Nella corsa contro il tempo per contrastare l’incalzare dei cambiamenti climatici, i media giocano un ruolo fondamentale. Ad esempio è dell’informazione il compito di tradurre le evidenze scientifiche affinché siano comprensibili a un pubblico ampio. Allo stesso modo, spetta a chi fa giornalismo monitorare la coerenza tra le dichiarazioni dei rappresentanti istituzionali e le politiche messe in campo, pungolandoli ogni volta che è necessario. Infine, è precipua prerogativa dell’informazione indagare e denunciare le responsabilità di condotte che ledono l’interesse collettivo.
Se parliamo di cambiamenti climatici, le responsabilità principali vanno ricercate nei cosiddetti grandi emettitori, tra cui occupano un posto di rilievo le fossil fuel company, ovvero le compagnie dell’energia fossile.
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Industria fossile ed emergenza climatica
Secondo il Carbon Majors database report, il più completo database di dati storici sulle emissioni di gas serra delle aziende, il 71% di tutte le 635 miliardi di tonnellate di gas serra emesse dalle attività industriali dal 1988 è direttamente imputabile a 100 produttori di combustibili fossili.
In verità, le emissioni su scala globale sono concentrate su un numero di produttori ancor più ridotto: dal 1988 al 2015, documenta il report, appena 25 produttori di combustibili fossili hanno emesso il 51% di tutti i gas serra di origine industriale.
Questo piccolo club di eccezionali inquinatori include sia aziende di proprietà degli investitori come ExxonMobil, Shell, BP, Chevron, Peabody, Total, e BHP Billiton, sia compagnie a totale partecipazione statale come Saudi Aramco, Gazprom, Pemex, Coal India o China National Coal Group. La nostrana Eni figura poco lontano, occupando il 30° posto a livello mondiale per emissioni cumulative nei 27 anni presi in esame dal rapporto.
Un ulteriore imponente studio realizzato dalla Union of Concerned Scientists, con la partecipazione dei ricercatori di Oxford University, Columbia University e North Carolina State University e pubblicato nel 2017 dalla rivista scientifica Climatic Change, ha calcolato che le emissioni prodotte dalle 90 aziende più inquinanti del mondo sono responsabili, a partire dal 1880, di circa il 50% dell’aumento di temperatura, del 57% delle emissioni di CO2 e del 30% dell’innalzamento dei mari. Anche qui c’è un club dei record: ai primi 20 grandi inquinatori è imputabile il 27% di tutta la CO2 di origine antropica prodotta nel periodo 1880-2010 e il 19,6% delle emissioni prodotte dal 1980.
Questo argomento, ovvero il ruolo del settore privato – in particolare dei grandi emettitori – e la necessità di riconoscerne le responsabilità e coinvolgerli negli impegni di mitigazione, resta ad oggi il grande rimosso a tutti i livelli, non solo dal piano politico-regolativo (su scala nazionale, regionale e globale) ma anche da gran parte del mondo dell’informazione.
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Sminuire e insabbiare l’emergenza climatica per difendere lo status quo
A questa responsabilità oggettiva se ne aggiunge una ulteriore. Ovvero il ruolo che le compagnie del fossile hanno avuto nel tentativo di insabbiare, sminuire o negare l’esistenza dei cambiamenti climatici con l’obiettivo di preservare lo status quo e – in sostanza – continuare a emettere quanto e più di prima.
Nel 2018 il giornalista del De Correspondent Jelmer Mommers ha portato alla luce un internal report della Shell del 1988, mai pubblicato, dal titolo eloquente: “The Greenhouse Effect”. Dal documento emerge che già 35 anni fa la compagnia aveva piena consapevolezza delle evidenze scientifiche legate all’emergenza climatica, compreso il riconoscimento del ruolo dello sfruttamento dei combustibili fossili nelle emissioni di gas serra. Il dossier calcolava il contributo delle attività di Shell alle emissioni globali di CO2 e ne passava in rassegna i potenziali impatti sul clima, tra cui l’aumento del livello del mare, l’acidificazione degli oceani e lo scatenarsi di nuovi flussi migratori
Si tratta di un documento inedito e straordinariamente importante per sostenere la colpevole consapevolezza delle imprese circa il contributo dell’industria fossile agli stravolgimenti del clima.
“The Greenhouse effect” non è però l’unica testimonianza di questo genere svelata dalla stampa: documenti simili di proprietà della ExxonMobil, nonché di associazioni di categoria del petrolio e di società di servizi sono stati portati alla luce e resi pubblici negli ultimi anni. Nell’inchiesta di Inside Climate News “Exxon: The Road Not Taken” i giornalisti di inchiesta Banerjee, Song e Hasemyer ripercorrono, attraverso otto mesi di indagini, quarant’anni di storia della carbon major passata dall’essere all’avanguardia nella ricerca sul clima a posizioni negazionistiche volte a minare il consenso scientifico sull’origine antropogenica dell’emergenza climatica, con il solo fine di proteggere gli interessi economici dell’azienda.
Illuminante in tal senso è anche il libro inchiesta di Stella Levantesi “I bugiardi del clima”, pubblicato nel 2021 da Laterza, che ricostruisce decenni di impegno dell’industria fossile per portare a casa quella che l’autrice definisce “l’operazione di occultamento più grande del secolo: quella orchestrata dai negazionisti dell’emergenza climatica”.
