Il 17 ottobre, Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà, è una di quelle ricorrenze che dovrebbe costringerci a guardare in faccia una realtà che spesso preferiamo ignorare: le disuguaglianze non sono un effetto collaterale ed “inevitabile” del progresso, ma il risultato diretto di un modello economico che ha fallito. Il modello lineare, basato sul “prendi-produci-getta”, genera scarti sia materiali che umani. Per chi, ogni giorno, parla di modelli di economia circolare e di futuro sostenibile, questa giornata assume un significato ancora più profondo perché la lotta alla povertà e la transizione verso l’economia circolare non sono due percorsi paralleli, ma la stessa, identica strada.
Oltre l’assistenzialismo: l’economia lineare come fabbrica di disuguaglianze
Per decenni, abbiamo affrontato la povertà con un approccio prevalentemente assistenzialista cercando di mettere una toppa su una falla che continua ad allargarsi. Tuttavia, se non cambiamo il sistema che genera questi drammi, ogni sforzo rischia di essere vano. L’economia lineare è intrinsecamente ingiusta visto che si fonda sull’estrazione intensiva di risorse − spesso da Paesi del Sud del mondo − con costi ambientali e sociali devastanti che non compaiono mai nel prezzo finale del prodotto. Comunità intere vengono private di terra e acqua, i lavoratori sfruttati in catene di approvvigionamento opache e i territori avvelenati.
Questo sistema crea una doppia povertà: una “povertà di risorse” per le comunità da cui estraiamo materie prime e una “povertà di accesso” per le fasce più deboli delle nostre società che subiscono gli effetti dell’inquinamento e i costi crescenti di beni essenziali. L’economia circolare scardina questo paradigma: non si limita a riciclare i rifiuti, ma ripensa l’intero ciclo di vita di prodotti e servizi. Progettare per durare, per essere riparato, condiviso e infine rigenerato, significa ridurre la pressione estrattiva, creare valore locale e promuovere un’economia che non si basa sullo sfruttamento, ma sulla rigenerazione. È un’economia di giustizia.

Povertà energetica: quando la bolletta diventa un muro
Un esempio drammatico e sempre più attuale di questa ingiustizia è la povertà energetica. Non è un concetto astratto: significa scegliere se pagare la bolletta della luce o fare la spesa, se vivere in case fredde d’inverno e roventi d’estate, con gravi conseguenze sulla salute. Secondo gli ultimi dati ISTAT, in Italia le famiglie in povertà energetica sono oltre 2 milioni. Questo fenomeno è correlato anche alla nostra dipendenza da un modello energetico centralizzato e basato sui combustibili fossili le cui quotazioni sono soggette a speculazioni e tensioni geopolitiche (come la crescita dei prezzi degli ultimi anni ha raccontato).
Anche in questo scenario, alcune risposte si possono trovare in approcci di circolarità: promuovere, ad esempio, le comunità energetiche rinnovabili (CER) significa democratizzare l’energia, trasformando i cittadini da semplici consumatori a “prosumer”, produttori e consumatori consapevoli. Investire massicciamente nell’efficienza energetica degli edifici, a partire da quelli popolari, non solo riduce le emissioni, ma taglia i costi in bolletta e crea posti di lavoro locali e non delocalizzabili. L’energia più pulita e più giusta è quella che non consumiamo. È un principio cardine dell’economia circolare: l’efficienza delle risorse rappresenta il primo strumento di equità.
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Il “giusto prezzo” del consumo critico: quanto costa la dignità?
Spesso ci viene detto che i prodotti sostenibili, etici e circolari “costano troppo”, rendendoli un lusso per pochi. Ci siamo mai chiesti quale sia il vero costo di un prodotto a basso prezzo? Quel prezzo, infatti, non include i costi ambientali dello smaltimento, né i costi sociali legati allo sfruttamento del lavoro che, invece, sono costi “esternalizzati”, scaricati sulla collettività, sull’ambiente e, molto spesso, sulle popolazioni più vulnerabili del pianeta.
