conservata e incoraggiata, neutralizzando gli impatti negativi delle attività aziendali.

Mi auguro che si vada sempre più verso una tutela massiva della biodiversità, che è un campo più difficile da normare ma che può essere un ulteriore strumento per connettere cittadini, territori, pianura e montagna. Tra 20 anni le nostre montagne saranno utilizzate come rifugio climatico da chi dovrà lasciare coste e pianure: iniziamo a mettere in campo adesso le strategie per il nostro domani.

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