Quella giacca che avere appena acquistato e che state provando davanti allo specchio, prima di arrivare a casa vostra ha probabilmente percorso diverse migliaia di chilometri rimbalzando tra centri logistici in diversi Paesi, magazzini, abitazioni di altri consumatori che come voi l’anno comprata e poi rispedita indietro. È il paradosso dei resi del fast fashion indagato da Greenpeace Italia, in collaborazione con i giornalisti della trasmissione Report di Rai3. “Il mercato della moda online – spiega Greenpeace – è dominato da spedizioni e resi gratuiti. L’impatto ambientale e socio-economico che questo sistema di vendita sta avendo a livello globale è molto maggiore di quanto i consumatori sappiano. Qual è la reale impronta ambientale di questa filiera?”. L’indagine di Greenpeace e Report nasce per questo. Quello che emerge è “una fotografia allarmante, con pacchi che viaggiano anche per decine di migliaia di chilometri (visualizza le mappe dei viaggi), venduti e resi fino a tre volte, con nessun costo per l’acquirente incauto, insignificante per le aziende ma insostenibile per il pianeta”.
Tutti i risultati dell’inchiesta, anticipati in parte nella trasmissione di Report andata in onda ieri sera su Rai 3, sono pubblicati oggi da Greenpeace Italia nel rapporto “Moda in viaggio. Il costo nascosto dei resi online: i mille giri del fast-fashion che inquina il pianeta”.
“La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d’abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta”.
Leggi anche: Crisi del Mar Rosso, costi ambientali oltre che economici
L’indagine sui resi del fast fashion
L’Unità investigativa di Greenpeace, insieme ai giornalisti della Report di Rai3, ha acquistato online 24 capi di abbigliamento di fast fashion: si tratta di salopette, pantaloni o jeans, giacche antipioggia, antivento, imbottite, piumini, blazer, abiti da cerimonia, e poi una tutina per bambino e una camicia da donna. I capi sono stati comprati online, tre per ognuna delle seguenti otto aziende: il colosso americano AMAZON, la compagnia cinese PDD Holdings con il marchio TEMU e i sei migliori siti italiani di vendita online che ottengono le prime posizioni nella classifica sviluppata dalla Casaleggio Associati, ZALANDO, ZARA, H&M, OVS, SHEIN, ASOS. L’indirizzo di destinazione degli acquisti fornito ai venditori è stato lo stesso per tutti: Orvieto (TR). Per ogni acquisto è stata scelta la stessa modalità di spedizione: gratuita con le relative tempistiche di consegna offerte dal venditore.
Una volta arrivato a Greenpeace, su ogni capo è stato installato un localizzatore (tracker) bluetooth, comunemente chiamato smart tag, appositamente modificato per ridurne la dimensione e inibirne la possibilità di emettere segnali sonori. Il capo è stato poi reso secondo le procedure e le modalità del venditore. “In questo modo è stato possibile tracciare gli itinerari percorsi dai pacchi, determinare il tipo di trasporto e studiare la filiera logistica dei venditori”. I localizzatori, fa sapere l’associazione ambientalista, sono stati disattivati una volta finiti nelle disponibilità di un acquirente privato che non ha più effettuato il reso.
Leggi anche: Disinformazione ed eventi climatici estremi sono i maggiori rischi per l’umanità, secondo il WEF
I risultati del tracciamento dei resi del fast fashion
Durante i 58 giorni dell’indagine i 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, hanno percorso circa 100.000 chilometri totali in aereo, nave, camion, furgone attraverso 13 Paesi europei (inclusa la Svizzera) e la Cina.
Il calcolo dei chilometri percorsi, spiega Greenpece, è stimato al ribasso “poiché con le informazioni in nostro possesso (soltanto origine e destinazione) si è calcolato il percorso diretto tra i due punti, escludendo di fatto ogni diversione fatta per motivi logistici come, ad esempio, gli itinerari ulteriori per raggiungere centri logistici e di smistamento delle spedizioni o i percorsi urbani seguiti dal corriere nella fase di consegna al cliente”. Inoltre l’inchiesta non indaga il Paese di produzione dei capi di abbigliamento e il trasporto da questo Paese a quello di consegna al venditore.
Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è di 4.502 km. Il tragitto più breve è di 1.147 km e il più lungo (ad oggi, visto che il capo non è ancora tornato in possesso della piattaforma) è quello percorso da un abito da sposa TEMU da 38 euro: 10.297 km.
In genere i pacchi nel loro tragitto ‘rimbalzano’ tra diversi Paesi come le palline in un flipper delle dimensioni della Terra. Un piumino H&M (40€) percorre 3.237 chilometri toccando 4 Paesi (Italia, Francia, Spagna e Portogallo); una camicia di Zalando màcina 3.572 chilometri e attraversa 5 Pesi (Italia, Germania, Francia, Spagna, Austria); ma il record di frontiere attraversate lo raggiunge un pantalone ASOS da 35 euro che tocca ben 7 Paesi: Germania, Italia, Austria, Polonia, Paesi Bassi, Belgio, Francia.
Lo stesso pantalone raggiunge il record di resi: 3.
Interessante la storie degli abiti TEMU. Ognuno dei capi di abbigliamento di TEMU è stato spedito dalla Cina e ha percorso oltre 10.000 chilometri – principalmente in aereo – e, ad oggi, non risulta ancora rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso: “I localizzatori dei tre capi di TEMU sono stati impossibilitati a trasmettere nuove posizioni a partire dal 29 dicembre 2023, presumibilmente perché imbarcati su navi portacontainer da cui è impossibile ricevere il segnale”. Altri venditori che hanno usato l’aereo per le loro consegne sono: SHEIN, oltre 1.800 km a capo per la consegna dall’Irlanda all’Italia, e AMAZON, oltre 1.100 km per una consegna dal Belgio all’Italia.
Ad oggi, solo 10 capi su 24, pari al 42%, sono stati effettivamente rivenduti, mentre dopo oltre due mesi 14 capi (58% del totale) risultano ancora invenduti o stoccati (invenduto il 100% dei capi resi a TEMU, OVS e SHEIN).
Leggi anche: Il ciclo tossico dell’ultra-fast fashion di SHEIN
L’impatto ambientale
Secondo i dati elaborati dal team di ricercatori di INDACO2 attraverso una procedura basata su standard di calcolo internazionali per la Life Cycle Assessment (la valutazione del ciclo di vita), l’impatto medio del trasporto di ordini e resi è risultato pari a 2,78 kg CO2eq: il valore oscilla tra 0,87 e 8,89 kg CO2eq in base al percorso e al mezzo di trasporto. In termini di emissione, il packaging incide mediamente per il 16%.
Per immaginare cosa questi numeri vogliano dire, Greenpeace fa l’esempio di un paio di jeans per i quali il trasporto del capo ordinato e reso comporterebbe un aumento delle emissioni pari al 24% (1,95 kg CO2eq a fronte di un dato medio di produzione di 8,2 kg CO2eq, stando ai dati delle Dichiarazioni Ambientali di Prodotto).
“Dal risultato si deduce che, nel ciclo di vita del prodotto, il trasporto genera un impatto significativo ma non tanto rilevante quanto si è soliti pensare, considerando le grandi distanze percorse”, si legge nel documento di Greenpeace e Report: “Si intuisce tuttavia che l’espansione del servizio di trasporto nel settore commerciale genera numeri cospicui e, complessivamente, un importante e crescente impatto ambientale”. Le spese contenute per il trasporto, infatti, alimentano l’aumento dei trasporti stessi: facendo riferimento al costo medio mondiale del carburante, si va da un minimo di 0,16 € a prodotto ad un massimo di 2,79 € per le tratte più lunghe (costo medio: 0,87 €).
Nel report viene citato il cosiddetto “paradosso di Jevons”. L’economista britannico William S. Jevons nel 1865 osservava che l’efficienza delle macchine termiche non comportava una riduzione dei consumi di carbone ma, contrariamente alle aspettative, la domanda complessiva di carbone aumentava perché l’impiego e la diffusione delle macchine crescevano. “Questa questione è valida ancora oggi: più il trasporto delle merci è efficiente ed economico, più risulta appetibile e maggiore sarà il suo impiego, con evidente aumento delle emissioni di gas serra che genera complessivamente. A livello mondiale, il trasporto è responsabile del 15% delle emissioni antropiche”.
© Riproduzione riservata