Le città della rete ZWE (Zero Waste Cities) hanno di recente accettato la candidatura di due importanti città europee, per verificare se nei prossimi due anni riusciranno a raggiungere gli obiettivi di diventare città senza rifiuti, e ottenere così la certificazione ufficiale della rete: Barcellona e Monaco. Ada Colau, la sindaca uscente di Barcellona, ha dichiarato a questo proposito: “Le grandi città sono in debito con il loro territorio: produciamo un’enorme quantità di rifiuti ed è ora che ne diventiamo responsabili. L’impegno di Barcellona nella strategia Rifiuti Zero dimostra che ci teniamo, e che agiamo di conseguenza”.
Abbiamo intervistato Eloi Badia, assessore all’emergenza climatica della giunta Colau, sulla nuova scommessa della città di affrontare seriamente l’emergenza ecologica in corso.
In che modo la città di Barcellona sta sviluppando l’economia circolare?
Anche se potremmo parlare di energia o di acqua, preferisco concentrarmi sull’aspetto della raccolta differenziata dei rifiuti. A Barcellona, soprattutto nell’area metropolitana, ci troviamo davanti a percentuali di raccolta differenziata e riuso dei materiali che sono molto basse. Si parla di circa il 38%. Non c’è davvero la concezione del fatto che fare la raccolta differenziata significa creare risorse. Per capire come mai si dà questa situazione e cambiarla, ci sono almeno due realtà su cui si dovrebbe ragionare.
Da una parte il fatto che, come città, riceviamo materiali di scarto, ossia i prodotti di consumo che derivano da un processo di produzione in cui non abbiamo nessun ruolo, e che dobbiamo poi trattare come rifiuti da differenziare. Ciò significa che ci dovrebbe essere un cambiamento profondo a monte, attraverso l’eco-design, l’imballaggio e il processo produttivo più in generale, per generare, sin dall’inizio della vita del rifiuto, una diversa cultura che ruota attorno all’idea della responsabilità allargata del produttore, dove quest’ultimo si faccia carico di tutto il processo di vita del prodotto che ha immesso nel mercato. Il che significa non solo di pensare a come si fabbrica, come si distribuisce e come si vende, ma anche, una volta che il prodotto è stato usato, come si ripara, come si raccoglie e quale secondo trattamento potrà ricevere. In ogni caso, questo aspetto pratico e culturale, va oltre la capacità di intervento municipale, che si concentra sulla parte finale di questo lungo processo.
Dall’altra parte si dovrebbe ragione sulla riduzione del consumo e della produzione di rifiuti, attraverso un aumento della coscienza collettiva. Così come si dovrebbe porre attenzione alla riparazione e al riuso dei materiali. Su queste prospettive la città di Barcellona ha diversi progetti. Come “l’Università delle cose”, che segue lo slogan “meglio riparato che nuovo”. Sono dei progetti che mettono in campo nuovi mestieri, dove le persone possono riparare direttamente i loro prodotti. E poi c’è il riciclo. Su questo sappiamo che la legislazione europea è molto ambiziosa: ci chiede di riciclare il 90% dei contenitori di bibite, e noi siamo convinti che si potrà raggiungere questo obiettivo seguendo un’idea molto diffusa nel nord Europa: restituire il prodotto dove lo si è comprato, generando così un piccolo ricavo. Ciò lo si potrebbe fare per molti prodotti che riempiono la nostra quotidianità, il nostro giorno per giorno. Ma il nostro punto di forza, come città, è la raccolta differenziata, su cui stiamo facendo molti sforzi. Il progetto pilota, è il nostro progetto di punta, e lo chiamiamo “la individualizzazione”: abbiamo un contenitore anonimo, un cassonetto aperto h24 in tutta la città, in tutte le strade e in tutti gli edifici, che è diventato “individualizzato” perché è legato alla raccolta porta a porta. Questo progetto è iniziato da un quartiere di 10 mila famiglie. Siamo passati in due settimane dal 27 a quasi l’80% del materiale differenziato raccolto. Ecco perché questa ci sembra la strada da perseguire. Tra l’altro, il progetto è stato ispirato da quanto succede in Nord Italia, nelle esperienze lombarde, molto interessanti.
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Barcellona è una delle poche città europee che si è candidata allo “Zero Waste”, l’ambizioso progetto europeo che potrebbe certificarla come “città a rifiuti zero”. Per avere questa certificazione si prevede che arrivi in due anni a riciclare il 100% dei rifiuti prodotti. Come riuscirà, in così poco tempo, a raggiungere questo difficile obiettivo?
