Contenuto in abbonamento
Sebbene in Italia non assistiamo più ad un retrivo e generalizzato tiro al bersaglio contro i pacifisti, come nei primi mesi dell’invasione russa, e come abbiamo certificato grazie a Nico Piro, l’opinione pubblica è ancora influenzata dalla propaganda, o ne è direttamente espressione. Consapevole o meno di giocare questo ruolo, la maggioranza dei media non riesce ad assumere un ruolo critico, capace di aiutare a trovare una posizione terza, che spinga il nostro come gli altri governi europei a iniziare davvero una de-escalation. Che, infatti, è ancora impensabile rispetto alla situazione di guerra.
“Noi sosteniamo l’Ucraina, ma non siamo in guerra” ha affermato a fine gennaio la vice portavoce del governo tedesco Christiane Hoffmann. Le dichiarazioni sono arrivate dopo che la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha chiesto all’ambasciatore tedesco in Russia di chiarire la posizione di Berlino in merito al conflitto. Il governo della Germania ha infatti ufficialmente annunciato che manderà i suoi carri armati Leopard all’Ucraina e che potranno fare lo stesso i Paesi che li hanno acquistati in passato.
In questa lunga intervista allo storico Simone Bellezza, abbiamo voluto ragionare su alcuni luoghi comuni che attraversano sia chi sostiene il governo di Zelens’kyj sia chi non disprezza il governo di Putin. Bellezza è professore associato di storia moderna presso l’Università Federico II di Napoli, e uno dei maggiori esperti di storia dell’Ucraina, nonché membro dell’Associazione “Memorial Italia”, cugina diretta dell’Associazione “Memorial Russia” che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2022. Le sue posizioni sull’Ucraina, benché a volte molto distanti da quelle che abbiamo assunto su questo giornale, aiutano a comprendere meglio la complessità della realtà ucraina, contro le semplificazioni della propaganda mediatica di guerra.
I luoghi comuni della propaganda mediatica
Quali sono i luoghi comuni circolati sull’Ucraina dall’inizio dell’allargamento della guerra nel Febbraio dello scorso anno che impediscono una reale comprensione della sua società e della sua storia, e che si possono quindi considerare strumenti della propaganda mediatica?
Ce ne sono essenzialmente due che, in particolare, sono rientrati nella propaganda russa o filo russa, sia a livello internazionale sia nel nostro Paese, e che vengono usati per giustificare l’aggressione della Russia. Prima di tutto l’idea che tutti gli ucraini sono dei nazisti, o comunque dei violenti nazionalisti. È sicuramente uno degli stereotipi maggiormente usati quando si parla della guerra. Si fa riferimento a dei fatti veri, relativi alla seconda guerra mondiale: agli ucraini che hanno collaborato con i nazisti e al movimento nazionalista ucraino che ha avuto una virata a destra durante gli anni ‘30, e poi nella seconda guerra mondiale, avvicinandolo al fascismo italiano e al nazionalsocialismo tedesco. In quegli anni, la parola “nazione” diventa tipica di tutti i vocabolari delle destre in Europa. Ma ciò, ovviamente, non vuol dire che tutti gli ucraini siano fascisti o ultranazionalisti, come nemmeno tutto il movimento nazionalista ucraino. Va considerato, però, che è vero che nella retorica nazionalista ucraina c’è un continuo riferimento agli eroi della seconda guerra mondiale. Dal loro punto di vista, però, sono coloro che combatterono per l’indipendenza contro l’Unione sovietica. Davanti al nuovo regime dittatoriale, sono stati considerati “combattenti per la libertà” tutti coloro che combattevano contro i sovietici. Questo è un tema e un problema molto più ampio che hanno moltissimi Paesi centro-orientali entrati nell’Ue: è una retorica che c’è in tutti i Paesi del Baltico, come in Polonia, in Ungheria, nella Repubblica ceca e in Slovacchia. Nel caso ucraino c’è stata una “risemantizzazione” dei simboli nazionali: tutti quelli che in epoca sovietica in Ucraina parlavano della questione nazionale venivano immediatamente accusati di essere nazisti o filofascisti. In particolare di essere dei seguaci di Stepan Bandera (uno dei leaders del movimento nazionalista durante la seconda guerra mondiale). Visto che tutti coloro che combattevano per i diritti umani e per l’indipendenza durante gli anni ‘50, ‘60, ‘70 sono stati accusati di essere dei suoi seguaci, si è creato il paradosso che questo uomo di estrema destra che non amava la democrazia è diventato un simbolo di democrazia, di libertà e di “europeicità”. Questa risemantizzazione non viene letta in modo contraddittorio dagli ucraini. Visto che non hanno avuto modo di approfondire chi fosse Bandera durante l’epoca sovietica, hanno poi assunto una percezione sfasata della realtà storica.
