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venerdì, Novembre 29, 2024

Microplastiche e nanoparticelle nel corpo umano: tutto quello che c’è da sapere

Diversi studi hanno confermato la presenza di microplastiche nel sangue umano, nei polmoni e nella placenta. I tipi di plastica presenti sono diversi e i più vulnerabili sono soprattutto i bambini. Scopriamo da dove arrivano le plastiche nel nostro corpo e quali potrebbero essere i danni

Caterina D'Ambrosio
Caterina D'Ambrosio
Caterina D’Ambrosio è giornalista professionista, ha scritto di cultura, politica ed economia per carta stampata, TV e radio, magazine e web. È stata autrice di programmi per RAI e Mediaset, e ha collaborato con numerose testate tra cui l’Unità, AffariItaliani, l’Unione Sarda e VanityFair.it. Attualmente si occupa di comunicazione politica e scrive di economia per Fortune Italia.

Ormai sono ovunque. Nei ghiacci, nell’aria, nel cibo. E, più recentemente, ha scosso l’opinione pubblica la conferma – giunta da studi diversi – della presenza di microplastiche anche nel sangue umano, nei polmoni e perfino nella placenta. I tipi di plastica presenti sono diversi e i più vulnerabili sono soprattutto i più piccoli. La loro presenza nel sangue ha trovato per la prima volta conferma con la recente ricerca sui campioni di 22 adulti condotta dalla Vrije Universiteit di Amsterdam e pubblicata su Environment international: 17 dei 22 volontari avevano diversi tipi di particelle plastiche nel loro sangue.

Plastiche nel sangue: quali sono e da dove arrivano

L’insidia si nasconde nei gesti tra i più naturali, come quello di bere acqua da una bottiglia attraverso cui, sempre secondo il professore ed ecotossicologo Dick Vethaak, coautore dello studio, si possono ingerire milioni di microparticelle al giorno, la cui presenza nel sangue è 10 volte più alta nei bambini rispetto agli adulti, come evidenziato già in una precedente ricerca. Per Vethaak, la ricerca australiana che nel 2019 ipotizzava che un essere umano arriva a ingerire in una settimana l’equivalente in plastiche di una carta di credito è più che plausibile: “Le respiriamo, le mangiamo, le beviamo, si attaccano alla nostra pelle; si trovano anche in dentifricio, lucidalabbra, inchiostro per tatuaggi…”.

Il ricercatore olandese, massimo esperto al mondo in materia, ha ricordato che a seguito dell’emergenza coronavirus abbiamo un fattore di esposizione in più: le mascherine chirurgiche, che, una volta indossate, rilasciano particelle mentre si respira. “Ci proteggono dall’inalazione di inquinanti e virus dall’ambiente, ma quante microplastiche stiamo respirando?” si chiede Vethaak.  E poi continua il suo elenco citando bicchieri, bottiglie, tutti i contenitori in plastica, e addirittura le bustine del tè, che “rilasciano circa 11,6 miliardi di microplastiche (particelle di dimensioni comprese tra 0,1 e 5000 micrometri, o 5 millimetri, ndr) e 3,1 miliardi di particelle di nanoplastiche (che misurano da 0,001 a 0,1 micrometri, ndr)  nella tazza, che finiscono poi nel sistema digestivo”.

Le particelle che scorrono nel sangue dell’80% del campione esaminato dagli autori dello studio olandese sono composte per lo più da Pet (i polimeri usati per le bottiglie di plastica di acqua e bibite), polistirene utilizzato per il packaging degli alimenti, e polietilene. In realtà, le microparticelle sono una categoria molto vasta ed eterogenea sia per composizione sia per grado di tossicità per l’uomo e l’ambiente. Per questo la letteratura, pur con diversi distinguo, si è dedicata in particolare allo studio del polipropilene e polietilene. “Poco dopo aver pubblicato la nostra scoperta – ha dichiarato in un’intervista Juan J. García Vallejo, immunologo e coautore dello studio con il professor Vethaakricercatori dell’Università di Hull, nel Regno Unito, hanno rilevato particelle di plastica nei polmoni delle persone viventi. Non sappiamo se vi siano arrivate per via respiratoria o per via ematica, ma è sicuramente un altro segno che sono urgenti ulteriori ricerche”.

