[di Daniele Nalbone]
In un ex calcificio in Valcamonica sorge il Centro3T. Qui l’associazione Post Industriale Ruralità porta avanti il suo progetto di “orti verticali” che crescono da un rifiuto speciale: la lana sucida
Sinossi
Lungo una montagna di calcare una teleferica attraversava i crinali e tre forni alti trenta metri bruciavano e sfornavano calce. Erano gli anni ’40. Dopo l’abbandono della produzione Sellero, piccolo comune in provincia di Brescia, ha osservato per anni il decadimento del suo simbolo che cercava un nuovo ruolo mentre il territorio si spopolava. Oggi le Tre Torri possono mostrarsi a chi attraversa questa stretta valle come un prezioso reperto di archeologia industriale e lanciano una nuova sfida. Perché è qui che sorge il Centro 3T. Ed è qui che l’associazione Post Industriale Ruralità fa crescere dalla lana sucida, rifiuto speciale da smaltire in discarica, ortaggi e frutti in moduli acquaponici e idroponici progettati appositamente. A spiegarci il loro funzionamento e a farci da guida in questo progetto di economia circolare dei giovani agricoltori: gli studenti medi di una scuola di Boario.
Sellero. Media Valcamonica. Il lago d’Iseo è lontano ormai diverse gallerie. Davanti a noi le province di Sondrio e Trento incontrano quella di Brescia. Usciamo dalla superstrada per dirigerci verso la diga dell’Enel, in una stretta valle attraversata dal fiume Oglio. Sopra la nostra testa, la vetta dell’Adamello. È qui, in questa zona palesemente industriale, che appaiono davanti a noi le ex fornaci da calce della ditta SEFE, oggi Centro 3T e sede dell’associazione Post Industriale Ruralità, nata nel 2012 con l’obiettivo di dare nuova vita a una serie di reperti di archeologia industriale diventati simbolo della deindustrializzazione della zona. Studiare e conservare il patrimonio industriale, farne un centro di arte contemporanea e, al tempo stesso, di sperimentazione di nuova ruralità. Con questo obiettivo i membri dell’associazione hanno iniziato a studiare i mutamenti socio-economici-ambientali maturati dal passaggio da economia rurale a economia industriale. È qui che Francesca, Daniela, Silvia e Mauro hanno iniziato ad allestire un vero e proprio museo, dove programmazione culturale e ricerca partecipata sono pensate in funzione di una sostenibilità ambientale ed economica delle attività rurali sopravvissute.
Un museo. Un luogo di incontro e sperimentazione. Una ‘piazza’ a trenta metri da terra che sovrasta il piccolo centro di Sellero, un tempo cuore della valle ‘dell’industria e dell’energia’. L’esperimento, l’idea, la follia – chiamatela come preferite – per la quale mi sono spinto a quasi settecento chilometri da casa è un piccolo ma significativo esempio di economia circolare. Anzi, per dirla con le parole di Francesca, «il progetto nel quale abbiamo investito di più». Parliamo del recupero e della valorizzazione delle lane rustiche, «sucide». Francesca e Mauro hanno iniziato quasi per gioco a prendere la lana ‘sporca’, appena tosata, e da quel rifiuto speciale – «quindi uno scarto per l’ambiente e un costo per i pastori» – creare la base per orti e giardini verticali. Prima di farci immergere in questo «circuito di economia circolare», Francesca ci consegna la premessa dalla quale è partito il progetto: in Italia le pecore sono oltre 6 milioni e la produzione di lana sucida è di 8.600 tonnellate, per una valutazione che va da 0 a un massimo di 0,40 euro al chilo. Parliamo quindi di un materiale che se considerato rifiuto diventa un costo da sostenere per chi deve smaltirlo ma che, se trasformato in ‘terreno’ agricolo, è «pregiato e al tempo stesso estremamente economico». Perché «la lana è un caso sintomatico della difficile convivenza tra economia rurale ed economia industriale». Perché «la lana da risorsa economica è diventata un materiale da smaltire a pagamento come rifiuto speciale». Perché oggi «le greggi sono sempre più piccole e quindi producono troppa poca lana per ‘andare sul mercato’». Infine, perché «le caratteristiche poco adatte all’abbigliamento rendono la lana di pecora bergamasca di Valcamonica poco usata dall’industria laniera». Il risultato è che lo smaltimento è, in primis per i pastori, solo un problema da risolvere.
