Partiamo dalla definizione: per simbiosi industriale si intende l’interazione tra diversi stabilimenti industriali che viene utilizzata con l’obiettivo di massimizzare il riutilizzo di risorse, normalmente considerate scarti, e condividendo la conoscenza e le competenze tra aziende diverse. In pratica industrie tradizionalmente separate promuovono un approccio integrato, finalizzato a ottenere vantaggi competitivi per ciascuna attraverso lo scambio di materia, energia, acqua e sottoprodotti.
Una delle prime persone a dare una definizione specifica di simbiosi industriale è stata Marian Ruth Chertow, docente all’Università di Yale, che ha mostrato come per realizzare la simbiosi industriale servano fattori essenziali come “la collaborazione tra imprese e le opportunità di sinergia disponibili in un contesto omogeneo dal punto di vista geografico ed economico”. La simbiosi industriale si propone dunque come strumento per la chiusura dei cicli delle risorse, in modo che queste vengano scambiate e si possa generare un circuito di economia circolare.
Leggi anche: Sfridoo, il provider dell’economia circolare
Dal concetto alle applicazioni
Senza andare a scomodare gli antichi greci – che però la sapevano lunga, e infatti la parola simbiosi deriva dal greco syn (con) e bios (vita) -, l’applicazione più nota della parola è in biologia. Dove per simbiosi si intende l’associazione fra due o più individui appartenenti a specie vegetali o animali diverse, in modo che dalla vita in comune traggano vantaggio entrambi, o anche uno solo ma senza danneggiare l’altro. Ancora più nota è la sua estensione nel linguaggio figurato, in cui a essere in simbiosi possono essere due (o più) persone, due (o più) correnti artistiche, un uomo con la propria moto e mille altri esempi.
Come affermato in un recente articolo pubblicato su ScienceDirect, “oggi la simbiosi industriale è considerata una strategia chiave a supporto della transizione verso l’economia circolare, tanto che l’attenzione ricevuta in letteratura sul tema è molto cresciuta. Secondo Scopus, infatti, dalla fine degli anni ’90 sono stati pubblicati circa 1.000 lavori scientifici da oltre 1.900 studiosi, che fanno parte di una vasta comunità scientifica con diversi gruppi di ricerca sparsi in tutto il mondo. I suddetti contributi comprendono sia articoli pratici (per esempio la descrizione di casi studio) che concettuali, finalizzati allo sviluppo di nuove teorie sullo sviluppo della pratica, che possono essere classificati sulla base di quattro dimensioni principali: evoluzione e sviluppo, vettori operativi, meccanismi di guida e valutazione dell’efficienza dei sistemi industriali”.
Far comunicare i diversi o perlomeno i simili che finora hanno visto l’altro come concorrente, se non come nemico: se volessimo metterla in termini più filosofici, ecco il nucleo originario della simbiosi industriale. Che però, come abbiamo visto, ha risvolti pratici e soprattutto persegue obiettivi concreti.
Leggi anche: Emissioni, la corte olandese condanna Shell. Per le industrie fossili arriva la stretta definitiva?
La simbiosi in Europa e l’obiettivo delle zero emissioni
Di simbiosi industriale nei documenti Ue si comincia a parlare già 10 anni fa, quando la Commissione la indica come “una delle strategie per stimolare una produzione più efficiente”. Nel 2018 la simbiosi industriale entra ufficialmente nel diritto comunitario e gli Stati membri sono ora tenuti a promuovere pratiche replicabili. Di più: nel recente Piano d’azione per l’economia circolare la simbiosi industriale diventa una delle componenti chiave. A incentivarla dovranno essere soprattutto le industrie pesanti – acciaierie, petrolchimici, raffinerie, cementifici, impianti chimici – che dovranno comunicare tra di loro per condividere risorse e diminuire in questo modo gli impatti ambientali. Ma c’è di più.
Il Center for Research into Energy Demand Solutions dell’università di Oxford ha identificato l’efficienza delle risorse come la singola più grande opportunità per mitigare i cambiamenti climatici. Una tesi confermata da un recente rapporto di Accenture, in collaborazione con World Economic Forum, e intitolato Industrial Clusters: Working Together To Achieve Net Zero, che pone l’accento proprio sulla circolarità a livello industriale. Attualmente le pressioni delle ong intendono far sì che anche la simbiosi abbia il suo giusto posto alla COP26 per mostrare come questa può contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici.
