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lunedì, Dicembre 9, 2024

Dalla Cop28 restano indietro giustizia climatica e diritti umani. ONU: “L’era dei fossili deve finire con equità”

L’abbandono dei combustibili fossili è un imperativo che riguarda anche i diritti umani, fortemente indeboliti dalla crisi climatica. Su questo fronte, come prevedibile, il bilancio della Cop28 mostra gravi lacune. Ma era difficile aspettarsi qualcosa di diverso da uno Stato come gli Emirati Arabi Uniti

Maria Marano
Maria Marano
Ha conseguito la laurea in Relazioni e Politiche Internazionali e un master in Diritto dell’Ambiente. Collabora da anni con A Sud e il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali nel campo della ricerca sui temi delle migrazioni climatico-ambientali. Nel 2016, nel 2018 e nel 2023 ha curato le prime tre edizioni del report Crisi Ambientali e Migrazioni Forzate. Collabora su questi temi anche con il Centro Studi e Ricerche IDOS. Ha maturato esperienza lavorativa nel settore della cooperazione internazionale allo sviluppo, in Italia e all’estero, in ambito non governativo e accademico. Dal 2012 lavora nel settore della programmazione, gestione, attuazione dei fondi europei a gestione indiretta, con particolare riferimento alle tematiche ambientali e della capacity building

A distanza di qualche giorno dalla fine della Cop28 di Dubai la sensazione più diffusa resta quella del rammarico. Accanto alla consapevolezza dell’importanza di aver sancito, per la prima volta nella storia, la responsabilità dei combustibili fossili sull’attuale collasso climatico, come lo definisce il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, si fanno strada le altre prospettive che subito dopo la decisione finale di martedì 13 dicembre, almeno in Occidente, avevano faticato a emergere.

Quello raggiunto a Dubai è un risultato debole per i Paesi più poveri così come per la società civile. Quest’ultima sin da subito ha preso posizione sulla Cop28 e una grande rappresentanza ha boicottato la Conferenza e partecipato all’Earth Social Conference, il controvertice che si è svolto in Colombia dal 5 al 10 dicembre dove, tra le altre cose, è stata discussa la “patrimoniale climatica”, ispirata al principio ‘più inquini, più paghi’, e le cui risorse andrebbero destinate a misure urgenti contro la crisi climatica e a interventi contro le disuguaglianze socio-economiche.

Proprio a pochi giorni dall’inizio della Cop di Dubai, l’organizzazione internazionale Oxfam, in collaborazione con lo Stockholm Environment Institute, aveva diffuso una fotografia allarmante secondo cui l’1% più ricco del mondo inquina quanto i 2/3 dell’intera popolazione mondiale e in un solo anno, una persona appartenente all’1% più ricco inquina quanto una persona del restante 99% in 1.500 anni.

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La transizione dai combustibili fossili è anche una questione di diritti umani

Alla fine alla Cop28 non ha vinto il “phase-out” (l’eliminazione), fortemente voluto dalle Nazioni Unite, dagli scienziati, dagli attivisti e circa 150 Paesi, sotto la guida dell’Unione europea e dei piccoli Stati insulari del Pacifico, ma ha trovato approvazione il “transition away”, ossia la transizione dalle fonti fossili entro il 2050. “Che sia riconosciuta la necessità della transizione dai combustibili fossili è merito delle campagne condotte per decenni dalla società civile; ma l’accordo finale contiene scappatoie tali da consentire ai produttori di combustili fossili e agli Stati di andare avanti come prima. Dunque, tale accordo viene meno al dovere di proteggere i diritti di miliardi di persone che stanno subendo i danni del cambiamento climatico”, ha dichiarato Marta Schaaf, direttrice del programma Giustizia climatica, economica e sociale e Responsabilità delle imprese di Amnesty International.