Leggi anche: Peggio che nei mari. La minaccia sottovalutata delle microplastiche nei suoli

Le (auspicabili) nuove frontiere della ricerca

Oltre alle ricerche sulla “via d’accesso” nel corpo umano, manca ancora la prova della contaminazione dell’intera catena alimentare, nel senso che ogni anello è contaminato da microplastiche ma non esistono ancora studi che, per fare un esempio, ne dimostrino il passaggio dall’erba al corpo delle mucche e poi al latte e così via. Così come manca uno studio sulla capacità di queste micro e nanoparticelle di produrre un rischio biologico per l’organismo umano, in quanto vettori di microrganismi e altre sostanze tossiche presenti nell’ambiente esterno in cui si degradano.

C’è da dire, però, che su quest’ultimo aspetto un recente studio dell’Università della California ha messo un punto fermo: alcuni parassiti patogeni presenti sulla terraferma, nelle feci umane e animali, possono fare “l’autostop” sulle micro e nanoplastiche e potenzialmente diffondersi attraverso il mare, facendo sì che questi germi siano poi presenti in maggiori concentrazioni lungo le coste, giungendo fino ai fondali più profondi. In pratica, questi germi di attaccano a una sorta di pellicola che si forma intorno alle microplastiche e lì “prosperano” per giorni, anche nelle acque marine. Nei fondali, questo strato appiccicoso di batteri e sostanze gelatinose crea un’altra conseguenza preoccupante: gli animali filtratori come vongole, cozze, ostriche e crostacei sono portati a ingerire le microplastiche proprio perché attratti dal biofilm che le ricopre, con conseguenze tutte da misurare.

Gli agenti patogeni trasportati dalle microplastiche non si possono replicare in mare, ma la loro permanenza sulle microparticelle alla lunga potrebbe dar vita ad alterazioni. I ricercatori statunitensi hanno anche rilevato che le microfibre, presenti soprattutto in abiti e reti da pesca, ospitavano un numero maggiore di parassiti rispetto alle microsfere contenute nei cosmetici. Una scoperta non da poco, dal momento che le microfibre rappresentano la tipologia di rifiuto plastico più diffuso.

Microplastiche nel sangue corpo umano
I biofilm che si formano sulle microplastiche possono aiutare gli agenti patogeni a diffondersi attraverso il mare

Quali sono i danni per il corpo umano

Ad oggi, i danni delle microplastiche sull’uomo e la relativa tossicità non sono ancora del tutto chiari, anche se gli scienziati della Vrije Universiteit hanno cominciato a mettere alcuni punti fermi. Posto che le particelle circolano nel sangue trasformandosi e attaccandosi alle membrane dei globuli rossi, la loro presenza non solo può ridurre drasticamente la quantità di ossigeno trasportata, ma potrebbe causare danni anche rilevanti al sistema nervoso centrale e, nei casi più gravi, influenzare la struttura delle cellule.

È accertato ormai che causano allergie, infiammazioni e accumulo di metalli pesanti, come conferma l’Istituto superiore di sanità.

“Il destino ultimo delle particelle di plastica – recita lo studio olandese, uno dei 15 sul tema commissionati dalle autorità scientifiche del Paese – dipende dal fatto che possano essere eliminate, ad esempio, mediante filtrazione renale o escrezione biliare, o depositate nel fegato, nella milza o in altri organi tramite capillari”. Come accennato, le micro e nanoplastiche sono state individuate anche nella placenta delle donne in gravidanza e passano nei feti rapidamente attraverso i polmoni, nel cuore, il cervello e altri organi.

“Lo studio italiano che ha evidenziato la presenza delle microplastiche nella placenta fece molto rumore – dice a EconomiaCircolare.com il professor Sergio Bernasconi, pediatra ed ex direttore della Clinica Universitaria Pediatria di Parma –. Quello che sappiamo oggi è che le microplastiche entrano nell’organismo umano attraverso le vie aeree e da lì al circolo fetale. Ora stiamo cercando di capire quale tipo di danni possono causare”.

