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venerdì, Novembre 15, 2024

Si possono rendere sostenibili le fonti fossili? Il Mite ci prova con il PiTESAI

Il 16 luglio è stata avviata la consultazione pubblica di quello che dovrà essere lo strumento di pianificazione generale delle estrazioni di idrocarburi nel nostro Paese. L’attuale versione del PiTESAI punta sulla razionalizzazione: si continuerà a estrarre nei giacimenti produttivi e si sceglie di puntare (ancora) sul gas

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Atteso, temuto, invocato: finalmente il PiTESAI, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, comincia a diventare realtà. Il 16 luglio il ministero della Transizione ecologica ha lanciato la consultazione pubblica di quello che dovrà essere lo “strumento di pianificazione generale delle attività minerarie sul territorio nazionale, volto a individuare le aree dove sarà possibile svolgere o continuare a svolgere le attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi in modo sostenibile”. Previsto sin dal febbraio 2019, dalla legge che prendeva le mosse dal primo decreto Semplificazioni (dicembre 2018), il Piano dovrà indicare, dunque, dove e come si potrà continuare a estrarre petrolio e gas. Intanto si dovrà svolgere la consultazione pubblica, che può prendere il via dopo che lo scorso 15 luglio la Direzione generale per le infrastrutture e la sicurezza dei sistemi energetici e geominerari (DG ISSEG) ha trasmesso la documentazione necessaria. La consultazione avrà una durata di 60 giorni a partire dal 16 luglio (data di pubblicazione dell’avviso). Le osservazioni alla documentazione pubblicata dovranno essere inviate all’autorità competente per la Valutazione Ambientale Strategica (VAS) all’indirizzo mail cress@pec.minambiente.it.

Al di là dei tempi lunghissimi – dall’indicazione del Pitesai sono passati tre governi (Conte I, Conte II e Draghi) – la domanda di fondo è se davvero si può rendere sostenibile lo sfruttamento dei combustibili fossili o se non sia invece il caso di smettere el tutto di estrarli. Domanda legittima, specie alla luce delle nuove indicazioni della Commissione europea (proposte sintetizzate dalla formula “Fit for 55”), che intende raggiungere nel 2030 l’obiettivo di riduzione delle emissioni nette del 55% rispetto ai livelli del 1990 e diventare il primo continente carbon neutral nel 2050. Basti pensare che la Commissione ha proposto lo stop totale ai sussidi diretti e indiretti a petrolio, carbone e gas – mentre l’Italia nel 2020, come ha accertato uno studio di Legambiente, ai “sussidi ambientalmente dannosi” (così come definiti dall’ex ministero dell’Ambiente) ha erogato la bellezza di 35,7 miliardi di euro.

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Come si arriva alla consultazione?

In questi lunghissimi due anni e mezzo a farla da padrona è stata la moratoria temporanea – scade il 30 settembre 2021 – “legata all’approvazione, su autorizzazioni per nuovi permessi di prospezione, e/o di ricerca e/o di coltivazione di gas e petrolio”. In realtà la moratoria era stata prevista a febbraio 2019 per 18 mesi, con altre due proroghe che si sono poi aggiunte visti i ritardi per la stesura del PiTESAI. Tra l’altro la moratoria non ha riguardato né le istanze di concessione di coltivazioni già presentate né le coltivazioni già in essere. Addirittura non si è applicata per nulla in Sicilia, dove sono proseguiti i rilasci per nuovi permessi di prospezione e di ricerca (che avranno tempi molto lunghi prima di esaurire l’eventuale ciclo di produzione). Fino al 30 settembre, come ha osservato il coordinamento nazionale No Triv, “resteranno sospese le attività di 73 permessi di ricerca, di cui in verità 35 già sono sospesi per istanza del titolare, e 79 istanze pendenti di permessi di ricerca, oltre a 5 istanze di permesso di prospezione in mare”.

Quando ad aprile il minintero della Transizione ecologica aveva rilasciato alcuni decreti VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) per nuove estrazioni (e in un caso addirittura un permesso di ricerca) dall’Adriatico alla Sicilia, proteste si erano levate da più parti. Già a febbraio Enzo Di Salvatore, docente di Diritto costituzionale all’università di Teramo, ricordava che “ad oggi vi è una stratificazione normativa connessa all’iter decisionale che rende abbastanza nebulosa la materia delle trivelle. Senza dimenticare che le comunità locali, quindi i Comuni, nel corso dei vari interventi normativi sono stati esclusi dal poter partecipare all’iter amministrativo-autorizzativo”. A queste mancanze il Pitesai promette ora di sopperire. A patto che sappia tener conto delle nuove disposizioni comunitarie.