Storicamente la Valcamonica è sempre stato un luogo di transumanza: prima dell’estate le greggi della Pianura Padana e della Bassa Bresciana venivano spostate in questo luogo fresco, verde e ricco di corsi d’acqua. Oggi, ovviamente, il fenomeno è ridotto ai minimi termini anche se c’è ancora chi, come Roberto, da Cremona, ogni anno si arrampica con le sue pecore fino ai piedi dell’Adamello. Da un paio d’anni, ad accompagnarlo, c’è sempre un furgone carico di lana sucida da lasciare in ‘dono’ al Centro 3T. Perché è qui che inizia quella transizione di uno scarto da rifiuto a terreno fertile del ‘Giardino del se’.
«Nell’orto realizzato da noi sono state piantati in verticale: pomodori, fragole, basilico, fagioli e prezzemolo, provenienti dal nostro semenzaio». Francesca ha ragione: sono i ragazzi della 2ªB di Boario i migliori narratori di questo progetto. La teoria è semplice: si tratta di coltivazione idroponica in lana. Il sistema progettato nel Centro 3T è così elementare da essere geniale. «Sono sufficienti sei passaggi per poter dar vita a un orto verticale». Prima di iniziare, però, «è necessario preparare tutto l’occorrente» ci spiegano i piccoli agricoltori: si parte dal terriccio. «Abbiamo fatto dei piccoli mucchietti di terra, uno accanto all’altro, per capire i diversi tipi, e un mucchietto di sabbia. Poi ci hanno detto di annusare, toccare e guardare bene il colore della terra». Per capire le differenze, certo, ma anche per ‘sentire’ la materia prima da lavorare. Quindi «abbiamo mescolato tutti i mucchietti» per formare un composto omogeneo. «Lì devi stare attento che ci sono zolle e grumi. Anche sassi. Quelli vanno tolti». Dopo aver fatto un «letto di lana abbiamo riempito i vasi fino all’orlo mentre, su un tavolo, abbiamo riempito dei piattini con i semi». Su ogni piattino «abbiamo messo un cartellino attaccato con uno stuzzicadenti e dello scotch dove abbiamo scritto che tipo di seme è e come si deve piantare». Ad esempio «lo sapevi che i semi di fagiolo vanno messi nelle file più basse e poi si arrampicano?». Ovviamente, non lo sapevo. L’ultima cosa da fare prima di iniziare a creare il proprio orto verticale «è costruire un annaffiatoio» perché «non serve andarlo a comprare. Basta fare dei piccoli buchi sul tappo di una bottiglia di plastica, così non la butti ma la riusi». Detto da degli agricoltori di 12 anni sembra veramente di ridare nuova vita a qualcosa di ormai morto.
«Ora possiamo iniziare. Prendi appunti». Il primo passaggio è quello di «tagliare con forbici o cesoie i tubolari di lana – si chiamano così – per inserire le piante seminate inizialmente nella terra». Poi, secondo passaggio, «mettiamo un po’ di terra qui, nei buchi che abbiamo fatto, per incastrare bene le piantine. Ma devi fare piano». Il terzo e il quarto passaggio ti consentono di lavarti le mani. Perché non c’è «niente da fare, ma da capire cosa vuoi fare, che tipo di piante vuoi mettere e cosa quelle piante ci raccontano». Per esempio, «lo sapevi che il pomodoro una volta era giallo? Per questo si chiama ‘pomo d’oro’. E sapevi che arriva dall’America? Da noi prima non c’era». Poi «devi, una volta scelte le piante che vuoi mettere nell’orto, stare attento a dove le metti» perché «ogni pianta ha bisogno del suo spazio, del giusto posto, in base alle sue caratteristiche». E si torna all’esempio dei fagioli che crescono in fila e poi si arrampicano. E ora gli ultimi due passaggi: «Prendi una piantina, apri bene le radici e la metti nel buco che abbiamo fatto nella lana». Adesso «possiamo attivare l’impianto di irrigazione».