“Il più grande contributo che la simbiosi industriale può dare per aiutare i cluster – si legge nello studio di Accenture e WEEE – a raggiungere lo zero netto è forse la strategia di coinvolgimento inclusiva e intersettoriale al suo interno che non solo offre benefici a breve, medio e lungo termine, ma crea anche le condizioni per un’ulteriore innovazione. Inoltre, coinvolgendo l’industria in modo olistico, offre l’opportunità di introdurre altre soluzioni di rafforzamento dell’economia circolare, fornendo un contributo immediato alle ambizioni di neutralità climatica da parte dell’Europa entro il 2050”.
Leggi anche: Le Nazioni Unite dicono no al metano: “Emissioni dimezzante entro il 2030”. Lo studio
La gerarchia territoriale e il caso italiano
Tra i concetti cardine dell’economia circolare, ancor più applicabile nella simbiosi industriale, c’è quello della gerarchia territoriale. Cosa significa? Vuol dire che se si vogliono chiudere i cicli in tutta la fase della catena del valore, allora è meglio privilegiare i cicli brevi. Ciò infatti comporta bassi impatti, sia dal punto di vista ambientale (distanze più brevi significa trasporti più brevi e quindi meno emissioni) sia dal punto di vista sociale (distanze più brevi si traduce in una maggiore occupazione locale). In più i cicli brevi possono essere meglio modificati e integrati, perché a livello locale si può favorire una maggiore partecipazione e una maggiore capacità di intervento da parte degli enti locali.
Lezioni che il nostro Paese dovrebbe ben assimilare, visto che le (poche) multinazionali presenti nel nostro Paese difficilmente valorizzano i territori, che anzi vengono sfruttati soltanto per estrarre profitto e imporre le proprie condizioni. Mentre le aziende di casa nostra troppo spesso si chiudono a riccio, invece di condividere problemi ed esigenze per superarle. A ciò può contribuire certamente la simbiosi industriale, che spinge proprio alla collaborazione e alla partecipazione. Se si mettono insieme le risorse primarie – dall’acqua all’energia fino alla gestione dei rifiuti – potrebbe derivarne una maggiore innovazione per ciascuna impresa, attraverso uno scambio di competenze.
Esempi del genere finora sono sorti in maniera spontanea nei famosi distretti industriali che hanno caratterizzato, e caratterizzano, soprattutto il Centro e il Nord Italia dal secondo dopoguerra. Quel che è mancata, però, è una pianificazione pubblica che tenga conto delle nuove prospettive circolari. Affinché di questo processo proficuo possano poi beneficiarne in primis i territori dove operano le aziende, e più in generale il pianeta.
Leggi anche: Decreto semplificazioni? Per l’economia circolare solo un maquillage, mentre si agevola l’incenerimento
L’esempio del Sudafrica
Uno dei più interessanti casi di studio a livello mondiale è quello raccontato recentemente dalla Ellen Mac Arthur Foundation e avvenuto in Sudafrica, esattamente nella provincia del Capo Occidentale. L’analisi è partita dai bisogni. Qui, si legge nel report, “il governo mirava a creare posti di lavoro” e a “stimolare la crescita economica riducendo al contempo il degrado ambientale”.
Per realizzare questi obiettivi è stato creato il Western Cape Industrial Symbiosis Program (WISP), ovvero il primo programma di simbiosi industriale dell’Africa. “Il programma – scrive la fondazione Usa – è finanziato dai dipartimenti governativi e fornito da GreenCape, un’organizzazione senza scopo di lucro. WISP è un servizio di facilitazione gratuito che cerca di creare collegamenti o sinergie reciprocamente vantaggiosi tra le aziende associate. Il programma tenta di collegare le aziende in modo che possano identificare e realizzare le opportunità di business utilizzando risorse inutilizzate o residue (materiali, energia, acqua, risorse, logistica e competenze). Il programma non solo devia i rifiuti dalle discariche, ma aggiunge anche valore ai materiali, prolungando l’uso dei materiali attraverso molteplici applicazioni e creando nuove opportunità per le imprese”.
Ad oggi, il programma ha deviato più di 104.900 tonnellate di rifiuti dalle discariche, creando 218 posti di lavoro in tutta l’economia, principalmente nelle piccole e medie imprese che, spesso, sono anche aziende locali. Fornendo molte nuove opportunità commerciali, nonché risparmi sui costi e stimolando ulteriori investimenti privati.
© Riproduzione riservata