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lunedì, Dicembre 16, 2024

Cop28, sul fondo “Loss and Damage” si parte male: la bozza non piace a nessuno

La bozza per la creazione del fondo “Loss and Damage”, per risarcire i Paesi più colpiti dai danni del cambiamento climatico, appare già un fallimento annunciato. Nessun obbligo, nessuna cifra precisa: e a gestirlo sarà la Banca mondiale. Che in passato è stata uno spauracchio per i Paesi in via di sviluppo

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Promesse, vuoti annunci e scelte sbagliate: la storia del fondo “Loss and Damage” rischia già di essere quella più significativa della Cop28? Andiamo con ordine e partiamo dall’inizio. La tempesta tropicale Daniel che a settembre ha colpito la Libia con massicce inondazioni, interi centri urbani spazzati via e conseguenze devastanti sulla popolazione o il ciclone Freddy abbattutosi sull’Africa sudorientale causando 130mila sfollati e centinaia di vittime sono due tra gli esempi più recenti dei terribili effetti degli eventi climatici avversi sui Paesi africani. Ancora una volta, questi disastri naturali dimostrano come le nazioni più povere al mondo soffrano maggiormente i danni di condizioni meteorologiche estreme peggiorate o rese più frequenti dai cambiamenti climatici, causati in gran parte dalle emissioni di gas serra che derivano dalla combustione di fonti fossili.

Una tragedia con l’amaro retrogusto di beffa: storicamente queste nazioni hanno contribuito smisuratamente meno nell’emissione di gas serra rispetto ai ricchi vicini. Eppure oggi sono le più colpite dagli impatti del riscaldamento globale. Da decenni hanno cercato di portare all’attenzione globale sulla contraddizione e finalmente la questione ha trovato visibilità nelle conferenze delle Nazioni Unite sul clima, con la promessa di istituire un fondo Loss and Damage, con cui le nazioni ricche si impegnano a risarcirle per i danni e le perdite irreversibili provocati dagli effetti dei cambiamenti climatici da loro causati.

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Finalmente c’è la bozza dell’accordo, ma è l’unica buona notizia

Se n’è parlato per la prima volta trent’anni fa all’Earth Summit di Rio de Janeiro, poi con la Cop21 di Parigi è stato immaginato un fondo da 100 miliardi di dollari per la riparazione da affiancare alle politiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Annunciato in pompa magna a Glasgow nella Cop26 senza che ci fosse ancora nulla di concreto, il fondo “Loss and Damage” è stato formalizzato soltanto alla Cop27 egiziana di un anno fa.

Ma, ancora una volta, molti dettagli sono rimasti irrisolti nelle decine di riunioni controverse e contestate in cui si negoziavano gli aspetti fondamentali: chi avrebbe contribuito al fondo, quanto sarebbe stato grande, chi lo avrebbe amministrato e altro ancora. Adesso, a pochi giorni dall’inizio della Cop28 a Dubai negli Emirati Arabi Uniti, è stata finalmente raggiunta una bozza di accordo, che sarà sottoposta all’approvazione finale durante i colloqui sul clima. E qui si esaurisce l’unico aspetto positivo della vicenda.

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La bozza: promesse, vuoti annunci e scelte sbagliate

Secondo la bozza d’accordo, il lancio del fondo è previsto nel 2024 e per i prossimi quattro anni sarà amministrato dalla Banca mondiale, mentre i Paesi in via di sviluppo potranno al massimo avere un posto nel consiglio di amministrazione. Si chiede alle nazioni ricche di contribuire al fondo, lasciando aperta la possibilità anche ai privati. L’accordo stabilisce che le risorse andranno con priorità alle nazioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici, ma qualsiasi comunità o Paese colpito è ammissibile a riceverli. I Paesi in via di sviluppo, tuttavia, sono rimasti delusi dal fatto che nella bozza non si specifichi neppure l’entità del fondo, né chi dovrà contribuire.

“Sembra l’ennesima promessa per mettere al tavolo negoziale i Paesi del Sud del mondo”, conferma Andrea Baranes, presidente di Fondazione Finanza Etica. “Su molti aspetti siamo ancora a livello di annunci e di promesse, senza un impegno chiaro, una cifra precisa sul contributo degli Stati più ricchi, su quali nazioni riceveranno i fondi, mentre quello che è stato deciso non è per nulla incoraggiante, visto che si parla di una gestione temporanea della Banca mondiale, una pessima idea per i Paesi in via di sviluppo”.

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Il primo problema: ci sono davvero i fondi?

Un recente rapporto delle Nazioni Unite stima che per l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo ai cambiamenti climatici saranno necessari fino a 387 miliardi di dollari all’anno. Molti sono scettici si potrà mai raccogliere una cifra simile. “Basta vedere quello che è successo con il Fondo verde per il clima, proposto per la prima volta durante i colloqui sul clima del 2009 a Copenaghen e che ha iniziato a raccogliere fondi solo nel 2014, senza raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari all’anno oppure con l’impegno di destinare lo 0,7% del Pil a finanziamenti per lo sviluppo nei Paesi del Sud del mondo: l’Italia, nonostante le dichiarazioni di intenti nei summit internazionali, non arriva allo 0,2%”, fa notare Baranes.