Tuttavia, al momento la letteratura scientifica non dispone di sufficienti dati sugli effetti a livello pediatrico. “Come definito dalla letteratura internazionale, siamo all’infanzia degli studi: – prosegue Bernasconi – non esistono ancora studi centrati sui bambini, sono piuttosto focalizzati sui meccanismi attraverso cui le microplastiche possono causare dei danni. In particolare – riprende –, sulle infiammazioni che sono alla base di malattie sistemiche. Inoltre, possono rilasciare sostanze chimiche e produrre interferenze endocrine”.

Quanto ai danni maggiori derivanti dalla combinazione dai meccanismi, meccanico e chimico, si stanno studiando gli effetti su particolari tipologie tumorali polmonari, o neoplasie a livello gastrointestinali, soprattutto in età adulta. “Quello che preoccupa di più – conclude il professor Bernasconi – sono i danni sul neurosviluppo: anche perché nell’età infantile si è registrato un aumento di malattie neurologiche, dall’autismo alle forme di iperattività o di learnign disorders (disturbi dell’apprendimento, ndr), e questa deve trovare una spiegazione anche ambientale, poiché non è sufficiente una correlazione genetica. La genetica ci può dire che c’è una predisposizione, non di più”.

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Il nesso con le malattie? Ancora da dimostrare

Si è parlato anche di una relazione tra microplastiche e leucemie, della quale abbiamo discusso con Giuseppe Visani, che guida il reparto di Ematologia degli Ospedali Riuniti Marche Nord. “La nostra esperienza con le micro e nanoparticelle ambientali – ci spiega il professor Visani –, la loro interazione con materiali biologici, è descritta in un lavoro di tre anni fa pubblicato su una Rivista Internazionale, Leukemia Research. Abbiamo confrontato campioni ematici di pazienti con diagnosi di leucemia acuta mieloide con un gruppo di controllo”.

“Abbiamo rilevato – prosegue Visani – una presenza significativamente maggiore di nanoparticelle nel sangue di pazienti con leucemia acuta mieloide. Questo dato da solo non dice però che valore abbia questa presenza nello sviluppo della malattia e perché abbiamo trovato questo aspetto”.  Si fa allarmismo allora? Il professor Visani mette i puntini sulle i: “Le nanoplastiche hanno tutte le caratteristiche per potere superare i filtri dell’organismo e trovarsi nel sangue, quindi è assolutamente plausibile quanto è stato descritto nel recente lavoro della rivista in lingua inglese. Di qui a dire che le nanoplastiche hanno una azione nello sviluppo delle malattie umane ce ne corre, perché anche questo va dimostrato”.

La speranza è che quando eventualmente la dimostrazione scientifica arriverà, si sia ancora in tempo a fare marcia indietro.

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Le microparticelle e l’ambiente

Anche i danni che le micro e nanoplastiche possono causare all’ambiente sono imprevedibili data anche la loro estreme varietà e complessità di composizione. Contengono metalli pesanti di ogni genere (nichel, piombo, mercurio, cadmio, solo per citarne alcuni) che degradano e vengono rilasciati nell’ambiente colpendo e distruggendo ecosistemi complessi e fragili. E non bastano gli agenti atmosferici come il vento o il sole, o la permanenza in acqua per essere distrutti.

In un recente sondaggio Ipsos condotto a livello globale sulla messa al bando della plastica monouso, Attitudes Towards Single-use Plastic, l’85% degli intervistati di 28 Paesi ritengono che si debba voltare decisamente pagina dal punto di vista produttivo e spingere i produttori di imballaggi a riciclare, riutilizzare ma soprattutto ridurre la produzione, mentre il 75% creda sia giunta l’ora di dire addio definitivamente alla plastica.

Occorre, quindi, immaginare nuovi modelli produttivi che tengano conto dell’impatto della plastica e del suo decadimento nell’ambiente e sulla salute dell’uomo e degli animali. Risale ai primi di marzo la firma del trattato di Nairobi siglato da 175 Paesi, per ridisegnare e ripensare l’intero ciclo di vita della plastica. Un intervento, quindi, è urgente e necessario se non vogliamo che, nel 2040, gli oceani ricevano dalle cattive pratiche dell’industria (e dalle cattive abitudini dell’uomo) oltre 1,3 miliardi di tonnellate di plastica.

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