[di Daniele Sforza]
Una mela matura, buttata a terra dal suo albero, deve lottare con tutte le sue forze per ritornarci sopra. Ne va della sua vita
Sinossi
Una mela vive una vita tranquilla appesa al suo albero, riscaldata dal sole e cullata dal vento. Un giorno, all’improvviso, viene buttata giù da un pettirosso troppo vivace e in cerca di cibo gustoso. La mela, ferita e ammaccata, deve adattarsi al nuovo mondo. Incontra un lombrico e poi altri animali del sottobosco tra cui un piccolo roditore che l’aiutano a comprendere e ad adattarsi alla nuova situazione. Riesce a superare la paura ma presto si ritrova ad affrontare un nuovo pericolo: il contadino proprietario del terreno.
La storia si svolge tutta intorno a un albero di melo all’interno di un podere nella campagna pugliese. Siamo in un periodo dell’anno in cui non è ancora autunno e non è più estate.
L’incontro con il contadino stravolge il mondo della piccola mela fino al colpo di scena finale che le fa sembrare il tutto un lungo terribile sogno.
La storia si conclude nell’arco di una giornata anche se alcuni eventi si prolungano nell’arco di diversi mesi. Il punto di vista è quello della mela che è dunque narratore e protagonista della storia. Sarebbe bello ascoltare il racconto dal punto di vista degli altri protagonisti, ma questa è un’altra storia. Il sottotitolo del testo, senza esagerare, potrebbe essere “un racconto di morte e resurrezione”. Una storia di vita e di economia circolare dove quello che è dato per spacciato può ritornare in vita.
Cullata dal vento
Era settembre inoltrato. Si sentiva ancora l’odore dell’estate misto al puzzo di sterco e fieno delle masserie vicine. L’aria era comunque leggera e da lontano arrivava il muggire stanco di bovini al pascolo. Me ne stavo con la mia voglia verde sul sedere sonnacchiosa su di un albero isolato nelle campagne di Laterza ricche di tratturi e muretti a secco. In lontananza si vede l’impianto di compostaggio della Progeva.
Era tozzo, l’albero. E rigoglioso di foglie ovali fitte fitte e pieno di mele un po’ rosse rigate di giallo e un po’ verdi rigate di arancione.
Me ne stavo serafica baciata dal sole e cullata dal vento, in attesa che il massaro o i suoi uomini mi cogliessero. Me ne stavo così sovrappensiero quando…
Il pettirosso
Quando all’improvviso arriva un giovane e spavaldo pettirosso. Zampetta di ramo in ramo incapace di trovare un punto di appoggio.
Fischietta un poco e si muove tanto. Strattonando foglie e rami fa cadere a terra mele compagne vicine. L’uccello becca anche me che cado, come una pera cotta, nel terreno tra un sasso e un mucchio di erba. Sono sbalordita. “Non può essere?” mi dico “non a me!”.
Gemo. Il mondo mi crolla addosso. Anzi io stessa crollo sul mondo con una ferita in testa e un’ammaccatura qui sul lato.
Mi guardo intorno. I raggi del sole che fino ad allora mi avevano riscaldata ora mi sembrano lame di coltello. “Non a me!” continuo a ripetermi. “Non a me”, ma intanto è successo.
Maledetto pettirosso.
Paura
Sento la paura avvolgermi. Il volo è stato breve ma consistente. La botta sul terreno soffice mi ha fatto comunque perdere per un attimo l’orientamento. Sola sulla terra umida avverto il dolore della ferita. Imploro in silenzio Madre Natura che il giovane pettirosso non mi veda.
“Fa che non mi veda” sento che mi ripete il mio pericarpo. E intanto cerco di spostarmi senza grande successo. Perdo liquido e mi sembra di sudare. Ma è solo un po’ di brina avanzata dalla notte prima.
Il viscido lombrico
Tra l’erbetta sento con timore gli occhi addosso di qualcuno. “Non preoccuparti” mi dice un lombrico incartapecorito e con voce dolce “il pettirosso è volato via. Siamo al sicuro”.