Siamo fortunati, perché nello Stato spagnolo in questo momento è in discussione la legge su “Raccolta differenziata e imballaggi”, e nella regione catalana si sta scrivendo la “legge sui rifiuti”. Avremo due strumenti legislativi (la cui fonte primaria è l’Ue) che ci consentiranno di avviare un aggiornamento importante, visto che siamo in presenza ancora di una legislazione estremamente arretrata. Basti pensare che nella maggioranza dei municipi spagnoli, in questo momento, non si separano gli scarti organici. E questo è l’elemento centrale di qualsiasi politica sui rifiuti. In Catalogna lo facciamo già da dieci anni, per cui per noi si tratterà di andare molto più avanti di questo, grazie a questi due strumenti legislativi. Basti pensare, per esempio, alle imprese che producono imballaggi: ci permetterà di cambiare la politica fiscale e farle pagare di più se producono materiali non riciclabili. Quello a cui miriamo, insomma, è generare un quadro legislativo e fiscale che sia positivo per tutti in merito a riciclare, riusare, ridurre il ciclo dei rifiuti: per chi fabbrica, per chi amministra e per la cittadinanza. In tutto questo, l’aspetto più difficile, chiaramente, è il fatto di generare un cambiamento culturale. Già stiamo abbandonando l’idea che una cosa si usa solo una volta, e che si può usare la plastica più di una volta.
Lei è ottimista sul fatto che in due anni si potrà raggiungere questo risultato?
È chiaramente difficile. Va considerato che Barcellona è una città “compatta”: è molto efficiente a livello di consumo, il che significa che le nostre emissioni pro-capite sono basse. Il nostro consumo di acqua è molto basso. Anche la nostra produzione di rifiuti non è alta. In questo senso siamo una città abbastanza efficiente. Tuttavia penso che stia crescendo la cultura ecologista e chi ama mangiare sano e biologico: se unito a quanto già detto, penso che possiate capire perché siamo ottimisti.
Quindi per poter portare avanti questo percorso ci dovrà essere una partecipazione attiva della cittadinanza?
Assolutamente sì.
Esiste un’attenzione particolare alla partecipazione nel processo specifico che dovrebbe portare Barcellona ad essere “Zero Waste”?
Barcellona ha una cultura della partecipazione che è storica. Noi la stiamo riempiendo di contenuti. Abbiamo, in questo senso, tre principali progetti di partecipazione.
Prima di tutto con le scuole, che sono ciò che maggiormente prepara il futuro. È il nostro impegno con “le scuole verdi”. Interveniamo sui curriculum scolastici. In un primo tempo avevamo puntato l’attenzione sulla raccolta differenziata, mentre adesso l’indicazione che diamo riguarda la visione più generale e integrale del processo di cui stiamo parlando. Questo spazio di partecipazione è molto importante: non si tratta di includere solo i bambini e i professori o i maestri, ma tutta la comunità educativa, anche i genitori e la potente cultura associativa di padri e madri.
In secondo luogo abbiamo creato la “tavola rotonda sulla plastica”. Abbiamo sin dall’inizio posto un accento sulla plastica. C’era già un livello di coscienza molto alta (si sapeva cosa accadeva nel mare, nei fiumi, etc). La plastica era una leva per il cambiamento. Dalla plastica si poteva passare ad avere una coscienza più generale. Abbiamo sostenuto l’impegno per ridurre la produzione e l’uso di plastica da parte delle imprese, delle cooperative, dell’economia sociale e anche di quella associativa (quindi a tutti i livelli economici). Stiamo parlando di supermercati come di piccole scuole. Con la tavola rotonda, che esiste da tre anni, abbiamo valorizzato tutte queste realtà e concentrato l’attenzione sulla plastica. Ora vogliamo trasformarla in uno spazio per sostenere lo “Zero waste”. Come ricordato, siamo già passati al porta a porta. Il che ha comportato quattro mesi di lavoro comunitario, svoltosi nel quartiere a cui ho fatto riferimento. Abbiamo contattato tutti gli esercizi commerciali, più di mille, per due volte, ma anche tutti i capiscala dei condomini, e le associazioni di quartiere, come i comitati di quartiere, creando così uno spazio collettivo di “empowerment”. Abbiamo parlato inizialmente di come fare la spesa e di come buttare la spazzatura, per poi finire a fare discorsi sul ciclo dei rifiuti e sull’ecologia più in generale. E se tutto un quartiere comincia a pensare e ad agire in questa direzione, dal singolo al collettivo si produce un processo di trasformazione che può anche arrivare a coinvolgere l’intera città. In questo modo, il processo di aumento della coscienza diventa un elemento strutturale del cambiamento a cui stiamo mirando.
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Questo sino ad oggi. Esistono progetti per il futuro?