Il rischio, infatti, è che il Piano possa arrivare al traguardo già vecchio – così come è avvenuto ad esempio per il Pniec, il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, sul quale il ministero ha promesso da tempo un aggiornamento anche in relazione ai nuovi obiettivi comunitari. I tempi, inoltre, sono davvero risicati. Più volte il ministro Roberto Cingolani ha ribadito che questa volta verranno rispettate le scadenza. Nel Pniec il PiTESAI era previsto entro il 2020. In ogni caso il Piano comunque sarà adottato dopo la procedura della VAS e, con riferimento alle aree su terraferma, d’intesa con la Conferenza unificata. Si tratta, come si può notare, di un iter complesso che dovrà essere realizzato in estate: sarà la volta buona o assisteremo all’ennesimo rinvio?

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A chi si applica il PiTESAI

Nella descrizione del Piano per l’invio delle osservazioni, la cui scadenza è fissata per il 14 settembre, il ministero scrive che “il Pitesai tiene conto di tutte le caratteristiche del territorio, sociali, industriali, urbanistiche e morfologiche, con particolare riferimento all’assetto idrogeologico e alle vigenti pianificazioni e, per quanto riguarda le aree marine, deve principalmente considerare i possibili effetti sull’ecosistema, nonché tenere conto dell’analisi delle rotte marittime, della pescosità delle aree e della possibile interferenza sulle coste”. Per saperne di più bisogna leggere alcuni dei tanti documenti – soprattutto osservazioni presentati dagli enti locali – che sono contenuti sul sito dell’ex ministero dell’Ambiente. In particolar modo si rivelano fondamentali la proposta di piano, il rapporto ambientale e la sintesi non tecnica. Il ruolo fondamentale del Pitesai, come spiega la sintesi non tecnica (formulata attraverso domande/risposte), è quello di individuare “i criteri ambientali, sociali ed economici” affinché si possa stabilire “se una determinata area sia potenzialmente o meno idonea all’effettuazione delle attività di ricerca e di successiva coltivazione di idrocarburi e/o compatibile alla prosecuzione delle attività minerarie già in essere”. Ovviamente le nuove indicazioni non valgono per le vecchie e le attuali concessioni ma per i nuovi permessi di ricerca che arriveranno dopo l’approvazione del Pitesai, che dunque “avrà effetto sulle istanze e sui titoli minerari per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi”.

Dalla sintesi non tecnica si apprende poi che “l’area terrestre su cui si applica è pari al 42,5%”. Le Regioni interessate sono: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana (solo due concessioni), Veneto. L’area marina interessata è dell’11,5% delle zone marine aperte, quelle cioè dove è concessa la ricerca e la coltivazione di idrocarburi.

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I propositi del PiTESAI

Gli scopi del PiTESAI sono sintetizzati in questa tabella, presa direttamente dalla sintesi non tecnica:

Successivamente il ministero spiega che mira soprattutto a “una efficace transizione energetica, con l’intento di contribuire al raggiungimento degli obiettivi ambientali fissati dall’Unione Europea” – a tal proposito è necessario consultare gli allegati del rapporto ambientale. Come a prevedere alcune critiche, che in realtà ci sono già state, il ministero ci tiene a precisare che “si ritiene di poter asserire che il PiTESAI non è un Piano per l’ulteriore sviluppo delle attività upstream”. A leggere la documentazione, in realtà, il dubbio rimane. Non può certo bastare il fatto che, così come in realtà già avveniva e avviene per le passate e attuali concessioni fossili, si preveda “il monitoraggio ambientale dello stesso, con il quale verranno controllati gli effetti significativi sull’ambiente derivanti dall’attuazione del Piano e verificato il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità prefissati, così da individuare tempestivamente gli effetti negativi imprevisti e adottare le opportune misure correttive”. I controlli, infatti, sono sempre esistiti. Il problema è che non vengono effettuati con la dovuta solerzia, precisione e rapidità. E non si tratta di un’altra storia, perché a riguardo il Piano dice davvero poco.