Il lombrico, con le sue spire voluttuose, mi rotola sotto e mi spinge in un anfratto sicuro fatto di erba, muschio e sassi. Al riparo da occhi voraci di volatili. Mi verrebbe da ringraziarlo ma qualcosa mi dice di diffidare di lui. È viscido. Ho paura.
“Voglio tornare sull’albero” grido con tutta la mia disperazione stringendomi per una fitta alla ferita. “Qui sei al sicuro” mi ripete il lombrico girandomi intorno.
Sì, si sta bene, ma anche i dolori si fanno sentire per la ferita inferta dal maledetto pettirosso e per l’impatto della caduta.
Mancano le carezze del vento e il panorama offerto dall’albero.
Nuovo mondo
Passa un po’ di tempo. Il lombrico appare e scompare avvolto dalle sue stesse spire. Comincio ad abituarmi al nuovo posto.
L’erbetta è fresca e anche il terreno è morbido e profumato. Molti piccoli animaletti vengono a farmi visita. Come il lombrico, di tanto in tanto, mi accarezzano amabilmente la ferita.
Sento il ronzare di un calabrone che si aggira in cerca di polline tra le piante e i fiori vicini.
Tento di spostarmi, di girarmi… mi manca l’aria, mi sento sommersa e in pericolo. Stare lì ai piedi del mio albero mi fa sentire piccola piccola.
Penso di non essere al sicuro lì. Il volatile potrebbe decidere di atterrare e cercare di completare il pasto che ha perso.
Sento un odore pungente di foglie secche, funghi e muschio.
Non posso restare qui a lungo. Devo cercare di spostarmi senza essere vista dai volatili o altri predatori. Penso, anche se già so che si tratta di un’impresa impossibile, che dovrei cercare di risalire sull’albero o, più realisticamente, di spostarmi più in là per farmi cogliere da un contadino di passaggio. Il viscido lombrico potrebbe aiutarmi.
Un saggio
Sento un fruscìo tra le foglie. Sarà il vento. No. Mio Dio! È un topo. Un topo! Povera me. È la fine! Resto immobile. Trattengo il respiro. Lo vedo aggirarsi intorno a qualche pezzo di ramo secco e frusciare tra le foglie ingiallite. Povera me. Si avvicina. Mi sfiora con i suoi baffi lunghi e bianchi. Che orecchie a sventola che ha.
“Mi sono perso” mi dice con quella faccia da sberle. “E stai tranquilla. Le mele come te le disgusto, con rispetto parlando. Preferisco i funghi o qualche lumachina se ne trovo”. Sorride con i dentini aguzzi.
Fiuuuuu! Che fortuna! Gli racconto la mia disavventura. Gli chiedo di spingermi un po’ più là in modo da poter essere vista da qualche buon contadino ma abbastanza al riparo da non essere vista dal pettirosso.
Lo fa con delicatezza e poi mi dice “Buona fortuna e non aver paura. Le mele come te non hanno paura di cadere.” Resto basita mentre sento il topo che si atteggia a vecchio saggio.
“La caduta – prosegue – fa parte della strada che porta al successo. Le mele o gli animali che evitano di cadere – come pensano e fanno molti umani – evitano anche di avere successo.” Poi mi fa “ciao” con la zampetta e corre veloce a nascondersi dentro un tronco cavo lì vicino.
Niente paura
Ripenso alle parole del topo saggio. Va bene. Non mi resta che aspettare. Aspetterò. Sto bene qui. Dovevo cadere per salvarmi. Spero allora non mi trovi nessuno. Resterò qui finché avrò successo.
Certe volte, prima che il sole tramonti, qualcuno si avvicina al melo. Anche dei bimbi che giocano nei campi e che si arrampicano sul tronco per nascondersi. Pure l’anziana massaia col fazzolettone in testa e il grembiule legato in vita in giro tra l’orto e il frutteto.
Ora so che non devo aver paura. Resterò qui al riparo tra questa erbetta e questi sassi.
Parte di un tutto
“Ahhhhh” grido spaventata. È quel viscido del lombrico che mi è salito in testa e si trastulla col mio picciolo.
