Senza innovazione e senza rinnovamento non si esce dalla crisi economica ed ecologica in cui ci troviamo. E senza una regia forte dello Stato, magari immaginando un’agenzia nazionale ad hoc, l’Italia non coglierà l’opportunità offerta dal pacchetto Next Generation Eu. Se ne è discusso ieri durante l’incontro “Le misure per l’economia circolare nel Recovery Plan nazionale”, organizzato dal Circular Economy Network nell’ambito degli Stati Generali della Green Economy. Un folto gruppo di ospiti, che ha messo insieme pubblico e privato con la mediazione e la collaborazione del terzo settore, partendo da quello che può diventare una enorme occasione di svolta per il Paese o il più grande spreco degli ultimi anni: l’utilizzo dei fondi del Recovery Fund, 209 miliardi di euro – tra prestiti e sussidi – che l’Europa ha messo in campo per sostenere la ripresa dell’Italia nell’era post Covid-19.
I settori su cui spingere
In apertura, il coordinatore del Circular Economy Network Fabrizio Vigni ha ricordato che “bisogna partire dal potenziamento del Piano di transizione 4.0, più noto come Industria 4.0, ricordandoci che l’Italia vanta il secondo comparto manifatturiero d’Europa. Nella nostra idea – ha aggiunto igni – col Recovery Fund si potrebbe stabilizzare il credito d’imposta per le imprese per 5 anni e raddoppiare gli incentivi e gli strumenti agevolati, in settori come l’ecodesign, la simbiosi industriale e la riparabilità. Bisognerebbe poi raddoppiare, entro il 2030, i materiali derivanti da riciclo di materia e anche qui si potrebbe pensare all’utilizzo del Recovery Fund incentivando in questo caso le attività di ricerca e potenziando lo sviluppo tecnologico delle imprese. Inoltre, si dovrebbero sostenere le aziende che operano nella sharing economy e quelle che operano nel prodotto come servizio”.
Gli strumenti normativi e il nodo impianti
Quella del Recovery Fund è una “partita decisiva”, per usare ancora le parole di Vigni, e il punto di partenza è che il 37% delle risorse deve essere destinato alla transizione verde, in conformità ai principi enunciati nel cosiddetto Green Deal. L’economia circolare diventa in questo senso una priorità e una via percorribile grazie al quadro normativo europeo: il Piano europeo sull’economia circolare del 2015, le direttive del 2018 sui rifiuti e i decreti di recepimento, la direttiva sulle plastiche monouso e il nuovo Piano europeo sull’economia circolare del 2020. Tra i punti principali di quest’ultimo provvedimento vale la pena ricordare l’obiettivo del dimezzamento della quantità di rifiuti urbani residui (non riciclati) entro il 2030, anche in questo caso con il possibile supporto del Recovery Fund alle zone più in difficoltà.
“Uno dei nodi fondamentali è quello dell’impiantistica: senza impianti tutta la filiera non può avere la sua struttura sostanziale – ha concordato Laura D’Aprile, direttrice generale per l’economia circolare al ministero dell’Ambiente -. Stiamo lavorando ad esempio al programma nazionale dei rifiuti, per questo motivo abbiamo già convocato le regioni e Ispra per un primo avvio, e a breve ci sarà il confronto con le imprese del settore. Vogliamo individuare i flussi e le esigenze impiantistiche per garantire uno sviluppo omogeneo in tutto il Paese, soprattutto per quanto riguarda l’organico e per adeguare gli impianti alle Bat (Best Available Technologies, le migliori tecniche disponibili, ndr). Il nostro ministero farà dunque da supporto normativo alle Regioni e contemporaneamente da sostegno economico, in proprio e coi nuovi fondi dell’Europa”.
Obiettivo semplicità
Da più parti si è sollevata l’esigenza di una strategia nazionale, perché il tema dell’economia circolare non è solo una questione ambientale ma anche, come suggerisce lo stesso termine, di sviluppo economico. In questo quadro diventa cruciale il ruolo del Mise – che vanta anch’esso una direzione destinata all’economia circolare – e del ministero dell’Agricoltura, ancora in ritardo sul tema. “Serve uno sforzo sistemico e coerente – ha ammonito Elio Catania, neoconsigliere per la industriale al Mise – perché l’economia circolare è un cambio strutturale che interessa tutti i settori del mondo produttivo, dall’approvvigionamento delle risorse al consumo fino alla produzione di rifiuti e alla reimmissione delle materie prime e seconde. La platea interessata è di almeno 300mila imprese, e forse sono numeri limitativi. Già l’anno scorso, di concerto col ministero dell’Ambiente, abbiamo voluto stimolare la transizione energetica: nel 2019 il 20% delle risorse disponibili è stato legato all’innovazione e all’economia circolare. L’interesse è forte: faccio notare che solo quest’anno sono stati presentati nuovi progetti, legati alla ricerca e allo sviluppo, per 110 milioni di euro. Puntiamo poi alla riconversione degli impianti produttivi e al rafforzamento delle competenze, con l’obiettivo di avere 7mila dottorati all’anno in questo ambito. Se è vero, come ci dice l’Ocse, che si possono ottenere risparmi di produzione di miliardi di euro serve che l’economia circolare diventi una priorità. Perciò abbiamo bisogno di semplicità e di quella che io chiamo una costante ossessione dell’attuazione, affinché si possa fare la differenza”.
“La politica torni a decidere”
Come ha ricordato Gianni Girotto, presidente della Commissione Attività produttive al Senato, ci sono settori che più di altri potrebbero immediatamente avvantaggiarsi di una accorta direzione del Recovery Plan che l’Italia dovrà presentare all’Unione Europea. Senza limitarsi a “svuotare i cassetti dei ministeri”, per parafrasare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ma elaborando strategie concrete, integrate e lungimiranti. “Penso ad esempio ai rifiuti da demolizione – ha dichiarato Girotto -. Più in generale molte altre filiere dovranno creare dei consorzi, in particolare quella del tessile, che è la seconda filiera più inquinante al mondo dopo quella fossile. Allo stesso tempo ci sono casi positivi, ad esempio sulla batteria al litio c’è un’azienda italiana che sta progettando e costruendo uno stabilimento per creare l’intera filiera di questo materiale fondamentale, compreso il riciclaggio. A me poi sta a cuore il settore dei Raee, che al momento ci vede indietro visto che ne ricicliamo solo il 30%: ciò è un danno economico perché le materie prime che contengono sono importanti ed è un danno ambientale perché questi rifiuti vengono contrabbandati all’estero o comunque spediti dove i processi di riciclaggio non sono curati come avviene in Europa”. Così se non sorprende più che a parlare di ambiente sia un parlamentare dell’ex commissione Industria, allo stesso modo succede che Alessia Rotta, presidente della commissione Ambiente a Montecitorio, incentri il suo intervento sulle opportunità produttive dell’economia circolare. “Non si tratta più di una sfida ma di una necessità – ha osservato Rotta – visto che importiamo più della metà delle materie prime, e allora serve che impariamo a recuperarle dalle materie prime seconde. Le imprese poi non devono essere lasciate sole. Quel che è certo è che col Recovery Fund la politica deve tornare a decidere, e quella dell’economia circolare è la migliore strada possibile”.
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