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sabato, Dicembre 14, 2024

Emissioni record e scarsa ambizione sulle fossili: l’Unep striglia i governi in vista della Cop28

Le previsioni dell’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, sono spietate. Per il Production Gap Report le emissioni globali di anidride carbonica sono salite a livelli record nel periodo 2021-2022, mentre il 2023 che ci accingiamo a chiudere rischia di diventare l’anno più caldo della storia

Carlotta Indiano
Carlotta Indiano
Classe ‘93. Giornalista freelance. Laureata in Cooperazione e Sviluppo e diplomata alla Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso a Roma. Si occupa di ambiente ed energia. Il suo lavoro è basato su un approccio intersezionale, femminista e decoloniale. Scrive per IrpiMedia e collabora con altre testate.

Dagli accordi di Parigi in poi, il mondo riconosce la necessità di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. Eppure i governi che si sono impegnati alla Cop di Glasgow a ridurre le proprie emissioni e che e si dicono pronti ad affrontare una transizione giusta e sostenibile, non hanno piani di decarbonizzazione sufficienti a rispettare la limitazione del riscaldamento a 1,5° C, prevista dall’accordo di Parigi. Quando si parla di strategie e politiche nazionali i governi prevedono all’interno dei loro piani energetici la produzione di più del doppio del livello di combustibili fossili entro il 2030 rispetto a quanto sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento a 1,5° e il 69% in più rispetto a quanto sarebbe compatibile con uno scenario entro i 2°C. Questo disallineamento è chiamato divario di produzione” (the production gap in inglese).

Il rapporto sul divario di produzione 2023 “Riduzione o aumento graduale? I principali produttori di combustibili fossili pianificano un’estrazione ancora maggiore nonostante le promesse sul clima” è stato redatto da Stockholm Environment Institute (SEI), Climate Analytics, E3G, International Institute for Sustainable Development (IISD) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP). Alla sua quarta edizione, il Production Gap Report pubblicato per la prima volta nel 2019 dall’Unep, rappresenta dunque una collaborazione tra diverse istituzioni accademiche e di ricerca, con contributi e revisioni da parte di oltre 80 esperti provenienti da 30 Paesi del Nord e del Sud del mondo e valuta la produzione di carbone, petrolio e gas pianificata e prevista dai governi rispetto ai livelli globali coerenti con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi.

L’analisi si basa sui piani e sulle proiezioni pubblicate su siti nazionali e rese accessibili dai governi tra cui i dettagli sugli investimenti e le politiche pubbliche in materia di combustibili fossili. L’Unep non ha dubbi: il persistere di un divario di produzione mette a rischio una transizione energetica giusta e sostenibile per tutti e si scontra con la prospettiva che la domanda globale di carbone, petrolio e gas raggiungerà il picco in questa decade anche senza nuove politiche. Nel frattempo la necessità di limitare il riscaldamento globale e ridurre la dipendenza dai combustibili fossili cresce ogni giorno in maniera evidente.

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Emissioni record poco prima della Cop28

Secondo gli scienziati, il luglio 2023 è stato il mese più caldo mai registrato e molto probabilmente il più caldo degli ultimi 120.000 anni. In tutto il mondo, ondate di calore mortali, siccità, incendi, tempeste e inondazioni stanno costando vite e mezzi di sussistenza, rendendo evidente che il cambiamento climatico indotto dall’uomo è qui. Le emissioni globali di anidride carbonica – di cui quasi il 90% proviene da combustibili fossili – sono salite a livelli record nel periodo 2021-2022.

Il report individua i profili dei 20 Paesi tra i maggiori produttori di combustibili fossili: Australia, Brasile, Canada, Cina, Colombia, Germania, India, Indonesia, Kazakhistan, Kuwait, Messico, Nigeria, Norway, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa, Emirati Arabi Uniti (che quest’anno ospitano la Cop28), USA e Gran Bretagna.

Proprio alla Cop28 si ritratteranno i termini degli accordi precedenti. Per Michael Lazarus, principale autore del report, la Conferenza delle parti potrebbe essere il momento cruciale in cui i governi si impegnano finalmente a eliminare tutti i combustibili fossili e a riconoscere il ruolo che i produttori devono svolgere nel facilitare una transizione giusta ed equa.

Una transizione equa dovrebbe infatti riconoscere che la situazione dei vari Stati differisce notevolmente a seconda della loro capacità finanziaria e istituzionale, nonché dal livello di dipendenza socio-economica dalla produzione di combustibili fossili. Sulla base di questi principi, ci si potrebbe aspettare che i Paesi a più alto reddito e quelli meno dipendenti dalla produzione di combustibili fossili guidino la transizione, mentre i Paesi a bassa capacità avranno bisogno di assistenza e finanziamenti per perseguire percorsi di sviluppo alternativi a basse emissioni di carbonio e resilienti al clima. Il report sottolinea quindi che i governi con maggiore capacità di abbandonare i combustibili fossili dovrebbero puntare a riduzioni più ambiziose e contribuire a sostenere i processi di transizione nei Paesi con risorse limitate.