Mentre ci spostiamo nella stanza ‘della teoria’ un foglio attira la nostra attenzione: ci sono dati e numeri che spiegano quale potrebbe essere l’impatto di una filiera di produzione di questi orti verticali incentrati sulla lana sucida. Il 65-70% di questo materiale ‘di scarto’ viene esportato verso la Cina e l’India per la produzione di tappeti rustici, filati per maglieria grossolani, riempitivi di materassi. Ma la quota restante non trova canali commerciali remunerativi. I motivi ce li spiega Francesca: «Un po’ è colpa, diciamo così, della legge sulla gestione delle lane dopo la tosa. Perché per ‘riusarle’ serve non solo un determinato tipo di lavaggio, ma soprattutto che questo lavaggio sia fatto in locali adatti, certificati dalla Asl, per lo scarico delle acque. Il secondo problema è dato dalla struttura agricolo-pastorale di tanti piccoli e piccolissimi allevatori che non ‘producendo’ abbastanza lana sucida non possono ridargli vita ma solo conferirli in discarica come rifiuto speciale». Ma questi orti che ora sono presenti in diverse scuole della Valcamonica sono la prova che una seconda vita, o meglio, una «nuova vita che genera vita» questo rifiuto può averla.
Parliamo, eccoci nella stanza della teoria, di orticoltura verticale idroponica – quella che ci hanno appena spiegato i piccoli agricoltori della 2ªB – e acquaponica, di produzione di moduli di coltivazione verticale indoor e outdoor, «impiegabili sia a livello produttivo che orto-terapeutico». Il modulo acquaponico è, se possibile, ancor più affascinante «perché ci sono i pesci rossi e i batteri. Ma possiamo metterci anche i gamberi». Il modulo è composto da una vasca di allevamento, un letto di crescita riempito con argilla espansa, una pompa a immersione dotata di timer, condutture idrauliche, sifone, un kit per le analisi chimiche dell’acqua e l’immancabile parete verticale in lana. Tutte queste parti, combinate nel giusto modo, creano un vero e proprio ecosistema, esempio concreto, tangibile e visibile, di economia circolare in natura. Perché questo ecosistema «è completamente autosufficiente». Al massimo, ci spiega uno dei piccoli agricoltori, «devi fare attenzione ad alcune cose. Ma per il resto fa tutto da solo». Bisogna – ci spiega leggendo dal cartellone appeso nell’aula – solo «integrare l’acqua che evapora» ma «se usi quella del rubinetto, lasciala in una tanica per due giorni in modo che il cloro sparisca». Sparisca? «Si, evapora solo il cloro». Ok, lasciamo stare il lato scientifico e diamo per buona la cosa. Poi «devi sempre controllare il tubicino e lavarlo, altrimenti crescono le alghe». Nel letto di crescita riempito d’argilla «devi stare attento che non ci sia troppo residuo organico» quindi «non dare troppo mangime ai pesci, ma solo quello che mangiano altrimenti resta nell’acqua e la sporca». Infine, una raccomandazione: «Il letto in cui abbiamo messo l’argilla espansa va lavato al massimo una volta l’anno» perché «lì dentro ci sono tutti i nutrienti per i vegetali che arrivano dai batteri e dagli altri microrganismi che si sviluppano» grazie «alla cacca dei pesci». Ora «devi solo aspettare. Farà tutto la natura, da sola» ci dice, facendoci assaggiare delle fragoline «che ho coltivato io nel mio orto verticale in lana».