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La fotografia del PiTESAI

Il ministero spiega poi che dal febbraio 2019 a giugno 2021 sono diminuiti sia i permessi di ricerca che le concessioni di coltivazioni. Numeri però molto bassi (rispettivamente di 20 unità e di 13 unità) che lasciano propendere per la tesi secondo cui al governo si tifa per una transizione molto lenta. Che, semplicemente, non possiamo permetterci. Come ricorda la sintesi non tecnica “al 30 giugno 2021 risultano vigenti 20 permessi di ricerca in mare e 61 concessioni di coltivazione in mare” e “37 permessi di ricerca in terraferma, a cui vanno conteggiati separatamente per la Sicilia 6 permessi di ricerca”. In pratica vuol dire che, con l’attuale situazione cristallizzata dal Pitesai, si continuerà a estrarre almeno per i prossimi 10 anni. Senza considerare le nuove concessioni che comunque il PiTESAI intende concedere. In “modo sostenibile”, s’intende. Ma qual è la situazione attuale?

“Al 31 dicembre 2020 erano presenti 1.623 pozzi attivi di cui 687 in produzione (530 a gas e 157 ad olio, 439 ubicati in terra e 248 in mare). Gli idrocarburi prodotti sono convogliati in 71 centrali di raccolta e trattamento a gas e 15 centrali ad olio. Al 31 dicembre 2020 le centrali di raccolta e trattamento di idrocarburi ubicate a terra nel territorio nazionale sono 86, di cui 71 per il trattamento del gas e 15 per il trattamento dell’olio”. Inoltre al 31 dicembre 2020 “sono installate 138 strutture marine”, più note come piattaforme, di cui “ben 94 sono entro le 12 miglia, e il 40% delle piattaforme risulta non operativa”. Nonostante questi numeri, e nonostante i portentosi sussidi statali di questi decenni, il settore dell’oil&gas non gode di buona salute.

È vero che sui numeri dell’ultimo anno ha inciso la riduzione dei consumi dovuta alla pandemia Covid-19, ma è noto come il nostro sia un Paese povero di risorse naturali e il mito dell’autarchia energetica è, appunto, da considerarsi come tale. Almeno fin quando non ci sarà un deciso cambio di rotta sulle energie rinnovabili. Intanto, come rende noto il ministero, “nel 2020 è stata registrata una produzione di gas naturale pari a 4,42 miliardi di metri cubi, con un decremento dell’11,4% rispetto alla produzione 2019. Nel 2020 si è registrata una produzione di olio greggio pari a 5,38 milioni di tonnellate con un incremento del 26,13% rispetto alla produzione 2019. Le produzioni nazionali di gas ed olio nel 2020 hanno contribuito rispettivamente per circa il 6,2% e circa il 11,3% al fabbisogno nazionale”.

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La transizione disegnata dal PiTESAI

Difficile tenere insieme esigenze ambientali, sociali ed economiche. Specie se non si dà la priorità a nessuno di questi aspetti o, meglio, la si dà a tutti. E allora l’equilibrio tentato dal PiTESAI è davvero precario. Lo si nota soprattutto nell’idea di transizione che viene fuori dal rapporto ambientale. “La transizione presenta e presenterà effetti differenti nei territori – si legge nel documento – e in alcuni potrà rivelarsi un complesso mix che include anche impatti negativi, soprattutto in quelle aree dove è presente un significativo sistema socio-economico dipendente dalle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi. Si pone quindi, in termini di sostenibilità, anche la questione sociale di una giusta transizione (just/fair transition) e del reskilling, volti a una diversificazione intelligente che non comporti shock nel sistema del lavoro e perdite di competenze, soprattutto in quelle aree dove è presente un significativo sistema socio-economico e tecnologico basato sulla filiera dei combustibili tradizionali e dal sistema estrattivo di materie prime energetiche”.

Si punta poi a un “maggior efficientamento” e a una “razionalizzazione del settore”, per evitare “anche l’eccessivo allungamento dei tempi amministrativi connessi e conseguenti a tali attività”. In pratica il PiTESAI, quando ne sussistono le condizioni, promette addirittura di accelerare i tempi delle autorizzazioni a chi intende estrarre petrolio e gas, per “ridurre le difficoltà di investimento, le tensioni, i contenziosi e quindi gli stessi tempi degli investimenti, che potranno riprendere post moratoria in una cornice consolidata”.

