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venerdì, Novembre 15, 2024

Servono meno materiali e più studio. Intervista a Giulio Bonazzi di Aquafil

Le parole d’ordine di Giulio Bonazzi, ad e presidente di Aquafil, sono legislazione, istruzione, ecoprogettazione. “Non possiamo continuare a prendere indiscriminatamente risorse dal Pianeta. E quest’obiettivo lo raggiungiamo soltanto con la circolarità”

Silvia Ricci
Silvia Ricci
Collabora dal 2009 con l’Associazione Comuni Virtuosi come referente Economia Circolare nella realizzazione di iniziative attinenti alla prevenzione dei rifiuti da imballaggio rivolti ai diversi pubblici. Scrive per il sito Comuni Virtuosi e altre testate su tematiche attinenti alla progettazione e gestione circolare dei manufatti monouso. Dal 2022 coordina la campagna nazionale “A Buon Rendere - molto più di un vuoto”, per una veloce introduzione di un Sistema Cauzionale per imballaggi monouso per bevande

“Bisogna studiare, essere esperti di ogni cosa per far bene in questo campo. Preoccupazione per il Pianeta e passione sono la leva per approfondire e agire”. Esordisce così Giulio Bonazzi amministratore delegato e presidente di Aquafil, azienda ormai globale con testa e cuore ad Arco di Trento, sul lago di Garda. A fondarla sono stati i suoi genitori oltre mezzo secolo fa, ma Giulio l’ha trasformata negli ultimi vent’anni in leader globale del settore tessile orientato alla circolarità. Prodotto simbolo di Aqualfil, realtà mappata nell’Atlante dell’Economia circolare, è il nylon rigenerato e rigenerabile denominato Econyl: questo filato brevettato nel 2011 è ormai diffusissimo tra i grandi marchi della moda e in altri settori, come quello automobilistico. Abbiamo chiesto a Giulio Bonazzi di tracciare un bilancio del lavoro fatto in questi anni ma soprattutto del lavoro che resta da fare, come Paese, per orientare sempre più e meglio il Paese alla circolarità.

Dottor Bonazzi questo è un anno difficile per l’economia globale: ritiene che possa essere anche un’opportunità per riconvertire il modello produttivo delle imprese? Di cosa c’è bisogno affinché ciò avvenga?

Il premio Nobel Muhammad Yunus ha detto: “Prendiamo spunto dalla pandemia per cambiare tutto”. Io sono pienamente d’accordo con lui: questo particolare momento di stress, per quanto duro e difficile, rappresenta un’importante opportunità di cambiamento, tanto più che i soldi del Fondo per il recupero – per dirlo in italiano – potrebbe rappresentare una enorme opportunità. È importante però che non siano utilizzati per un taglio di tasse lineare che porterebbe solo benefici temporanei. Credo anche che in una parte dei consumatori si sia radicata l’idea che ci sia bisogno di cambiare le cose e noi, dal canto nostro, dobbiamo accompagnare questi processi: il consumo responsabile e intelligente rappresenta una leva importante. È difficile però pensare che la decrescita felice possa essere una soluzione per il Pianeta: miliardi di persone soprattutto nei cosiddetti Paesi emergenti vorranno consumare, vorranno avere uno stile di vita accettabile se non elevato. E solo la tecnologia ci può aiutare in questo processo di riconversione. Dobbiamo sempre più mettere assieme sostenibilità e digitalizzazione per rendere più efficiente e intelligente il modo di produrre e di consumare.

Nel caso specifico di Aquafil quali cambiamenti ha prodotto e produrrà la pandemia da coronavirus e la contrazione di fatturato che essa ha causato?

Aquafil ha deciso di potenziare gli investimenti in ricerca e sviluppo, aprendo nuove collaborazioni, assumendo nuove persone e depositando altri brevetti, frutto di questo lavoro continuo. Siamo una realtà solida e fortunatamente la flessione temporanea del fatturato prevista per il 2020 ci trova finanziariamente solidi, come lo sono anche i nostri clienti. Stiamo sforzandoci anche di partecipare più a forme di associazionismo che condividono il nostro pensiero, perché una parte importante del cambiamento è rappresentato dalla legislazione e dall’istruzione e mettersi insieme per rappresentare le nuove opportunità alle istituzioni è un lavoro importante e utile. Bisogna mettersi insieme per mostrare che ci sono modelli e soluzioni differenti.

Le facciamo fare un passo indietro. Ci racconta il momento in cui ha deciso di passare dall’approccio lineare a quello circolare? Cosa le dicevano all’epoca e cosa le dicono oggi i suoi colleghi imprenditori di questa scelta?

È stato un percorso nel quale mi ha aiutato mia moglie: quando siamo andati a vivere in campagna – era l’inizio degli anni Novanta – ha spinto affinché il nostro stile di vita fosse orientato alla sostenibilità, a cominciare dall’olio che producevamo, che ha voluto assolutamente fosse biologico. Per me all’inizio era assurdo, ma poi con il tempo mi sono convinto che quella fosse l’unica via per vivere in armonia con il Pianeta. In questo percorso è stata molto importante anche la figura di Ray Anderson, fondatore di Interface (tra i maggiori produttori al mondo di moquette, tessuti e teli commerciali, ndr), che allora non era ancora il mio maggior cliente. Nel nostro settore è stato un pioniere. La cosa strana, quando ho deciso di puntare dritto sulla sostenibilità in senso lato, è stata la reazione del mondo bancario, che invece di darmi più finanziamenti inizialmente mi ha tolto i fidi. Nel 2008-2009 probabilmente li toglievano a tutti, ma sentendo quello che io volevo fare mi dicevano “bravo” ma il giorno dopo mi comunicavano che nona avrebbero finanziato la mia idea di fare a meno della plastica vergine.