L’altro stereotipo, che non ha un’origine storica come quello appena ricordato, è legato al problema della lingua. Ha una natura, per così dire, geografica. Anche se l’inizio della guerra ha fatto cambiare un po’ opinione in merito, si tende a presentare coloro che parlano russo come supporter del regime di Putin. Soprattutto in Italia dove tutti noi parliamo e riconosciamo l’italiano come la nostra madre lingua, al di là dei dialetti, facciamo fatica a immaginare che ci siano delle nazioni dove si possono parlare più lingue differenti allo stesso tempo. Basterebbe guardare alla Svizzera, dove si parlano tre lingue differenti e si sentono però un’unica nazione. In Ucraina, dove la commistione tra il russo e l’ucraino viene da lontano, gran parte della popolazione parla russo. Ciò non significa che chi lo parla si senta russo o sostenga il regime russo. Soprattutto nella propaganda putiniana è stato sottolineato il legame tra la lingua e l’intervento di “liberazione” della “popolazione russofona perseguitata”. Questo è senz’altro un luogo comune completamente sbagliato, sfruttato dalla propaganda. Ciò non toglie che negli ultimi anni si sono prese delle misure legislative a favore dell’ucraino, e sembrerebbe contro il russo. Ma non vanno lette come la causa di un cambiamento linguistico all’interno dell’Ucraina, bensì piuttosto come effetto, conseguenza, della guerra. Da quando la Russia, nel 2014, ha attaccato l’Ucraina per la prima volta, la popolazione, per la stragrande maggioranza bilingue, ha deciso di parlare più ucraino che russo. Dato che, purtroppo, viene sempre più identificato con “la lingua del nemico”. Sino a poco tempo fa la maggioranza della popolazione di Kyiv parlava russo, per intenderci. Con la guerra il russo non ha più tanto il favore della popolazione. E ancora meno da febbraio di quest’anno. Negli ultimi otto anni, non a caso, la letteratura e la poesia ucraine si sono riempiti di romanzi, racconti e scritti in cui viene raccontato o presentato questo spaesamento linguistico-culturale. Spaesamento che vivono gli scrittori ucraini di lingua russa che a un certo punto hanno deciso di abbandonare il russo. Il che, in genere, ha comportato molti problemi identitari, visto che abbandonare una lingua per un’altra non è qualcosa che si può fare senza vivere uno spaesamento umano. Insomma, davanti a questo processo, lo stereotipo linguistico non ci permette di capire davvero cosa sta accadendo nell’est del Paese. Giusto per capire cosa comporta ignorare questo fenomeno a livello mediatico: Spesso i mezzi di comunicazione italiani fanno riferimento al Trentino Alto Adige per suggerire una “soluzione” al problema dell’est ucraino…ma noi non abbiamo metà della popolazione di Roma che parla tedesco (come nel caso di Kyiv appena ricordato).
Come in tutte le guerre, la propaganda è quanto meno bifronte. Per quanto riguarda la propaganda filo-ucraina, che probabilmente ci riguarda di più perché l’Italia sta sostenendo questo Paese nella guerra, cos’è che non aiuta a comprendere la realtà e la società di quel Paese?