Allo stesso tempo il governo Conte I (su spinta del M5s) durante la fase di ideazione del Piano aveva già aumentato i canoni annui di 25 volte, a partire dall’1 giugno 2019, sulle concessioni di coltivazione di idrocarburi. “Tali canoni – spiega il ministero – erano rimasti invariati da oltre venti anni dalla precedente normativa regolatrice e adeguati solo in base agli indici Istat. Il legislatore ha comunque previsto, nella medesima norma del PiTESAI che aumenta i canoni concessori, la possibilità per concessionari, una volta verificata la convenienza della concessione alla luce dell’importo dei nuovi canoni, di dismettere quelle non più redditizie”. Come a dire che aumentando le tasse saranno le imprese a valutare se è ancora conveniente continuare a estrarre. Questa rideterminazione, inoltre, “si inquadra nell’ottica della valorizzazione dei beni pubblici, che mira a una loro maggiore redditività per lo Stato, finalizzata a una transizione energetica che appare valore fondamentale nell’interesse della generalità dei cittadini e che deve ritenersi idonea a giustificare la diminuzione proporzionale dei vantaggi dei soggetti che assumono la veste di concessionari”.

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Le possibili conseguenze del PiTESAI

Lo scenario prospettato dal Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee si può riassumere in una sola parola: razionalizzazione. Un approccio molto pragmatico (troppo?) che sin dalla sua elaborazione “consente, e continuerà a realizzare, la finalità primaria della razionalizzazione prevista dal Piano dell’intero settore dell’upstream italiano, in termini di maggior efficientamento delle aree impiegate per tali finalità, evitando anche l’eccessivo allungamento degli iter amministrativi connessi e conseguenti a tali attività”. Al netto dei distinguo e delle nuove zone dove non sarà possibile estrarre – che però non vengono indicate e dunque vanno al momento presunte – ciò che viene evidenziato è “come la produzione di idrocarburi nazionali sia concentrata solo in una ridotta percentuale delle concessioni attive”. La tesi avanzata dal ministero è dunque che nei prossimi anni verranno garantite le concessioni già in essere, o quelle future, sulle quali c’è ancora molto da estrarre.

Per dirla in breve: territori come la Basilicata (dove sono concentrate gran parte delle estrazioni petrolifere nazionali su terraferma), la Sicilia, l’Abruzzo, le Marche e l’Emilia Romagna (dove i giacimenti più promettenti sono sul mare), continueranno a essere interessati dalle estrazioni. “Gran parte della produzione complessiva di gas nazionale registrata nel 2020 – scrive infatti il ministero – è ascrivibile alle 17 concessioni più produttive che hanno realizzato complessivamente 3.566 milioni di m3, pari all’81% della produzione nazionale. Quanto fin qui rappresentato evidenzia come la produzione di gas nazionale sia concentrata solo in una ridotta percentuale delle concessioni attive: circa il 9% delle concessioni attive fornisce oltre l’80% della produzione nazionale. La produzione complessiva di olio greggio dell’anno 2020 è principalmente ascrivibile alle 4 concessioni più produttive (circa il 2% delle concessioni vigenti) che hanno realizzato complessivamente 4.893 milioni di tonnellate, pari a oltre il 90% della produzione nazionale”.

Di fronte a questo quadro lo strumento del PiTESAI  persegue quindi una razionalizzazione che” non si pone in antitesi con le necessità di salvaguardare la produzione nazionale e i livelli occupazionali”, che lo stesso ministero indica – per le concessioni di coltivazioni attive – intorno alle 10mila unità lavoratori l’anno, considerando sia gli impiegati diretti che quelli indiretti. Sembra, insomma, che il ministero voglia prima di tutto garantire continuità a questo settore produttivo, visto che non si parla di processi di riconversione dei lavoratori. Tuttavia il ministero ribadisce a più riprese che “la redazione del PiTESAI è una misura di carattere prevalentemente ambientale, preordinata e necessaria per il perseguimento di una efficace transizione energetica” e che “nel caso della presentazione di nuove istanze (successive all’approvazione del Pitesai) di permessi di prospezione e di ricerca, il criterio ambientale rappresenta il criterio prevalente per la valutazione della loro attuazione; in tal caso sarà stimata la presenza degli elementi ambientali sensibili nelle aree interessate”. Né più né meno, in realtà, di quanto già non preveda l’attuale normativa, col criterio ambientale prevalente che somiglia più a un generico impegno che a una disposizione normativa. Un ultimo paradosso svela poi la rotta intrapresa dal ministero retto da Cingolani, e basata su una transizione energetica che punta moltissimo sul gas: in aree che oggi sono prive di titoli minerari, infatti, “sarà possibile dopo il PiTESAI presentare nuove domande di permesso di prospezione o di ricerca solo se finalizzate alla ricerca di giacimenti di gas”.

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