Lo stesso destino a cui sembra andare incontro il fondo Loss and Damage. Sebbene l’Unione europea ha annunciato un contributo “sostanziale” al fondo e l’inviato statunitense per il clima John Kerry ha parlato di “diversi milioni di dollari nel fondo alla Cop”, né l’Ue né gli Usa si sono ben visti da fornire indicazioni precise sull’entità esatta nella bozza. Anzi, il Dipartimento di Stato americano ha addirittura espresso disappunto perché la bozza non definisce esplicitamente le donazioni come volontarie. Insomma, i campanelli di allarme ci sono e il rischio di retromarce è dietro l’angolo.

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Chi deve mettere i soldi e a chi andranno?

Manca persino l’accordo su chi debba contribuire al fondo.“Sono anni che il dibattito si arena su questo punto”, riconosce Baranes. “Da un lato le nazioni del Sud del mondo sostengono che l’occidente, dai tempi della prima rivoluzione industriale a metà del Settecento, inquina con i combustibili fossili ed è responsabile storicamente del 90% delle emissioni del pianeta. Dall’altra le nazioni ricche evidenziano come tra le economie che emettono più CO2 al mondo ci siano Cina e India”.

Sebbene non si possano paragonare le emissioni dell’occidente di inizio Ottocento con le attuali emissioni di Cina o altre potenze emergenti, la tesi dei Brics è che l’occidente chiede di uscire dalle fonti fossili dopo averle sfruttate, negando agli altri lo stesso meccanismo di sviluppo. Le nazioni ricche invece, cercano di limitare il numero dei Paesi ammissibili ai pagamenti del fondo ad alcuni dei più vulnerabili, come l’Afghanistan e il Bangladesh in Asia, diverse nazioni africane e stati insulari come Kiribati, Samoa e Barbados, chiedendo a Cina, India e Arabia Saudita di contribuire.

Questo dibattito, in ultima analisi, ha tuttavia l’unico effetto di spostare il focus dal punto fondamentale. “Il fondo Loss and Damage dovrebbe concentrarsi sui Paesi più poveri e vulnerabili e quindi principalmente le nazioni dell’Africa subsahariana o gli arcipelaghi del Pacifico, maggiormente impattati e con difficoltà tecnologiche ed economiche per far fronte ai cambiamenti climatici”, precisa Baranes.

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La Banca mondiale: uno spauracchio per i Paesi in via di sviluppo

In tutta questa incertezza, l’unica decisione certa preoccupa i Paesi in via di sviluppo, che accettano di mal grado la Banca mondiale come amministratore del fondo e avrebbero voluto fosse un’istituzione nuova e indipendente sotto le Nazioni Unite a gestirlo. “Giustamente”, commenta Baranes. “La Banca mondiale fa parte di un sistema finanziario globale che li ha spesso colpiti con prestiti onerosi e condizionati, mentre per la lotta al cambiamento climatico servono finanziamenti a fondo perduto”.

I prestiti, in passato, sono stati erogati con condizioni durissime per assicurarsi la restituzione: privatizzazioni, tagli al welfare pubblico e hanno stravolto l’assetto sociale di chi li riceveva. “Essendo prestiti in dollari – fa notare il presidente di Fondazione Finanza Etica – Fmi e Banca mondiale hanno costretto i Paesi riceventi a dedicarsi esclusivamente all’esportazione dei loro prodotti per poter pagare in dollari, distruggendo le economie locali, trasformando il sistema agricolo di sussistenza per la popolazione in un sistema di esportazioni”.

Il sospetto, è che tutto questo non sia una scelta disinteressata, sostiene Baranes. “Gli Stati Uniti hanno un forte controllo sulla Banca mondiale, in genere nominano il suo presidente e la sede è a Washington. Se il fondo sarà più controllabile, potranno dettare più facilmente le condizioni, ad esempio affidando la realizzazione delle infrastrutture ad aziende provenienti dai Paesi ‘donatori’ che così si riprenderanno almeno l’80% dei fondi. La Banca mondiale – conclude il presidente di Fondazione Finanza Etica – è sicuramente più organizzata a livello finanziario e burocratico, ma così il fondo perderà la sua indipendenza e sarà più difficile l’accesso diretto ai finanziamenti da parte delle comunità locali”.

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Quali sono le reali prospettive della Cop28

In conclusione, tutti i nodi fondamentali della questione sono ancora sul tavolo. “Le aspettative su questa Cop sono molto basse, a partire dal fatto che il presidente è amministratore delegato di una delle più grandi società petrolifere al mondo”, prevede Baranes. L’unica speranza è la forte pressione dell’opinione pubblica sui negoziatori per ottenere risultati dopo anni di nulla di fatto al termine delle Cop. Sicuramente la presidenza degli Emirati Arabi Uniti ha un notevole interesse a ottenere un successo di immagine in questa Cop. Ma anche a difendere un mondo a combustibili fossili e petrolio.

Intanto, le comunità povere dei Paesi in via di sviluppo stanno perdendo le loro fattorie, le loro case e i loro redditi per colpa di una crisi provocata dai Paesi sviluppati e dalle multinazionali, mentre la finestra temporale si sta chiudendo, come dimostrano le ultime previsioni Onu. Dopo 30 anni di risultati pressoché inesistenti, adesso, come ha dichiarato l’ambasciatore delle Nazioni Unite di Samoa, le nazioni più industrializzate del mondo hanno la “responsabilità morale” di agire il più rapidamente possibile in merito al fondo Loss and Damage. Tra pochi giorni sapremo se il suo sarà stato l’ulteriore appello caduto nel vuoto.

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