A me sembra che da parte di chi sostiene l’Ucraina ci sia una maggiore aderenza alla realtà e meno propaganda. Anche se, ovviamente, ce n’è di propaganda, anche da questa parte, perché in guerra, purtroppo, le posizioni si assolutizzano e portano a falsare la realtà. Se stiamo solo al contesto italiano faccio un po’ di fatica a rispondere. Tuttavia, da parte ucraina viene presentata la Russia, in generale, come un soggetto sanguinario e violento, senza nessuna divisione interna. Presentare il regime di Putin come un “impero del male”, per usare un’immagine di propaganda, è altrettanto sbagliato. Sono membro dell’associazione “Memorial Italia” parte della rete di Memorial Internazionale (l’associazione “Memorial Russia” ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2022, ndr), e quando è stato indicato il Nobel sui mezzi di informazione italiani e ucraini è stata criticata questa scelta. Si sosteneva, prima di tutto, la contrarietà di tenere nello stesso premio la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia (gli altri due premiati sono stati infatti ucraini e bielorussi, ndr), e in particolare si dava un giudizio negativo di “Memorial Russia”. Insomma, considerare che essere russo significa essere putiniano è assolutamente sbagliato. Come associazione facciamo un lavoro che dimostra continuamente che in Russia ci sono molte persone che combattono per la democrazia, per i valori di libertà, e per i diritti umani. Inoltre, tra l’altro, è stato l’unica associazione a fare informazione su cosa stesse accadendo davvero in Ucraina: ha informato il pubblico russo sulla guerra nascosta nell’est del Paese e sulla Crimea, per esempio, ed è stata ripetutamente attaccata per questo. D’altra parte va riconosciuto che, anche se esiste un’opposizione in Russia, è debolissima. Ma sono questi i soggetti 0su cui dobbiamo puntare per ricostruire un dialogo con la Russia, per permettere un’evoluzione democratica del Paese. È chiaro che se sei un ucraino a cui hanno bombardato la casa non vuoi più sentir parlare dei russi, ma se lo fanno i mezzi di informazione è totalmente sbagliato. Il fronte pro-ucraino dei mezzi di comunicazione è diventato troppo antirusso, ma noi non dobbiamo mai cedere all’emotività. Dobbiamo cercare la razionalità, e capire che, anche se il regime putiniano è cattivo e negativo, e ancora purtroppo espressione della maggioranza della popolazione, dobbiamo anche considerare che i russi non hanno accesso ad un’informazione libera, non hanno la possibilità di dare vita a dei movimenti politici e a delle associazioni libere, come in altri Paesi, e che tutto questo permette a Putin di continuare a controllare la società.
Leggi anche: Nella prima net-war i giornalisti si sono messi l’elmetto
Sulla resistenza ucraina
Benché non possediamo ancora dei dati al riguardo, mi sembra che si possa affermare con una certa sicurezza che i media non abbiano sottolineato a dovere le forme e le espressioni della resistenza civile non armata, della disobbedienza civile all’occupazione. È stato spesso sottolineato, al contrario, il coraggio di aver sostenuto la difesa armata contro l’invasione. Com’è stata la resistenza civile all’occupazione russa?
È un argomento difficile: con l’occupazione russa stabilire qual è il confine tra il civile e il militare è difficile. È vero però che, tranne qualche piccola eccezione, in Italia i mezzi d’informazione hanno dato poca rilevanza a questo fenomeno. Soprattutto all’inizio, è stato qualcosa che mi ha personalmente colpito moltissimo. Quando nelle grandi città, come Cherson, e nelle regioni orientali si vedeva la città piena di cittadini che, senza armi, protestavano contro le truppe russe e che avevano il coraggio di mettersi in gioco pur essendo indifesi (e in alcuni casi di rivolta sono stati anche presi a fucilate), c’è stata una minore attenzione da parte dei media. In generale sui mezzi di comunicazione ucraini si è parlato molto di più della guerra partigiana: le zone occupate non sono pacificate perché esiste una forte organizzazione sotterranea, segreta. Essere sindaco o governatore di una regione occupata è pericolosissimo. Molti sono stati uccisi, rapiti, vittime di attentati con bombe, con autobombe, o cose del genere. Sia organizzata dallo Stato, sia da cittadini volontari. Questa organizzazione compie delle azioni contro gli organi di governo filorussi. Sono, però, in alcuni casi, azioni anche molto violente. Esiste, inoltre, una fortissima propaganda filo-ucraina in quelle zone (volantini, murales, simboli nazionali lasciati sugli edifici, bandiere, etc), anche se, ancora una volta, da noi non se n’è avuta adeguata percezione. Così come non si è sottolineato a sufficienza come la gran parte della popolazione all’inizio era scesa in piazza quasi a voler contrastare fisicamente l’occupazione russa. Se uno guarda la protesta passiva, però, ossia il fatto di non fare qualcosa che vada a sostegno del regime di occupazione, bisogna ricordare i famosi referendum svolti per legittimare l’annessione russa e abbastanza pubblicizzati da Mosca: ci rendiamo conto che se compariamo le dieci o quindici persone che erano fuori i seggi per votare presenti nella città di Cherson, con la massa di persone in festa nel centro città davanti alla liberazione e al ritorno all’Ucraina, il fatto di non partecipare alle indicazioni di chi occupa è un importante modo di fare resistenza civile. Anche se molto difficile. Prendiamo il referendum in Crimea per l’annessione, per fare un altro esempio. Sebbene la maggioranza della popolazione è “etnicamente” russa, quel referendum non svolgeva solo una funzione strettamente politica (decidere sull’annessione, ndr), ma serviva anche per contare chi era pro e chi era contro: mostrare chi non andava a votare era un modo per vedere subito quali sarebbero stati i nemici. Oltre ai referendum, quindi, non mi sembra ci siano state molte altre espressioni della resistenza civile. Sotto il potere del controllo statale c’è poca possibilità di fare resistenza civile, secondo me.
