Tra gli aspetti che il Covid ha rimesso in discussione c’è la centralità delle città. L’Italia ha riscoperto, almeno in parte, di essere il Paese dei paesi. In questa fase lunghissima di interlocuzione in cui siamo immersi, tra l’ansia che questa sarà la “nuova normalità” e la volontà di disegnare un’altra normalità, in tanti stanno provando a rimettere in discussione un modello di sviluppo basato, tra gli altri assunti, su due equazioni: città uguale progresso e, speculare a questa, borgo uguale presepe.
Un modello urbanocentrico che per Oliviero Casale, general manager UniProfessioni, è da rivedere. A prescindere dal coronavirus. Lo ha ribadito recentemente, insieme a Domenico Annunziato Modaffari (componente Comitato Unico di Garanzia di Roma Capitale) ed Enrico Molinari (docente dell’Accademia di Belle Arti di Sanremo), in un articolo accademico pubblicato sulla rivista “Sustainable and Responsible Management”.
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Gli standard Uni e l’insostenibilità delle metropoli
Già ad agosto 2018 l’UNI (l’Ente Italiano di Normazione) aveva recepito un nuovo standard internazionale sulle smart city, in cui si invitava a non parlare più solamente di città smart (o intelligenti) ma anche di città sostenibili. Non più, dunque, città basate esclusivamente su applicazioni tecnologiche e calcoli matematici ma ecosistemi in cui diventa fondamentale il concetto di qualità della vita.
Allo stato attuale, ammoniva Elena Stoppioni – presidente dell’onlus Save the Planet in un’audizione al Senato del luglio 2018 – “nessuna città italiana risulta iscritta nel registro delle metropoli certificate”.
Se possibile, l’arrivo del Covid ha peggiorato la situazione. “Le smart cities sono state il problema dell’Italia nelle fasi più acute di diffusione del coronavirus – osserva Casale – Sono state le grandi città ad avere i maggiori contagi, penso per esempio alle metropolitane e ai tram dove la gente è costretta a circolare in condizioni di affollamento”.
Da marzo 2021 Casale è uno dei componenti del Comitato Tecnico dell’Uni per la Gestione dell’innovazione, oltre essere uno dei componenti del Comitato Tecnico 057 Economia Circolare. “A livello internazionale l’ISO, ovvero l’International Organization for Standardization, sta lavorando a nuove norme per l’economia circolare – afferma – che saranno molto importanti. Quando si parla di economia circolare, secondo il mio punto di vista, non si può pensare solo alla città ma anche ai territori”.
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Il ritorno dei territori?
Alla fine la domanda è sempre quella: cosa sono i territori? Da questa prima domanda ne scaturiscono, a cascata, tantissime altre: chi decide per essi? chi li abita? in che modo vengono vissuti e come potrebbero vissuti? A leggere il dibattito in atto, però, sembra che gli unici territori degni di nota siano, ancora una volta, le metropoli. O, al massimo, i centri storici, definiti “i salotti della città”, a mò di vetrina . Mentre le periferie, di cui quasi sempre si parla come qualcosa di esotico o al massimo da capitalizzare in termini di voti, sembrano corpi estranei. L’analisi di Casale parte da una riflessione più ampia.
“Secondo molti studi internazionali – afferma il general manager – la tendenza da qui al 2050 è un ulteriore accentramento della popolazione nelle metropoli. Le grandi città produrranno tanta Co2 e tanti rifiuti, e avranno bisogno di utilizzare tanto territorio per autosostenersi. I grandi agglomerati saranno più un produttore di scarti. Ecco perché si deve investire nei territori, che altrimenti diventeranno, come in parte già sono, riserva per le metropoli o sedi di discariche dove mettere gli scarti prodotti. Normalmente le grandi città, infatti, non hanno all’interno del proprio perimetro le discariche”.