I media e il racconto della crisi climatica
Si tratta di esempi che innalzano il ruolo che può avere il giornalismo nella sfida climatica ma che purtroppo, nel contesto attuale, si configurano come onorevoli eccezioni in un panorama informativo mai sufficientemente attento a ricollegare le devastazioni causate dai mutamenti climatici a specifiche responsabilità. E c’è di più. Nel nostro Paese l’informazione sul clima appare particolarmente inadeguata a rappresentare l’entità della posta in gioco, come denunciano i dati raccolti dal rapporto Ecomedia, pubblicato annualmente da OSA e dall’indagine “Crisi climatica e media”, curata dall’Osservatorio di Pavia per Greenpeace.
Dal primo emerge che i cambiamenti climatici sono oggetto di interesse giornalistico soltanto quando eventi climatici estremi si abbattono sul nostro Paese. Nel 2022, ad esempio si è registrato un picco di attenzione soltanto a luglio e settembre, in corrispondenza del disastro della Marmolada e dell’alluvione nelle Marche, seguiti a distanza dalla grave crisi idrica e delle ondate di calore che hanno caratterizzato i mesi estivi.
Se Ecomedia fotografa la quantità di volte che il tema climatico viene trattato sui media mainstream, l’indagine di Greenpeace e dell’Osservatorio di Pavia si spinge ad esaminare altri parametri oltre a quello quantitativo. Tra questi: l’attenzione riservata al ruolo dei combustibili fossili nella crisi climatica, quanto spazio viene concesso alle compagnie inquinanti – sia in termini di voce che di spazi pubblicitari; infine, se vi è trasparenza sui finanziamenti ricevuti da compagnie fossili. I risultati della misurazione di questi parametri non sono incoraggianti.
Ad esempio, tra i cinque principali quotidiani italiani, soltanto uno raggiunge la sufficienza, Corriere e Repubblica risultano bocciati. Altri dati significativi riguardano l’incidenza di argomentazioni negazioniste, contrarie a politiche climatiche e di transizione ecologica, che riguarda più del 20% delle notizie diffuse sul tema. Un dato che si spiega anche con la rappresentanza sbilanciata dei soggetti chiamati a pronunciarsi, con oltre un quarto dello spazio occupato da aziende e imprenditori, il 15% da rappresentanti istituzionali e appena il 7% da scienziati. Ciò si traduce in una prevalenza delle ragioni economiche su quelle scientifiche e con una distorsione dell’informazione fornita all’opinione pubblica. Ultimo aspetto registrato è la forte dipendenza dai finanziamenti delle compagnie inquinanti di molte grandi testate italiane, un aspetto da non sottovalutare e che di fatto ne minaccia l’indipendenza editoriale, in particolare in ambito climatico.
Il negazionismo scende in politica
Qualche tempo fa ci si illudeva che il periodo d’oro del negazionismo climatico fosse un ricordo del passato. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito a una progressiva moltiplicazione delle tesi negazioniste sia nei media che in politica.
Rispetto ad altri Paesi, come quelli a tradizione anglosassone, dove gran parte del dibattito “anti-climatico” è ospitato da media ultraconservatori (si pensi esemplificativamente a Fox News negli Usa), in Italia posizioni negazioniste trovano cittadinanza anche su canali e trasmissioni considerate autorevoli: personaggi screditati dalla comunità scientifica, lobbisti e politici sono chiamati ad affollare salotti televisivi e a mettere in dubbio con nonchalance evidenze che l’intera comunità scientifica internazionale considera ormai assodate.
L’alleanza tra questo tipo di negazionismo, parte della stampa e parte della politica – specialmente di destra – si è andata rafforzando. Nel 2020 i parlamentari Gasparri e Comencini hanno promosso un appello dal titolo “Sul riscaldamento globale antropico” in cui si afferma che “l’origine antropica del riscaldamento globale è una congettura non dimostrata” e “posta la cruciale importanza che hanno i combustibili fossili per l’approvvigionamento energetico dell’umanità” si chiede “che non si aderisca a politiche di riduzione acritica della immissione di anidride carbonica in atmosfera”. L’appello è stato sottoscritto da circa 90 scienziati (tra cui non più di cinque con competenze attigue alla scienza del clima) alcuni dei quali risultano consulenti di alcuni dei principali player nazionali dell’energia.
Ancora una volta, tra le questioni campali c’è la dipendenza-indipendenza da finanziamenti provenienti dagli stessi soggetti che sarebbero danneggiati da politiche climatiche ambiziose.
Una “Stampa libera per il clima”
Consapevole della centralità della questione, Greenpeace ha lanciato la coalizione “Stampa libera per il clima”, invitando le testate giornalistiche nazionali ad adottare una serie di criteri riguardanti la copertura della crisi climatica e le responsabilità delle aziende fossili.
Tra questi criteri c’è l’impegno, dirimente, a non accettare finanziamenti provenienti dall’industria fossile. Un impegno totalmente in linea con la visione e la scelta già consolidata della nostra testata, per cui EconomiaCircolare.com ha immediatamente e convintamente aderito all’appello, nella convinzione che l’indipendenza dell’informazione sia una garanzia preziosa non soltanto per la libertà di un organo di stampa, ma per la salute della democrazia.
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