Tutta la propaganda si regge su degli elementi di verità, che bisognerebbe vedere, analizzare e capire. Vorrei soffermarmi in questo caso sul nazionalismo ucraino. Durante la cacciata del presidente filo-putiniano Janukovyč, nel cosiddetto “Euromaidan”, i movimenti democratici che chiedevano un avvicinamento all’Ue si sono intrecciati con movimenti nazionalisti di destra e anche con alcune formazioni neonaziste. Questo sembra lo stesso brodo di coltura di quanto sembra svilupparsi subito dopo. Al di là della sacrosanta opposizione e critica all’imperialismo russo e al regime di Putin, non dobbiamo anche muovere una critica all’Ue che ha cercato di far rientrare nella propria sfera di influenza l’Ucraina, oppure considerare il fatto che non si sia posta sufficiente attenzione alla natura delle rivendicazioni ucraine, dove c’erano appunto due “sostanze” diverse che si sono intrecciate (da un lato le richieste di democratizzazione del Paese e dall’altro un nazionalismo tutt’altro che democratico, anzi diciamo proprio autoritario, che ha accettato la violenza politica diretta)?
Lei solleva tante questioni che andrebbero analizzate una per una. Credo che delle responsabilità dell’Ue ci siano. Perché credo che questo sia anche, ma non solo, un conflitto di zone di influenza economica e politica e che, a causa del fatto che l’Ue non ha una struttura politica definita che le permetterebbe di comprendere meglio cosa sta succedendo, essa si sia allargata ad est in maniera “inconscia”. Sia verso la società ucraina sia verso quella georgiana, che guardavano con favore un cambio di paradigma, ossia a staccarsi, ognuna per un motivo specifico, dall’alleanza con la Russia. La colpa dell’Ue è stata quella di non averlo visto in maniera sufficientemente cosciente, così da poterne discutere con la Russia. Per provare ad evitare il conflitto prima che scoppiasse. Questo ha, però, poco a che fare con quanto successo con l’Euromaidan, che in Ucraina si chiama “la rivoluzione della dignità” ed è stato un momento in cui si è annullata la continuità istituzionale. C’era un presidente democraticamente eletto che cercava di diventare un dittatore, che stava facendo delle riforme istituzionali che lo avrebbero fatto diventare molto simile a Putin, perché instauravano i poteri che ha Putin in questo momento in Russia, e che fanno di questo Paese, costituzionalmente e istituzionalmente, qualcosa che non è più democratica. Janukovyč stava seguendo questa strada. La popolazione, in un moto popolare spontaneo, è scesa in piazza, ed ha faticato a trovare una leadership politica. I capi dei partiti di opposizione avevano paura della piazza. Per esempio, l’attuale sindaco di Kyiv, che ha provato ad andare in piazza in modo da parlare ai manifestanti, è stato malmenato. Come sempre accade quando una rivoluzione ha successo il movimento dal basso si è unito a quello dall’alto, e alla fine gli oligarchi si sono uniti alla folla ed è stata trovata una quadra con il nome di Porošenko. Ora, al momento della protesta popolare molto ampia, nel momento in cui si è arrivati allo scontro fisico, quasi militare, i movimenti dell’estrema destra nazionalista sono diventati particolarmente evidenti perché, in una situazione di guerriglia urbana, erano i più bravi a menare le mani. Tuttavia va considerato, di più di quanto non venga fatto in Europa, che l’estrema destra ucraina, tutta unita, alle elezioni raccoglie delle percentuali risibili. A seconda delle tornate elettorali, si presentano tanti gruppi diversi, nemici tra loro, che, tutti insieme, prendono l’1 o talvolta il 2 per cento. Riescono solo eccezionalmente a esprimere dei propri rappresentanti negli organi politici. Il vero problema di violenza politica che c’è stato è stato legato ai battaglioni che nascevano grazie alla sponsorizzazione di alcuni oligarchi, quindi non alle destre ma a uomini politici “avveduti” e grandi businessman, che hanno immaginato di