Un fenomeno noto, che alcuni studiosi definiscono “razzismo ambientale”, e che l’economia circolare potrebbe contribuire a rovesciare. In che modo? “Molti investimenti continuano ad andare verso le grandi città – riflette Casale – E la scusa è sempre la stessa: i territori non sono pronti per l’innovazione e l’economia circolare. Ma se ci facciamo bloccare da questa idea i territori non partiranno mai. E intanto basta farsi una passeggiata a Roma, Milano, Napoli e Torino per accorgersi che interi grattacieli, quelli dove di solito sono concentrate le grandi attività produttive o i colossi bancari, sono vuoti. Organizzare alcune attività economiche sui territori, attraverso piattaforme innovative per il lavoro, comporterebbe minori emissioni e minori spostamenti”.
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Il ruolo dei borghi
L’altro tema, strettamente connesso ai territori, è quello dei paesi. Nell’Italia dei 7.903 Comuni, i piccoli paesi – che nella narrazione comune associamo ai piccoli borghi – costituiscono una quota consistente di essi. Eppure il rilancio dei borghi non passa dalla loro cartolarizzazione: belli e “naturalistici” per chi arriva dalla città ad ammirarli e va via in giornata. Nei borghi, nei paesi, bisogna poi viverci. “Nel Pnrr la parola borghi compare una decina di volte, ma intesa solo per turismo, passeggiate o chiese da visitare – concorda Casale – Non è corretto. Si anche parla di investimenti per la tecnologia, che è già più interessante, ma se poi la gente ci vive due-tre mesi l’anno il modello non regge. In questo modo invece si alimenta l’idea per cui l’orizzonte dei borghi è quello di diventare sede di residenze stagionali. Invece il costruito va in disuso, e anche quello è un costo che dovrà essere affrontato. Qui si continua a costruire, soprattutto nelle grandi città, mentre la manutenzione dei borghi va decadendo”.
Insomma: scegliere di restare, o andare a vivere nei borghi, ha al momento un costo sociale da affrontare. “Bisogna ottenere equità sociale – dice Casale – Per averla serve un cambio di paradigma, per portare nei paesi capitale umano, startup e incubatori di imprese. Non servono solo lo smart working o uffici aperti per i freelance, ma capacità di attrarre investimenti e risorse. Altrimenti la singola iniziativa è fine a se stessa. Il problema dei borghi non è certamente la connettività. Quella di cui parlo io è la gestione dell’innovazione”.
In questo senso l’economia circolare può essere un fattore trainante. Anche perché, come osserva ancora Casale, non è la singola azienda a trarre beneficio dalla circolarità ma l’intero ecosistema in cui opera. “Manca però la cultura manageriale dei piccoli imprenditori – aggiunge il general manager – Le piccole e medie imprese spesso improvvisano, la trasformazione digitale deve selezionare le migliori tecnologie, integrarle e organizzarle. In questo momento mancano le figure da impiegare e da attrarre nei paesi. Intendiamoci, le grandi aziende l’innovazione la sanno fare, mentre esiste un buco da colmare per le pmi”.
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Resilienza circolare
Anche in questo caso, per usare una parola tanto (troppo) di moda, vanno disegnate città resilienti: città che, come insegna ancora il Covid, devono prepararsi, recuperare e adattarsi a shock e stress, siano essi causati dall’uomo o da eventi estremi. Il ritardo dei borghi in questo campo è forse ancora più evidente. Per colmarlo, però, serve partire dall’analisi.
“Come Comitato Piccoli Comuni 4.0 stiamo studiando i borghi sotto i 10mila abitanti – spiega Casale – per definire parametri comuni: cominciare ad avere dei dati per poter affrontare davvero il tema. Se no parliamo di borghi senza sapere manco come. Al momento abbiamo formato una rete spontanea di docenti universitari e professionisti”.
I primati europei dell’Italia sull’economia circolare, seppur in calo, testimoniano che questi provengono dalle zone interne. Basti pensare che il nostro Paese è primo in Europa per riduzione dei rifiuti e per quota di rifiuti avviata a riciclo, con un tasso del 79,3%. Ed è proprio nei piccoli centri che i tassi di raccolta sono più alti, mentre le città metropolitane spesso arrancano (vedi il caso di Roma o della Sicilia). Piccolo è meglio, ed è più facilmente circolare.
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