Dopo tre decenni di negoziati sul clima proprio a Dubai sembra essere iniziata (almeno sulla carta) la fine dell’era dei principali responsabili della crisi climatica. Con un rapido colpo di martelletto il presidente della Cop28 Sultan Al-Jaber ha approvato l’accordo finale (il Global Stocktake). Una velocità tale (che vien da pensare volutamente) non ha lasciato spazio al confronto o a eventuali opposizioni come invece è previsto dalla procedura e come ha tenuto a sottolineare la rappresentante delle isole Somoa. Anne Rasmussen, anche rappresentante dell’alleanza dei piccoli Stati insulari, ha tenuto a sottolineare “siamo giunti alla conclusione che la correzione di rotta di cui avevamo bisogno non è stata garantita”.

La crisi climatica, come evidenziano già numerosi rapporti delle Nazioni Unite, non riguarda solo l’ambiente ma è una crisi umanitaria che sta minando, principalmente nel Sud globale, i diritti inviolabili delle persone e di intere comunità (dal diritto al cibo, all’acqua, alla salute, a vivere in un ambiente sano). I diritti umani non sono importanti solo in una dimensione più strettamente di dignità e sopravvivenza dell’uomo ma anche perché fissano i criteri per ridefinire un modello di società più equo, inclusivo e sostenibile soprattutto per le generazioni future. Principi questi che lo stesso Accordo di Parigi ha fatto suoi.

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Tutti i dubbi emersi alla Cop28

Quando si parla di diritti e clima inevitabilmente emerge il paradosso che chi meno ha contribuito all’aumento delle temperature del Pianeta ne sta pagando già il prezzo più alto, con il rischio di scomparire dalla carta geografica come sta succedendo alle piccole isole del Pacifico, che portano a rendiconto appena lo 0,03% delle emissioni di gas climalteranti e che rischiano di finire sott’acqua a causa dell’innalzamento del livello del mare, o come il continente africano (al quale va imputato appena il 4% dei gas serra) perseguitato da una desertificazione galoppante. Una forte ingiustizia che a Dubai ha faticato a trovare il giusto spazio di discussione in sede di negoziati. Difatti, piuttosto che accogliere le preoccupazioni (più che fondate) dei Paesi maggiormente vulnerabili dal punto di vista climatico, l’accordo finale, seppur accettato, resta per i Paesi più fragili troppo vago e continua a pendere a favore dei principali responsabili delle emissioni. Tagliente su questo fronte è stata la posizione della Bolivia, riportata su The Guardian.

“Negli ultimi otto anni i Paesi sviluppati hanno lavorato intensamente per erodere e cancellare questi principi” (riferendosi alla giustizia climatica). “I Paesi sviluppati non hanno deciso di assumere la guida della crisi climatica o di cambiare i loro stili di vita. Inoltre, i Paesi che hanno in programma di espandere i combustibili fossili fino al 2050 stanno andando contro la scienza”. Diego Pacheco, rappresentante della Bolivia e portavoce del blocco dei Paesi in via di sviluppo, pur dichiarando il consenso sull’accordo, ha aggiunto: “vorremmo inserire una riserva sulle responsabilità comuni ma differenziate.” E ha chiosato con parole forti “Signori, siamo ancora una volta vittime del neocolonialismo. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma”.

Parole dure non sono tardate ad arrivare anche da Eduardo Giesen, coordinatore per l’America Latina e i Caraibi della campagna per la giustizia climatica. “Ancora una volta, alla Cop28, i paesi ricchi, in complicità con le élite economiche mondiali, sacrificano l’opportunità di una reale decarbonizzazione e di una transizione basata sulla giustizia, sull’equità e sulla sostenibilità. Attraverso un testo terribile – con concetti fuorvianti come fossili senza sosta – le nazioni ricche promuovono la continuità dell’estrattivismo dei combustibili fossili e di false soluzioni. La cattura e lo stoccaggio del carbonio, la produzione di idrogeno, l’energia nucleare e altri fattori, aumentano la vulnerabilità climatica e portano alla violazione dei diritti delle comunità e della natura nella regione dell’America Latina e dei Caraibi, nonché nell’intero Sud del mondo”.

A preoccupare molti Stati è infatti il riferimento nell’accordo finale all’uso di tecnologie non ancora sperimentate per la cattura e lo stoccaggio del carbone, così come il passaggio alle rinnovabili che potrebbero causare non pochi problemi socio-economici.

