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Il bivio di fronte al quale ci ha posto la pandemia non prevede soluzioni di compromesso. Una strada, già abbondantemente intrapresa dai decisori politici e dai poteri economici, è quella di chiudere il prima possibile le faglie aperte nella narrazione liberista per stabilizzare un modello, la cui cifra permanente sembra essere quella della crisi. L’altra strada è quella di raccogliere i profondi insegnamenti della pandemia e trasformare quelle faglie in fratture per aprire la strada ad un’alternativa di società.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) approvato dal governo, sembra interamente indirizzato ad imboccare la prima direzione. È un piano privo di una visione, costruito come una ordinaria legge di bilancio, dove ognuno cerca di portare a casa qualcosa per il proprio settore e i propri interessi di riferimento. Un piano pensato intorno all’idea che la pandemia sia un incidente di percorso, un evento esogeno al modello socio-economico, un accadimento estraneo, superato il quale il sistema potrà riprendere il proprio ordinario cammino.
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Un piano figlio della cultura liberista, basata sull’idea della trinità religiosa di competitività-concorrenza-crescita e sull’assunto che il benessere della società si fondi sul benessere delle imprese. Un piano, infine, che prova a stabilizzare e rivitalizzare il modello economico-sociale sui filoni dell’innovazione digitale e degli investimenti nel settore ambientale, non utilizzandoli come leve per una conversione ecologica e sociale, ma come strumenti per prefigurare una nuova fase di capitalismo digitale e “verde”.
I cinque insegnamenti della pandemia
Per intraprendere la seconda direzione, sarebbe stato necessario far propri almeno cinque insegnamenti della pandemia, che avrebbero costretto tutt* ad una rivisitazione totale dei paradigmi sin qui utilizzati.
Il primo insegnamento riguarda la natura di questa epidemia. Nonostante la narrazione dominante lo descriva come un evento esogeno, precipitato da chissà dove sulle nostre vite – da qui l’uso della retorica del nemico invisibile e del linguaggio guerresco- il virus è un evento assolutamente endogeno a questo modello socio-economico e, nella sua virulenza, dimostra la rottura degli equilibri eco-sistemici provocata da decenni di relazione fra attività economica e natura basata sulla predazione, sull’estrattivismo, sulla negazione di ogni interdipendenza. Di fatto, il virus è una delle dimostrazioni della crisi climatica e ambientale in corso e ne mette in evidenza le drammatiche conseguenze.
Il secondo riguarda la relazione tra l’attività di produzione economica e l’attività di riproduzione sociale. Una società che ha sempre privilegiato la prima, misconoscendo il valore della seconda, storicamente affidata alle donne e mai retribuita, si è dovuta arrendere all’evidenza: senza cura delle persone, dell’ambiente e delle relazioni non è possibile alcuna attività economica e, dentro quest’ultima, sono proprio le attività socialmente meno considerate ad essersi rivelate essenziali e decisive dentro le fasi di lockdown, dagli operatori della sanità a quelli della scuola, dai ryder ai lavoratori dei trasporti, fino alle relazioni sociali messe in campo autonomamente negli ambiti familiari, di vicinato e territoriali.
Il terzo riguarda la constatazione di come una società interamente fondata sul mercato si sia rivelata incapace di garantire la protezione ad alcuno dei suoi membri. Al contrario, i drastici tagli degli ultimi decenni di politiche liberiste e di austerità hanno drammaticamente evidenziato i loro effetti: il sistema sanitario, il sistema scolastico e la rete dei trasporti pubblici sono andati repentinamente al collasso, lasciando le fasce più fragili della popolazione prive di diritti e di reti di supporto.
Il quarto riguarda l’impalcatura ideologica costruita attorno all’economia. L’epidemia ha rotto qualsiasi narrazione artificialmente costruita sul tema del debito e dei vincoli finanziari, che, da Maastricht in avanti, come dogmi religiosi hanno governato la società. Se per curare le persone sono, infatti, stati sospesi il patto di stabilità, il pareggio di bilancio e gli algoritmi del deficit, non ci vuole Aristotele per dedurre come quei vincoli fossero contro la vita e la cura delle persone.
Il quinto riguarda la centralità dei territori. Il virus ha potuto diffondersi con tale velocità sul pianeta perché ha utilizzato i binari di un modello globalizzato che fonda il proprio valore economico unicamente sulla velocità di spostamento di merci, capitali e persone (quelle legate alla produzione di valore, non quelle costrette alla migrazione): l’epidemia si è infatti diffusa attraverso i corpi dei manager e dei tecnici specializzati, cosi come quelli dei lavoratori dei trasporti e della logistica, e dei turisti. Una iper-connessione dei sistemi produttivi, finanziari e sociali, che da decenni attraversa in maniera predatoria i territori estraendone valore è andata in tilt, scoprendo improvvisamente come il mito della velocità abbia come contraltare il blocco totale di produzione, commercio, infrastrutture e relazioni.
La cura come nuovo paradigma
Se questi sono gli insegnamenti, un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza avrebbe dovuto essere costruito attraverso un’ampia discussione pubblica dentro la società, rivolta ad un drastico cambio di paradigma: sostituire l’io con il noi, prendere atto dell’interdipendenza sociale e naturale, respingere l’orizzonte della solitudine competitiva per approdare a quello della cooperazione solidale.
In una parola, prendersi cura di sé, dell’altr*, del vivente e del pianeta e, su queste basi, avviare la sfida di un’alternativa di società.
Non vi è traccia di tutto questo nel Pnrr. Ma è di tutto questo che abbiamo bisogno per dare dignità e futuro alla vita delle persone.
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