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Ridurre le emissioni senza eliminare le fonti fossili? 

Se è vero che 17 dei 20 Paesi analizzati si sono impegnati a raggiungere l’azzeramento delle emissioni, lanciando iniziative per ridurre le emissioni da attività di produzione di combustibili fossili, la maggior parte di essi continua  comunque a promuovere, sovvenzionare, sostenere e pianificare l’espansione della produzione di combustibili fossili. Negli ultimi anni, molti Paesi hanno avviato iniziative per ridurre le emissioni derivanti dalle attività di produzione di combustibili fossili tra cui il Global Methane Pledge per ridurre collettivamente le emissioni globali di metano del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, o il Powering Past Coal Alliance, un’alleanza per il phase out dal carbone.  Ma nessun governo si è impegnato ad abbattere la produzione di carbone, petrolio e gas in linea con l’obiettivo di limitare il riscaldamento a 1,5°C. Inoltre gli sforzi sono profondamente insufficienti se non accompagnati da una pianificazione concreta rivolta a soluzioni reali come lo sviluppo di rinnovabili. La guerra in Ucraina, le conseguenti pressioni sull’approvvigionamento globale di energia di energia e i prezzi record del gas a livello internazionale hanno ulteriormente stimolato i piani e gli investimenti in infrastrutture per il gas naturale liquefatto da parte di esportatori e importatori.

Gli scenari selezionati nel report differiscono sostanzialmente a seconda delle soluzioni adottate dai Paesi. I percorsi di produzione globale di combustibili fossili coerenti con un aumento di 1,5°C ipotizzano che, entro la metà del secolo, 2,1 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno saranno catturate e stoccate mentre altri 2,2 miliardi verranno rimosse con metodi convenzionali di “rimozione della CO2” (carbon dioxine removel, CDR) come afforestazione, riforestazione e gestione delle foreste esistenti (soluzioni basate sulla natura di cui abbiamo già scritto), e oltre 3 miliardi di tonnellate di CO2 saranno sequestrate secondo nuovi metodi di CDR (CCS accoppiata a bioenergia o cattura diretta dell’aria).

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I dubbi sulla cattura e lo stoccaggio di carbonio

Secondo il report però, dati i rischi e le incertezze legati alla cattura e allo stoccaggio del carbonio e alla rimozione dell’anidride carbonica, i Paesi dovrebbero puntare a un’eliminazione quasi totale della produzione e dell’uso del carbone entro il 2040 e a una riduzione combinata della produzione e dell’uso di petrolio e gas di almeno tre quarti entro il 2050. Vi sono infatti grandi incertezze sulla fattibilità tecnica, economica per lo sviluppo e l’impiego delle nuove tecnologie di CDR e CCS su larga scala. Circa l’80% dei progetti CCS pilota degli ultimi 30 anni è fallito e ci sono inoltre diffuse preoccupazioni per i potenziali impatti negativi derivanti dall’uso estensivo del suolo per la CDR convenzionale o nuova, che potrebbero incidere sulla biodiversità, sulla sicurezza alimentare e sui diritti delle popolazioni indigene e degli utilizzatori tradizionali della terra.

Le tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), accoppiate alla combustione dei combustibili fossili per ridurre le emissioni di CO2 o alla bioenergia potrebbero svolgere un ruolo nell’affrontare le emissioni residue dei settori difficili da trasformare (hard to abate). Come gran parte della comunità scientifica, il report sottolinea però che queste soluzioni non possono essere un lasciapassare per continuare a produrre gas e petrolio. Anche se tutti gli impianti CCS pianificati e in fase di sviluppo in tutto il mondo diventassero operativi, nel 2030 verrebbero catturati solo circa 0,25 miliardi di tonnellate di CO2, ovvero meno dell’1% delle emissioni globali di CO2 del 2022 . Contare sulla diffusione su scala di queste tecnologie, insomma, rappresenta una strategia rischiosa.

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Il decennio del gas

Molti Paesi, spinti dalle industrie fossili, stanno promuovendo il gas come come combustibile “ponte” o “di transizione”. Alcune economie emergenti o in via di sviluppo considerano le loro risorse di gas importanti per sostenere lo sviluppo della propria economia nazionale. Già nel 2020, la Nigeria annunciava il 2020-2030 come il “decennio del gas e inaugurava la costruzione di un gasdotto lungo 614 chilometri, il National Petroleym Corporation (Nnpc) dal costo di 2,8 miliardi di dollari.

Il gasdotto viene finanziato attraverso l’85 per cento di debito e il 15 per cento di capitale proprio. Nel frattempo, alcuni governi europei hanno investito in infrastrutture per la fornitura di gas e si sono adoperati per ottenere contratti a lungo termine con i Paesi africani. Lo stesso presidente della COP28 Ahmed Al Jaber, che è anche amministratore delegato della compagnia petrolifera di stato di Abu Dhabi (ADNOC) ha dichiarato pubblicamente che “la riduzione graduale dei combustibili fossili è inevitabile ed essenziale” ma non ha mai parlato di uscita dai combustibili fossili.

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