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Un grande rischio resta l’impatto del debito sui diritti umani

Gli impegni economici restano pochi e alquanto fumosi di  fronte a cifre quantificate in trilioni di dollari per affrontare l’emergenza climatica nei Paesi più poveri. Il rischio di essere schiacciati dai debiti resta alto e su questo punto a Dubai non sono state definite linee di azione chiare, bensì la questione è stata rimandata alla prossima Cop in programma in Azerbajan. Il rischio è forte, come affermato proprio nei giorni della Cop28 da Oxfam con “Forgotten Frontlines”.

Il rapporto stima che più di 2 miliardi di persone vivono nella morsa del debito e che gli aiuti erogati dai Paesi ricchi a quelli più fragili o colpiti da conflitti tra il 2019 e il 2020 sono stati di appena 13,64 dollari all’anno per abitante. Cifra che si riduce a 6,68 dollari a persona nei Paesi dove i conflitti sono ancora in corso. Oxfam denuncia infatti forti disparità sul livello di finanziamenti per il clima verso gli Stati considerati fragili o teatro di conflitti armati. “Si va, ad esempio, dai 1.083 dollari all’anno per abitante delle isole Tuvalu, a 0,67 dollari per persona in Siria. Aiuti comunque che sono del tutto insufficienti anche se considerati complessivamente”.

Tutto questo ha inevitabilmente una ricaduta anche sui diritti in quanto i tagli finanziari all’istruzione, ai servizi pubblici alla sanità, al sociale vengono dirottati per pagare i debiti. A preoccupare è inoltre la gestione del fondo Loss&Damage per le perdite e i danni derivati dai cambiamenti climatici sotto il controllo (momentaneamente) della Banca Mondiale. Storicamente criticata dai Paesi in via di sviluppo per avere in un certo senso contribuito a stringere i Paesi nella morsa del debito e non essere stata inclusiva nei suoi progetti. Quest’ultimo aspetto è invece fondamentale in quanto il coinvolgimento delle comunità locali e delle categorie più fragili è dirimente per una giusta ed equa transizione. Tra le categorie più vulnerabili oggi più che mai rientrano gli sfollati.

“L’emergenza climatica sta colpendo le persone costrette alla fuga tre volte: le strappa dalle loro case, aggrava la loro crisi in esilio e distrugge la loro terra d’origine, impedendone il ritorno”, ha dichiarato l’Alto Commissario ONU per i Rifugiati, Filippo Grandi. Con una tendenza preoccupante, difatti circa il 60% delle persone sfollate su scala globale vive nei Paesi più vulnerabili all’impatto del cambiamento climatico, come Siria, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Afghanistan e Myanmar. La strada verso una giusta transizione deve sicuramente affrettare il passo. In questa direzione riconoscere il legame tra diritti umani e giustizia climatica consente alle persone e alle comunità più vulnerabili di poter far ricorso a strumenti giuridici per mettere gli Stati e le aziende più inquinanti dinanzi alle loro responsabilità.

Al riguardo, come mostra il rapporto dell’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, Climate Litigation Report: 2020 Status Review nell’ambito del diritto internazionale si stanno facendo strada le azioni legali, le cosiddette climate litigation e contenziosi sui cambiamenti climatici (quasi raddoppiati tra il 2018 e il 2021), che spingono legalmente governi e aziende a migliorare il loro approccio alle questioni climatiche. Anche l’Italia è in attesa di un verdetto. Rappresentanti della società civile (cittadini e cittadine, minori e associazioni), con la Campagna Giudizio Universale, hanno difatti citato in giudizio lo Stato italiano perché non sta facendo abbastanza per contrastare la crisi climatica.

“L’era dei combustibili fossili deve finire con giustizia ed equità. A coloro che si sono opposti a un chiaro riferimento all’eliminazione graduale dei combustibili fossili nel testo della COP28, voglio dire che l’eliminazione graduale dei combustibili fossili è inevitabile, che piaccia o no. Speriamo non arrivi troppo tardi” (Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU).

Leggi anche: lo Speciale sulla Cop28

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