L’economia circolare ci spinge a riconsiderare il concetto di “valore”. Un prodotto progettato per essere riparato, realizzato con materiali riciclati e attraverso una filiera equa, non è “caro”, ma ha un “giusto prezzo” che internalizza il rispetto per le persone e il pianeta. Il consumo critico, in quest’ottica, assume anche il valore di atto politico. Scegliere prodotti sfusi per ridurre gli imballaggi, preferire il mercato dell’usato, supportare le piattaforme di condivisione o rivolgersi a un artigiano per una riparazione sono tutte azioni che contrastano il modello “usa e getta” e redistribuiscono valore all’interno della comunità. È necessario, però, che queste alternative diventino accessibili a tutti e, quindi, non solo ad una nicchia informata e con buona capacità di spesa. Per questo servono politiche pubbliche che incentivino i modelli di business circolari e disincentivino quelli lineari.

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Dalla povertà di opportunità all’abbondanza circolare
L’economia circolare è una straordinaria fucina di nuove opportunità lavorative e imprenditoriali, proprio per quelle fasce di popolazione spesso escluse dal mercato del lavoro tradizionale. Pensiamo alle filiere della riparazione, del ricondizionamento e della rigenerazione di prodotti elettronici, mobili e tessuti. Si tratta di lavori ad alta intensità di manodopera che richiedono abilità artigianali e tecniche e che, per loro natura, sono radicati nel territorio.
Pensiamo all’agricoltura rigenerativa che cura il suolo invece di sfruttarlo, garantendo cibo sano e sicurezza alimentare o all’urban mining, l’estrazione di materie prime seconde dai rifiuti urbani, che trasforma le nostre città in miniere a cielo aperto. Pensiamo, ancora, ai modelli di “prodotto come servizio” (Product-as-a-Service) dove non si acquista più il bene (es. una lavatrice), ma il servizio che offre (es. i cicli di lavaggio), incentivando le aziende a produrre beni durevoli e facili da manutenere. Questi non sono sogni, ma modelli di business già attivi che dimostrano come sia possibile creare prosperità senza distruggere il pianeta.
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Spostare il paradigma dall’acquisto all’accesso vuol dire ridurre le disuguaglianze
Come rendere, dunque, l’economia circolare uno strumento per tutti e non un privilegio per pochi? La chiave è spostare il paradigma dall’acquisto all’accesso. Se una famiglia a basso reddito non può permettersi un trapano di alta qualità che userà due volte l’anno, non significa che debba comprare un prodotto scadente destinato a rompersi subito. La soluzione − come ricordano ad esempio storie virtuose come Leila a Bologna − è la condivisione. È in questo scenario, infatti, che possono entrare in gioco luoghi come le oggettoteche ovverosia le cosiddette “biblioteche degli oggetti”: spazi, spesso gestiti da associazioni o comuni, nei quali è possibile prendere in prestito, a costi bassissimi o gratuitamente, attrezzi da lavoro, piccoli elettrodomestici, attrezzature sportive o per feste. Queste iniziative garantiscono un risparmio economico diretto e, al contempo, combattono lo spreco e creano legami di comunità. Accanto alle oggettoteche, si dovrebbe sostenere lo sviluppo di Repair Café, luoghi d’incontro dove volontari esperti (o professionisti della riparazione magari sostenuti da misure pubbliche) aiutano chiunque a riparare i propri oggetti rotti, trasferendo competenze e ridando valore a ciò che sarebbe diventato un rifiuto. Per rendere questi modelli sistemici, è cruciale il ruolo delle amministrazioni locali che possono fornire spazi, promuovere piattaforme di sharing ed incentivare fiscalmente le attività di riparazione. La circolarità diventa così davvero democratica poiché non più basata sulla capacità di spesa per un prodotto “green”, ma sulla possibilità per tutti di accedere a servizi intelligenti, durevoli ed a basso impatto.
Tutto ciò deve farci riflettere sul fatto che la transizione ecologica dovrà essere socialmente giusta…. o non sarà. Non possiamo combattere la crisi climatica e la perdita di biodiversità lasciando indietro milioni di persone. La vera rivoluzione circolare è quella che salda la giustizia ambientale alla giustizia sociale, costruendo un’economia che funzioni per tutti e non solo per pochi. Un’economia che non produca più scarti: né materiali né umani.
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