“Ho letto sul Readers’ Digest che il fumo fa male. Così ho smesso subito di leggere il Readers’ Digest”. Con una battuta fulminante, nel loro libricino Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, poco più di vent’anni fa i comici Gino & Michele (Luigi Vignali e Michele Mozzati) stigmatizzavano e risolvevano uno stantio dibattito pedagogico.
Ogni volta che sono in gioco la modifica dei comportamenti, le informazioni e le conoscenze da sole non ce la fanno a produrre i risultati attesi. Per educare non basta trasmettere conoscenze. Soprattutto in una fase in cui il cambiamento è veloce e radicale.
Le sfide dell’educazione non possono prescindere dalla transizione ecologica
È in questo scenario che si collocano le sfide educative di questi anni, che preesistono alla sfida della transizione ecologica, ma da cui non possono prescindere.
La ragione è semplice. La società democratica, italiana ed europea, ha la finalità fondamentale di garantire a tutti condizioni dignitose di vita e per farlo occorre mettere tutti in condizione di capire in che mondo vivono per orientarsi nelle scelte da assumere, nella vita e nel lavoro. E qui trova piena cittadinanza la sfida della transizione ecologica ed il ruolo del sistema di educazione e istruzione che nel momento in cui forma le persone per le sfide della contemporaneità non può non comprendere nel suo orizzonte il nodo della sostenibilità, ambientale e sociale. Il tema, quindi, non riguarda solo alcune professioni tecniche, né si può risolvere nell’aggiornamento dei contenuti, come ancora fa la recente legge che istituisce l’obbligatorietà dell’educazione civica (legge 92/2019) né tanto meno nell’addestramento ad alcuni comportamenti oggi ritenuti compatibili con l’ambiente.
La formazione di base del cittadino europeo
L’orizzonte della sostenibilità è parte integrante della formazione di base del cittadino europeo contemporaneo, che innerva le competenze di cittadinanza.
Fare educazione alla sostenibilità non vuol dire costruire una nicchia protetta o una corsia “tematica” privilegiata. Perché la transizione ecologica è un processo di cambiamento, che non riguarda solo le tecnologie energetiche, ma gli stili di vita, l’organizzazione delle città, le trasformazioni della mobilità, l’attenzione ai vincoli ecologici e ai tempi della natura, le relazioni di comunità, e coinvolge in prima persona la mentalità e le abitudini della gente. È un cambiamento complessivo che richiede personalità con culture solide, con radicate competenze relazionali, fiduciose nei propri mezzi ed in quelli che la comunità mette a disposizione.
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Quale scuola per la transizione ecologica: il doppio vincolo
In questa prospettiva porsi il problema di “quale scuola per la transizione ecologica” vuol dire misurarsi con la crisi attuale del sistema di istruzione avendo chiari quali possano essere gli esiti possibili che contribuiscono a dare una risposta alle emergenze di oggi, sia a quelle educative che a quelle sociali e ambientali. Come diceva René Daumal “il primo passo dipende dall’ultimo” (René Daumal, Il Monte Analogo, ed. Gli Adelphi, 1991, p.139), dobbiamo sapere in che direzione vogliamo andare. Ci muoviamo in una situazione a doppio vincolo, il vincolo della crisi attuale ed il vincolo della prospettiva verso cui è indispensabile che la società contemporanea si muova.
Formazione: una società più disuguale e più ignorante
Il punto da cui partiamo dovrebbe essere abbastanza chiaro. I risultati prodotti dal sistema di istruzione italiano sono ampiamente insoddisfacenti, ce lo dicono le indagini internazionali. Per la sinergia perversa di due fenomeni: l’abbandono scolastico e l’insuccesso formativo, che contribuiscono all’aumento delle disuguaglianze in educazione. Il risultato infatti è un numero crescente di bambini e ragazzi allontanati dalla scuola, o perché la abbandonano precocemente o perché ne escono frustrati, anche se con un titolo riconosciuto, frustrati perché privi delle competenze di base e perché demotivati e sconfitti nella loro curiosità di capire. La scuola italiana sempre più sedimenta fasce larghe di giovani prive degli strumenti elementari per orientarsi nella società contemporanea, perché hanno abbandonato la scuola, oppure, anche se con un titolo di studio in mano, vacillano nelle competenze linguistiche, matematiche e scientifiche. Solo una fascia medio alta (che numericamente si va assottigliando), quella che tende ad accedere all’Università, riesce ad uscire dall’iter scolastico con quelle consapevolezze e quegli strumenti disciplinari che mettono in condizioni di essere cittadini attivi nella società. Siamo una società più disuguale e più ignorante.
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Tecnocrazia e profitto
La pandemia sta aggravando questo quadro e ha accentuato la distanza tra gli ultimi e i penultimi ed il resto della piramide. Ma la pandemia potrebbero aiutarci a fare chiarezza.