doversi conquistare il favore anche di questi battaglioni armati che avevano un seguito popolare. Va ricordato, tra l’altro, che nonostante il governo di Porošenko sia stato per molti versi fallimentare, è riuscito benissimo nell’intento di mantenere la democrazia. Ciò si lega anche alle vicende del famoso “battaglione Azov”, di ispirazione neonazista. Quel presidente, invece di metterlo fuori legge, e arrestare tutti i suoi componenti, li ha integrati nello Stato. Ha pensato di istituzionalizzarli nella guardia nazionale, un corpo armato che fa capo al ministero degli interni, obbligandoli a prestare giuramento di fedeltà e obbedienza al Presidente della Repubblica e non più all’ideologo neonazista che aveva fondato il battaglione. Una volta legalizzati, lo Stato ucraino ne ha cambiato la dirigenza, formandoli e addestrandoli, facendoli diventare qualcosa di diverso. Quindi il battaglione Azov delle cronache dell’anno scorso non è un battaglione neonazista, non lo è più. I singoli membri del battaglione non si considerano più neonazisti.
I simboli però continuano ad essere quelli…
Si, ma è perché, come dicevo prima, rimane il problema della “risemantizzazione” dei simboli. Se per settant’anni ho chiamato tutti quelli che erano democratici dei nazisti, finisce che i democratici si approprino anche dei simboli nazisti.
Questa è un’arma a doppio taglio.
Certo, certo. Ma il lavoro dello storico è quello di cercare di spiegare questi cortocircuiti, anche agli ucraini, che dovrebbero poi assumere il problema. Ma non è detto che lo facciano. Come accade nel caso di alcuni storici ucraini che non hanno fatto chiarezza su questo, in modo cosciente, e quindi colpevole. Il direttore dell’istituto nazionale ucraino, nominato da Porošenko, lo storico V’jatrovyč, ha sposato la versione di estrema destra della storia ucraina, in cui non è possibile riconoscere i crimini contro i diritti umani commessi dai movimenti nazionalisti ucraini. Ha fatto passare l’idea che non si può parlare dei crimini dei nazionalisti durante la seconda guerra mondiale, e questo è un problema…
Dal punto di vista non solo storico, ma anche etico, politico, morale…
Esattamente. Zelens’kyj, invece, ha nominato a capo di questo istituto un filosofo, che era più avveduto e ha sviluppato una retorica nazionale più inclusiva che lasciava da parte quanto sostenuto in precedenza. Ripeto: nell’universo politico ucraino, le forze che si richiamano direttamente o indirettamente all’ideologia nazista sono pochissime e hanno un bacino elettorale e una rilevanza politica pressoché nulla.
Chiarissimo. Ma resta l’arma a doppio taglio nel caso del processo di istituzionalizzazione. Nel senso che, se da una parte viene depotenziato il portato nazista del battaglione e viene reintegrato in un sistema di norme che non sono direttamente il prodotto di quella ideologia, d’altra parte, però, questo comporta anche una certa legittimazione proprio di quella ideologia che stava alla base del battaglione. Ecco anche perché in Italia certe forze, con la caduta del fascismo, sono messe al bando dalla costituzione (anche se non viene rispettata), mentre in Ucraina, per la storia che lei ci sta raccontando e l’ambiguità di questa risemantizzazione, questo non è possibile.
No, assolutamente no. Questo è un po’ il nostro errore: noi pensiamo che siccome il loro movimento è così, allora è immaginato come simile al nazismo o al fascismo. Invece non è così. Infatti nella legge contro la retorica comunista c’è anche la condanna del regime nazista…
Ma questa non le sembra una contraddizione? Se esiste una condanna al regime nazista, come si fa poi ad integrare in una istituzione democratica un battaglione che si richiama esplicitamente al nazismo?
Ma loro non lo percepiscono come nazista. Nella retorica nazionale ucraina, gli ucraini sono vittime di entrambi i totalitarismi, comunista e nazista. Non è che considerano Hitler un simbolo legittimo.