“Stai attenta piccola mela” mi sussurra girandomi intorno. “Fai bene a nasconderti. Ma tu sei molto di più di una semplice mela! Sei la pioggia, le nuvole, tutti gli alberi che hanno portato alla tua nascita e alla nascita dell’albero che ti ha sostenuto. Sei le lacrime, il sudore, i corpi e i respiri delle innumerevoli generazioni di animali, piante e persone che, a loro volta, sono diventati la pioggia, l’humus e il vento che hanno nutrito il melo. Quando ti vedo, piccola mela, vedo l’universo intero”.
Ecco un altro poeta, penso. Le sue parole, inaspettate, mi commuovono e mi rincuorano. Mi fanno sentire importante e bella. Sì è bella la terra. È bello stare lì mentre si avvicina l’imbrunire ed essere sola ma allo stesso tempo parte del tutto.
Silenzio e buio
D’un tratto mi sento sollevata. Sì, letteralmente, sollevata. Qualcuno mi sta portando in alto. Mi sento prendere da mani ruvide e scure. Mani rugose, sporche di terra, odorose di muschio e fumo. “Oddio” mi dico “No vecchio babbeo lasciami stare sulla mia terra”. Vedo il lombrico scaraventato lontano. Piango per lui.
Il contadino con un malconcio cappello di paglia in testa mi guarda. Mi gira. Mi rigira. Mi annusa. Penso che la fine è arrivata. Ora mi mangerà. Ripenso alle parole del topo e del lombrico. Non può finire così. Sento che il lombrico da laggiù mi guarda. Preoccupato e con la testa ammaccata. È in quel momento che il contadino invece di mangiarmi mi getta di nuovo per terra. Questa volta l’urto mi tramortisce. Non sento e non vedo più niente. Solo Buio. Silenzio e buio.
La pera ammuffita
Malconcia ma serena mi risveglio tra un pezzo di terra bagnata e un mucchietto di erbetta. Vedo un paio di ranuncoli ondeggiare davanti a me. Sento il dolore delle ammaccature che mi sono entrate fin dentro. Accanto a me ci sono altre mele, foglie, piccoli rametti, arbusti, bucce di patate e foglie di lattuga. Mi sento spaesata. Ma dove mi trovo? “Sei in una compostiera” mi dice una vecchia pera ammuffita. Compostiera? Ma che sarà?
“È un mondo ricco – continua la pera – dove ciò che era non è più”. Mi sembra un bel posto, forse un po’ umido, ma tutto sommato un bel posto. Sento sotto di me che qualcosa si muove. È il lombrico viscido! “Che bello rivederti” mi fa accennando un piccolo sorriso.
Il lombrico mi si avvicina. Mi avvolge nelle sue calde spire. L’aria è calda e dolciastra qui dentro ma tutto sommato piacevole. Sono stanca. È stata una giornata intensa. Mi addormento lentamente. …Dormo il sonno delle mele,
per imparare un pianto che mi lavi via la terra…
Un sogno?
Devo aver dormito parecchio perché quando mi risveglio mi ritrovo come per miracolo appesa di nuovo al mio albero. Sono scioccata. Com’è possibile? Devo aver sognato. Oppure qualcuno si è preso cura di me e mi ha riportato qui su, tra queste foglie verdi e ovali accanto a tante altre mele rosse e gialle. Il lombrico forse, quel viscido. Mi viene da ridere. Ma come ha fatto? Non ci penso. Guardo il sole e sento il vento che accarezza la mia buccia.
È proprio vero, mi viene da pensare, nulla vive o muore per sempre.
Progeva
Proprio quello che succede sotto ai capannoni della Progeva, uno degli impianti di compostaggio più grandi del Sud Italia.
L’azienda si occupa compostaggio, recupero degli scarti organici attraverso la loro trasformazione in compost. Un sistema efficace per contribuire in modo significativo all’uso sostenibile delle risorse agricole e ambientali.
Utilizzare compost nei terreni ha lo scopo di mantenere la fertilità, permette di ridurre l’impiego di fertilizzanti minerali riducendo al contempo la quantità di scarti organici da avviare a smaltimento in discarica o all’incenerimento.
Progeva, un esempio concreto di economia circolare: un modo per fare qualcosa di buono per il territorio e contemporaneamente fare impresa.