La pandemia non è arrivata inaspettata, era stata annunciata dall’OMS già nel 2003. Nonostante ciò, tutti i Paesi si sono fatti trovare impreparati, indipendentemente dai sistemi sociali e politici su cui si fondano. Perché oggi è egemone una cultura, ed una classe dirigente, fondata sul perseguimento del massimo profitto nel più breve tempo possibile, tecnocratica, incapace di pensare secondo la categoria del futuro, succube di un immanentismo pervasivo: nulla si fa, se non ha un riscontro immediato, un vantaggio a breve e brevissimo. Convinta che ci possa essere una crescita infinita in un mondo con risorse finite, invaghita della presunzione che della natura si possa fare a meno, e tutto possa essere domato e controllato. La cultura della prevenzione, al contrario è un caposaldo di una società resiliente e sostenibile, consapevole del fatto che riparare costa molto più che prevenire. Ed alla prevenzione ispira i suoi atti politici, con lungimiranza.
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Privatizzazione delle conoscenze
Non solo. Tutto il sistema globale di produzione e distribuzione della conoscenza si è dimostrato inadeguato, nonostante l’umanità abbia oggi a disposizione il più vasto e potente patrimonio di conoscenze che mai ci sia stato. Ma è un patrimonio privatizzato e finalizzato agli interessi dei grandi player mondiali, non all’interesse pubblico e generale. La vicenda dei vaccini non lascia dubbi, neanche ai più inossidabili liberisti. La conoscenza dovrebbe essere un patrimonio pubblico e il sistema di istruzione dovrebbe essere una risorsa fondamentale per lo sviluppo del Paese e della società. Ecco un altro caposaldo.
Inoltre la pandemia ci insegna anche che il Sars-cov-2 è l’interfaccia tra i fattori che hanno determinato l’insorgenza del contagio e quelli che ne hanno consentito la diffusione e trasformazione in pandemia. Da un lato la crisi ecologica del pianeta, provocata da perdita di biodiversità, crisi climatica, deforestazione, invadenza dei sistemi agroindustriali, restringimento degli habitat naturali, tutti interventi che hanno “avvicinato” la nostra specie alle specie selvatiche favorendo le zoonosi. Dall’altro la crisi sociale, provocata da un certo modello di globalizzazione, che, se ha prodotto crescita positiva dell’interdipendenza e miglioramento delle condizioni economiche per alcune parti del mondo, ha anche significato uno sviluppo guidato da massimizzazione del profitto e cecità alle diversità dei luoghi, competizione estrema, esternalizzazione dei costi ambientali a danno dei territori e della salute delle persone, crollo dei sistemi di welfare, aumento esponenziale delle disuguaglianze e delle fasce di povertà, nonché della concentrazione del potere.
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Una crisi, tre crisi
Una crisi di sistema, quindi, in cui un pericoloso moltiplicatore di rischio è rappresentato dai cambiamenti climatici, che incombono su tutto il globo e che mostrano uno straordinario parallelismo con la pandemia da Sars-cov-2. Non solo perché l’uno e l’altra sono stati da tempo annunciati, sia dal mondo scientifico che dalla frequenza di fenomeni premonitori, ma anche perché l’uno e l’altra colpiscono tutti, ma non tutti allo stesso modo. I paesi poveri e le persone povere e vulnerabili dei paesi ricchi pagano il prezzo più alto. Ci sarà chi non riuscirà a ripartire, c’è chi già oggi non riesce a sopravvivere. Ci sarà chi pagherà di più, ci saranno nuove e più gravi disuguaglianze.
“Il capitalismo – afferma Mariana Mazzucato – sta affrontando almeno tre grandi crisi. Una crisi sanitaria indotta da una pandemia ha rapidamente innescato una crisi economica con conseguenze ancora sconosciute per la stabilità finanziaria, e tutto questo si gioca sullo sfondo di una crisi climatica che non può essere affrontata con il business as usual. […] Questa triplice crisi ha rivelato diversi problemi di come facciamo il capitalismo, che devono essere tutti risolti nello stesso momento in cui affrontiamo l’emergenza sanitaria immediata. Altrimenti, risolveremo semplicemente i problemi in un posto e ne creeremo di nuovi altrove”.
Il cambiamento culturale necessario
Questo intreccio di sfide e problemi ha bisogno di un cambiamento culturale profondo che coinvolge il sistema dell’educazione e della formazione. Sono all’ordine del giorno questioni strategiche che interrogano l’anima stessa della nostra società, cosa vogliamo essere, cosa significa oggi essere capaci di futuro. Negli ultimi due secoli la risposta a questa domanda è sempre stata, almeno nel mondo occidentale, essere più ricchi, stare meglio. Oggi questa risposta non è più sufficiente: il benessere di chi, solo della specie umana? Ma la pandemia ci dice che non è possibile. Solo per una parte del mondo? O per tutti. La sfida è educare le persone ad una società che sappia, culturalmente e tecnologicamente, garantire il benessere a tutte e tutti, e questo senza il benessere del pianeta non è possibile. Oggi abbiamo l’opportunità di capirlo meglio e di trarne le conseguenze con il necessario corollario delle infrastrutture culturali, educative e sociali che occorre costruire, anche in forme organizzate innovative.
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