Non sto affermando questo…
Però lei capisce che è molto diverso dalla situazione italiana, in cui c’è un movimento politico che direttamente discende dal Partito fascista, e dove se viene posta la domanda di chiarire cosa si pensa di quel regime viene risposto che “non si era neanche nati” quando c’era quel regime. Gli ucraini non lo fanno. Non hanno problemi nel condannare direttamente tanto il fascismo e il nazismo, quanto il comunismo di Lenin e di Stalin. Quello che semmai ci deve preoccupare in Ucraina è che possa risultare maggioritaria una versione dell’identità nazionale che sia più etnica rispetto ad una che sia più civica.
Leggi anche: “Comunque vada la guerra, l’Ucraina sarà (purtroppo) uno Stato ‘fragile’”
Nazionalismo e oligarchie
A questo proposito, la questione dell’integrazione del battaglione Azov è un esempio di una questione più ampia che vorrei sottoporle. Quali pensa possano essere, dal 2014 sino ad oggi, i principali problemi che stanno generando le forme identitarie e di destra di nazionalismo, e le oligarchie del Paese? Entrambe mi sembra abbiano un peso importante nella guerra? Oppure mi sbaglio, e non è così?
Sono due argomenti separati. Per quanto riguarda l’identità dell’Ucraina, se sia più etnica o più civica, sono ottimista. Subito dopo il 2014, anche con l’elezione di Porošenko e con le sue politiche etniciste di identità collettiva, dobbiamo prendere atto che queste non gli hanno portato il favore popolare. La popolazione ha scelto Zelens’kyj, che era espressione di un’identità nazionale molto più elastica e multipla di quella dell’ex presidente: era di famiglia e tradizione ebraica, parlava russo e non ucraino, e non corrispondeva a quell’identità del “noi siamo ucraini”. Lui si è fatto eleggere, tra l’altro, dopo una campagna in cui affermava di voler trovare un compromesso ad est, con Putin, per fare finire la guerra. Affermava che l’importante era che la società doveva diventare più democratica, aperta, ricca ed europea, e per farlo bisognava finire la guerra. Tra l’altro, questa è, secondo me, proprio la causa della guerra. Putin ha mosso la guerra all’Ucraina per poter far fallire il tentativo democratico in quel momento in atto, ma poi si è ritrovato eletto non un presidente nazionalista duro e puro, ma un ebreo in cerca di pace e di un compromesso. E che parla addirittura russo. Putin capisce che il compromesso significa perdere realmente l’Ucraina, che cadrà completamente nella sfera di influenza degli avversari, che siamo noi. La guerra è stata l’unico modo che Putin aveva per cercare di trattenere gli ucraini nella sua sfera di influenza.
Quindi, se ho capito bene, lei pensa che il nazionalismo più retrivo e di destra, quello che spesso accompagna e sostiene le guerre in ogni parte del pianeta, non giochi un ruolo così dirimente nelle vicende ucraine?
Secondo me no. Ma questo non vuol dire che non esista. Faccio un esempio. Quando Zelens’kyj è andato a trovare il battaglione Azov, e uno dei suoi componenti non ha voluto stringere la mano al Presidente, lo ha fatto non tanto perché era un nazista, ma perché lui aveva dichiarato di voler fare un compromesso con Putin. Nelle frange più nazionaliste della società si riteneva che Zelens’kyj fosse un traditore, perché era disposto al compromesso. Secondo me, invece, ha dimostrato che non era affatto un traditore, e di essere un nazionalista in grado di interpretare l’identità nazionale sulla base di valori differenti. Naturalmente questi processi non sono mai lineari e semplici, ed esistono dei motivi di preoccupazione: come dicevo, il fatto che sempre di più la guerra spinga a utilizzare una sola lingua, è un processo di impoverimento della cultura ucraina. Prima si nutriva di due mondi intellettuali e culturali diversi che coesistevano, mentre adesso…
Sembrerebbe proprio che questa polarizzazione sia l’effetto del nazionalismo.
Questo c’è, ma non lo leggerei dalla prospettiva di una preoccupazione circa la tenuta delle istituzioni democratiche. Mi sembra eccessivo. Sino a quando non sono stati chiusi, di recente, in Ucraina c’erano dei partiti che erano esplicitamente filo-putiniani, che avevano dei propri rappresentanti in parlamento. C’erano dei canali televisivi che erano esplicitamente filo-putiniani. Perché? Perché l’Ucraina era una democrazia.