Tutto è aperto, ed è in prospettiva. Noi continuiamo a finanziare progetti della cittadinanza che vanno in questa direzione (di 50 mila euro come di mille euro). Noi diamo gli strumenti e mettiamo in piedi gli spazi, lasciando però che sia la cittadinanza ad avere la responsabilità di indirizzarli, affinché questi progetti siano davvero frutto di una co-gestione.
Quali sono i passaggi amministrativo-burocratici che si devono realizzare per poter arrivare al risultato dello “Zero waste”?
Ce ne sono un paio di tipo amministrativo. Su questi il Comune ha istituito dei gruppi di lavoro che sono molto importanti. Direi, però, che gli strumenti su cui la nostra amministrazione si è più concentrata sono, da una parte, la contrattazione pubblica attraverso cui le imprese private integrano i nostri protocolli (il che è molto incisivo perché i termini del contratto plasmano le cose e le attività, in un modo e con una logica specifica), e, dall’altra, abbiamo realizzato ciò che noi chiamiamo “le istruzioni” all’interno del Comune: il regolamento interno al Comune. L’indirizzo forgiato è quello di eliminare i distributori automatici, i recipienti e gli imballaggi non riciclabili, tutta l’acqua in bottiglia, di usare materiale riciclabile in tutti gli eventi pubblici. Una politica che, benché fatta di piccole azioni puntuali, nel suo insieme crea un ecosistema che ci permette di cambiare i nostri modi di agire.
A questo proposito, sembrerebbe che ci sia una visione del “bene comune” alla base di questa decisione dello “Zero waste”, giusto? Ce la potrebbe chiarire?
Ci troviamo di fronte ad una visione ambientalista preoccupata dall’impatto ambientale, e ad una lettura spagnola delle indicazioni europee. Quando l’Ue ti dice che solo il 10% dei tuoi rifiuti può finire in discarica, ti obbliga ad una politica dei rifiuti estremamente efficiente. Ecco anche perché in Catalogna stiamo ultimando il piano per chiudere tutti gli inceneritori. Tutti si rendono così conto che la trasformazione profonda di tutte le fasi di realizzazione del prodotto deve essere radicale. E poi sappiamo che dal primo maggio la Spagna dipende dalle materie prime prodotte all’estero: ossia non esiste solo una crisi energetica o climatica, ma siamo anche di fronte ad una crisi dei materiali. Come si accede alle materie prime (ai materiali)? Come accediamo al materiale per fare una macchina? A prodotti che possano avere una seconda vita, che siano durevoli o che si possano riusare? Fino ad oggi ci siamo resi conto che questo era importante per l’ambiente, adesso ci stiamo rendendo conto che è cruciale per il futuro economico. Insomma, l’Ue ha una prospettiva geostrategica ed economica che sta alla base di queste scelte. L’economia circolare è ormai un principio economico che si armonizza con l’ecologia. Un po’ quello che è accaduto con le rinnovabili. Penso che ci si stia rendendo conto che non è solo una preoccupazione ecologista, ma una prospettiva economica di primo ordine. La politica dei rifiuti ormai va molto al di là di una visione ecologista, e diventa ecosistemica: la prospettiva ambientale, sociale ed economica vanno insieme, e hanno la stessa importanza.
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Perché è così importante la scommessa dello “Zero waste”, come progetto virtuoso, dalla prospettiva del “buen vivir” (i vantaggi del benessere a tutti i livelli)?
Una parte della cittadinanza è molto legata ai valori, ai principi e ha scommesso sulla ricerca di un equilibrio ecologico, e capisce velocemente cosa si sta facendo. Perché ha coscienza di ciò che accade al pianeta oggi. È importante. Bisogna tenerla in considerazione e aiutare affinché si unisca sempre di più al percorso. Inoltre va considerato che quello che stiamo generando è un’economia domestica. Con il porta a porta, per esempio. È molto più economico fare raccolta differenziata, riusare, ridurre gli imballaggi, per tutti. Dobbiamo solo comprendere come rendere evidente questa razionalità. Ciò che può essere fatto è fare la connessione tra i valori e la nostra vita domestica. Sarà sempre più evidente che questi due fattori stanno insieme. C’è un aumento del carburante? Uso meno la macchina. Andrò più in bicicletta e con il trasporto pubblico. Da parte nostra dobbiamo rendere possibile l’alternativa: il giorno che qualcuno decide di non usare più la macchina deve poter prendere un altro mezzo di trasporto. Così da aiutare tutta la comunità in cui vive (con meno incidenti stradali, meno inquinamento, etc). Se la sua esperienza sarà comoda e gratificante non ci saranno dei veri motivi per tornare indietro. E così si sarà aggiunta un’altra persona alla causa ecologica più generale.
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