Diventare imprese migliori significa diventare imprese che fanno meno profitto? Perché sembra così difficile per tante aziende aprirsi alla circolarità?

Per alcune aziende, soprattutto quelle molto grandi, la riconversione è oggettivamente molto difficile e spesso vuol dire – come nel nostro caso – fare più profitti ma non da subito. All’inizio ci sono molti investimenti da fare e per ammortizzarli serve tempo, ma se guardiamo oggi i nostri bilanci rispetto a quello dei concorrenti emerge che abbiamo con il tempo abbiamo ammortizzato il gap di redditività nei loro confronti. È evidente che essere più sostenibili vuol dire anche fare maggiori profitti, sia perché diventi più efficiente sia perché riesci a sviluppare prodotti o processi così innovativi da creare vantaggi competitivi. Certo, innovare non è un percorso privo di ostacoli, e serve forse più tempo per entrare a regime, ma anno dopo anno si diventa più efficienti. Poi sono fiducioso che l’ecodesign ci farà fare un grande balzo in avanti, perché ricordo che oggi stiamo riciclando prodotti che non nascono per essere riciclati. Penso come sarà più semplice quando, nel giro di qualche anno, torneranno indietro prodotti studiati per entrare senza difficoltà nel circuito del riciclo e in impianti predisposti ad hoc.

Il mondo della moda, sotto i riflettori per gli impatti del fast fashion, a suo avviso è davvero pronto a un radicale ripensamento e a una vera riconversione dei modelli e dei processi produttivi?

Il fast fashion è un grosso problema: anche se non ci sono statistiche ufficiali, mi risulta che ora l’e-commerce sia diventato un problema ancora più grosso, perché gran parte della merce restituita dagli acquirenti per difetti o altro viene buttata via. Ma tornando al mono della moda, ci sono segnali positivi per quanto riguarda alcuni marchi. Ci sono aziende che ci hanno creduto per prime: penso al grande lavoro di ricerca di Stella McCartney, che ha veramente conoscenza dei materiali che usa. Anche il gruppo Kering ha pensato con largo anticipo a fare ricerca sui vari materiali disponibili. Napapijri, poi, ha fatto un lavoro enorme per ripensare completamente prodotto e processo di vendita. Che si siano arrivati per sensibilità o per le pressioni del mercato importa poco. Quello che importa è che questo possa generare competizione ed emulazione e contaminare positivamente il settore.

Non è detto che l’innovazione vada sempre a braccetto con la circolarità. Che ruolo gioca la tecnologia in questo ambito?

Faccio un esempio: Nel caso del riciclo della plastica – che io vedo sempre con un mix di riciclo meccanico e altri generi di riciclo – sono due i polimeri che possono tornare a esser monomeri: uno di questi è il nylon 6 e l’altro è il poliestere. Altre materie plastiche non possono essere depolimerizzate. Attualmente i grandi produttori stanno spingendo verso quello che chiamano “riciclo chimico”, tirando fuori un vecchio processo, quello della pirolisi, che spende energia per tornare a un prodotto che si possiamo definire “petroliaccio”, tornando di fatto indietro di 140 anni. L’errore è che questi materiali non diventano poi materie prime, perché a chi li produce conviene mettere in campo un processo meno raffinato e usarle come carburante. Questo gli dà comunque diritto ad acquisire dei crediti, in quanto vendono il prodotto di un processo di riciclo della plastica. Qualunque processo va misurato per poter essere valutato ed eventualmente migliorato. Bisogna andare a vedere quali sono le emissioni complessive, il grado di efficienza e la tipologia di residui per valutarne la sostenibilità. La tecnologia è centrale, ma deve diffondersi la consapevolezza che la scelta dei materiali è importante. Più entro nel contesto dell’economia circolare e più mi convinco non solo che servono materiali migliori ma soprattutto che servono meno materiali. Se noi continuiamo a inventarne di continuo, la cernita di questi nuovi materiali renderà l’economia circolare non efficiente e la porterà al fallimento. Lo vediamo già in parte oggi con i problemi che la confusione tra plastica e materia “bio based” (basata su materie prime vegetali) crea agli impianti di trattamento dei rifiuti, complicando i processi di riciclo. Il problema è trovare dei sistemi che riducano il prelievo delle materie prime dal Pianeta, altrimenti ce ne serviranno due. Anche se risolviamo il problema delle microplastiche e azzeriamo le emissioni climalteranti, non possiamo continuare a prendere indiscriminatamente risorse. E quest’obiettivo lo raggiungiamo soltanto con la circolarità.

Che ruolo gioca il legislatore nel raggiungimento di quest’obiettivo?

La legislazione, l’istruzione e l’ecoprogettazione sono i tre spetti su cui focalizzare l’attenzione. Il ruolo delle leggi è fondamentale: basta pensare al cambiamento indotto dall’obbligo di dichiarare la quantità di CO2 emessa dalle auto: al netto delle truffe, ha fatto fare importanti passi avanti al settore. Certo, individuare quale debba essere l’oggetto dell’intervento normativo non è semplice: non sempre è facile determinare quali siano i parametri da tenere in conto, ma bisogna provarci. Perché, ripeto, la legislazione può dar en grande contributo. La California, intervenendo sulla responsabilità estesa del produttore ha fatto importanti progressi. Dal conto nostro, noi imprenditori possiamo fornire dati ed esperienza, accompagnando questi processi. Per questo Aquafil si sta impegnando maggiormente nell’associazionismo: l’unione fa la forza e se non ci uniamo noi prevalgono le logiche di chi è più grosso e rema in un’altra direzione.

*ha collaborato Raffaele Lupoli

 

© Riproduzione riservata

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