Ma adesso non si può più fare…
Cosa che è diventata impossibile con la guerra. Ma questo succederebbe anche in Italia.
Probabilmente.
Sicuramente. Si tratta dell’ordinamento di guerra. In qualsiasi Paese dove arriva la guerra, le garanzie democratiche smettono di essere valide.
Ed è un problema. Nel caso degli oligarchi, invece, cosa succede?
Lo dico dal 2014: loro sono il vero pericolo nei confronti della democrazia ucraina. Sono gli esponenti di grandi gruppi economici e finanziari che riescono ad avere espressione a livello politico attraverso uomini o partiti di riferimento, così da sommare il potere economico con quello politico. Questo crea nella società ucraina una sorta di vere e proprie clientele. Sono delle persone molto potenti e ricche: allo stesso tempo sono il tuo datore di lavoro e il tuo sindaco o il tuo governatore di regione. Hanno un grande potere in un Paese povero che ha importanti problemi di corruzione. Quando Porošenko è andato al potere, nonostante fosse anch’egli un oligarca, ci si aspettava che facesse delle riforme contro gli oligarchi che poi, invece, non ha fatto. Nulla è cambiato. Quando è stato eletto Zelens’kyj, è circolata la notizia, poi confermata, che alcuni gruppi finanziari importanti l’avessero sostenuto, che avessero finanziato il suo partito e le sue iniziative politiche. Dal 2019 ad oggi Zelens’kyj, però, ha combattuto una grande guerra contro alcuni gruppi oligarchici, per ottenere il potere politico: con un parlamento a lui favorevole, giusto prima dell’invasione russa, stava per fare approvare una legge per limitare alcuni grandi gruppi economici e finanziari.
Dal 2014 in poi gli oligarchi hanno avuto un peso nella guerra?
No, non così direttamente. Prima sì. Dopo l’Euromaidan, quando sono scoppiati i primi disordini nelle regioni dell’est, questi erano finanziati da alcuni oligarchi, tra cui Rinat Achmetov, l’uomo più potente dell’Ucraina, che era stato spodestato dal potere. Perché con la presidenza Janukovyč, era tra coloro che contavano di più, ma da quando i servizi segreti russi si sono infiltrati nell’est del Paese e hanno preso in mano la dirigenza politica e militare, anche Achmetov ha fatto una scelta a favore del governo filo europeo ed occidentale. Ed ha così abbandonato le regioni dell’est a Putin. Uno dei motivi per cui l’Ucraina è una democrazia è che ci sono tanti oligarchi che non vogliono finire male e quindi si riconoscono reciprocamente un minimo di garanzie democratiche. In un ragionamento un po’ weberiano, le elite, per proteggersi mutuamente, si concedono dei diritti di cui gode l’intera popolazione.
In ogni guerra, purtroppo, c’è chi ci lucra o prova a farlo. In Ucraina non è successo?
Sicuramente. Ma forse si lucrava più prima del 2022. Dire che c’era la guerra era un modo per mettere a tacere le opposizioni e per accaparrarsi delle commesse statali, degli appalti, etc. Questo tipo di corruzione nei Paesi dell’est c’è sempre stata: chi è ricco diventa molto ricco, perché riesce ad assicurarsi grandi commesse. Ancora una volta, il presidente Zelens’kyj è stata un’eccezione in questo senso: per esempio ha messo al bando la costruzione delle autostrade del Paese, e se le sono aggiudicate delle aziende turche.
Leggi anche: Nico Piro: “La guerra è merda, morte, dolore, e distruzione. Non esiste una guerra etica”
Sulla soluzione del conflitto armato
Lei ha dichiarato in passato che gli accordi di Minsk erano destinati a fallire, come mai?
Perché erano degli accordi assolutamente sfavorevoli per l’Ucraina che Porošenko aveva accettato semplicemente perché, quando si è ritrovato al tavolo delle trattative, lo Stato ucraino era assolutamente imploso su se stesso e molto debole militarmente. Stava scontando delle sconfitte militari molto grandi contro l’esercito russo, che di fatto aveva invaso il Paese senza che fosse stato dichiarato ufficialmente. Li ha accettati per evitare di essere travolto. Per prendere tempo ed evitare una sconfitta militare. Ma non c’era nessuna intenzione di mettere in atto degli accordi assolutamente sfavorevoli per la parte ucraina. Da una parte c’erano in ballo dei referendum sull’indipendenza delle regioni dell’est e, dall’altra, il controllo dei confini nazionali. Da una parte era chiaro che la Russia non avrebbe mai accettato che l’Ucraina avesse il controllo dei confini, com’era previsto, perché ciò significava che avrebbe potuto manipolare i risultati dei referendum, e, dall’altra parte, che l’Ucraina non avrebbe mai fatto fare i referendum previsti perché sapeva che, con i soldati russi presenti sul territorio, il risultato sarebbe stato filo-russo. Insomma, era un meccanismo pensato per non essere messo in pratica, destinato a fallire. Secondo me era l’obiettivo iniziale di Putin: per mantenere l’influenza su quello Stato doveva lasciarlo in una situazione di stallo in presenza di un conflitto continuo, anche se a bassa intensità, per impedirgli di evolvere nella direzione politica a lui avversa.
A Marzo dello scorso anno ha dichiarato: “Coinvolgere la Russia nelle politiche energetiche e come partner dell’Ue sarebbe ragionevole per iniziare un negoziato”. Lei è ancora di quest’avviso? Cosa si potrebbe fare per avviare un negoziato?
Ho cambiato idea. Inizialmente pensavo che si potesse fare leva sull’interesse che la Russia ha a vendere le sue risorse energetiche sul mercato europeo, come merce di scambio per avviare una discussione e arrivare forse ad un compromesso. Anche perché in quel modo l’Ucraina si sarebbe potuta slegare dalla sfera di influenza russa. Penso che la Russia abbia fatto una scelta chiara in questi mesi di guerra: infischiarsene delle possibilità di dialogo con l’Europa, perché non credo che lo voglia davvero. Perché l’Europa è sempre più interpretata come una società in declino, in crisi, incapace di esprimere una vera politica. Per questo Putin ha parlato di “ubriacatura americana”, per esempio. Mi sembra che ci sia stata una frattura profonda, inimmaginabile solo sino a poco tempo fa, e che la Russia non voglia trovare un dialogo. Per questo non vedo una soluzione semplice al conflitto in Ucraina. Si vede, anzi, da parte russa, qualsiasi pausa o tregua come un modo per riorganizzare di nuovo l’attacco. Se si vuole arrivare ad un negoziato bisogna rivolgersi al potere reale che sta dietro la Russia, che è la Cina. Nel momento in cui smette di sostenere la Russia, quest’ultima è obbligata a trovare una soluzione negoziale. Lo stesso vale per l’Ucraina: nel momento in cui gli Usa smettono di sostenerla finanziariamente e militarmente, è obbligata a scendere a patti.
Se non fosse così, il conflitto è destinato a durare e ad approfondirsi, come capita in tutte le guerre che si prolungano. In questo senso, non sembra improbabile che, prima o poi, venga bombardata la centrale di Zaporižžja. Lei che ne pensa?
Beh, la Russia ci ha abituati a tutto…Ma bombardare la centrale nucleare sarebbe quasi peggio che mandare una bomba nucleare. Lo escluderei in questo momento, anche solo per il fatto che attualmente ci sono dei mezzi militari russi nella centrale. Più avanti non saprei. In ogni caso lo trovo improbabile: bisogna vedere quanto Putin possa decidere da solo sulla guerra. Uno dei grandi patti dell’attuale potere politico in Russia è che Putin si occupa del potere politico se i grandi gruppi industriali possono prosperare. Agli oligarchi si permette di vivere una vita fatta di agi e di grande lusso. Questa vita sarebbe improbabile se fossero costretti in rifugi o bunker anti-nucleari. Penso che si farebbe fatica anche a farlo digerire alle masse russe e alla stessa struttura del potere putiniano. La centrale è molto più vicina alla Russia che alla Spagna. Se il vento spira nella direzione “sbagliata” sono i russi, più che gli ucraini, a soffrire le conseguenze del bombardamento della centrale. Non si può comunque escludere che sia una misura da “ultima spiaggia”. Ma se dovesse accadere, si rafforzerebbe la mia ipotesi che con Putin non è possibile negoziare.
Leggi anche: Perché alla Cop27 non si parla dell’impatto ambientale del mondo militare?
© Riproduzione riservata