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lunedì, Luglio 8, 2024

Cop28, un appello per riconoscere l’oceano come un alleato nei negoziati sul clima

Nel dibattito sul clima ancora poco spazio è riservato al ruolo che gli oceani possono avere nella guida di soluzioni per fronteggiare il collasso climatico e raggiungere gli obiettivi fissati con l’Accordo di Parigi. Se è ben noto che le foreste sono il polmone verde del Pianeta, ancora troppo poco sappiamo del nostro polmone blu. Alla Cop28 un richiamo ai leader mondiali sull’urgenza di tutelare gli oceani e riconoscere la loro centralità nella lotta alla crisi climatica. Da sempre in prima linea in questa battaglia le Piccole Isole del Pacifico

Maria Marano
Maria Marano
Ha conseguito la laurea in Relazioni e Politiche Internazionali e un master in Diritto dell’Ambiente. Collabora da anni con A Sud e il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali nel campo della ricerca sui temi delle migrazioni climatico-ambientali. Nel 2016, nel 2018 e nel 2023 ha curato le prime tre edizioni del report Crisi Ambientali e Migrazioni Forzate. Collabora su questi temi anche con il Centro Studi e Ricerche IDOS. Ha maturato esperienza lavorativa nel settore della cooperazione internazionale allo sviluppo, in Italia e all’estero, in ambito non governativo e accademico. Dal 2012 lavora nel settore della programmazione, gestione, attuazione dei fondi europei a gestione indiretta, con particolare riferimento alle tematiche ambientali e della capacity building

La Terra è coperta per il 70% dagli oceani dove risiede l’80% delle specie viventi. Si tratta del più grande habitat del Pianeta. Più di 3 miliardi di persone, vale a dire oltre il 40% della popolazione mondiale, vivono entro 100 km dall’oceano o dal mare, ma a prescindere se viviamo o meno in un Paese con sbocchi sull’oceano o sul mare, tutti beneficiamo dei servizi ecosistemici che questi offrono, principalmente, nella regolamentazione del clima su scala globale. Gli oceani producono infatti il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbono circa il 25%-30% dell’anidride carbonica di origine antropica emessa annualmente in atmosfera, con una capacità di immagazzinare CO2 50 volte superiore a quella delle foreste tropicali.

Tuttavia, l’attività dell’uomo e il conseguente aumento delle emissioni di gas serra e della temperatura su scala globale sta mettendo seriamente a rischio gli ecosistemi costieri e marini. Guardando i dati, il primo novembre 2023, secondo il Programma europeo di osservazione della Terra, Copernicus, è stata registrata la temperatura media della superficie degli oceani più alta mai rilevata, ben 20,79°C (0,4 gradi sopra le medie del periodo). Un record tutto in negativo che ha anticipato quello del 17 novembre, giorno in cui la temperatura globale (della superficie e dell’aria) ha invece superato per la prima volta i 2°C rispetto ai livelli preindustriali, raggiungendo i 2,07°C sopra la media del periodo 1850-1900. Ciò si traduce in acidificazione delle acque, scioglimento del ghiaccio marino ed eventi che a loro volta influenzano le correnti oceaniche, il livello degli oceani e dei mari, provocano inondazioni e erosione costiera, riproduzione di alghe nocive, la perdita della fauna oceanica e molto altro. Per troppo tempo si è pensato all’oceano come a qualcosa di infinito e non condizionato dalle attività umane. Di conseguenza ciò ha limitato anche gli investimenti nei sistemi di osservazione degli oceani che sono rimasti indietro rispetto alle sfide che oggi ci troviamo ad affrontare.

A Dubai, dove si sta svolgendo la conferenza mondiale sul clima (COP28), esperti, rappresentanti della comunità scientifica, delle istituzioni e della società civile, e non solo, sono al lavoro per dare voce agli oceani, affinché si riconosca la loro importanza, venga tutelata la loro salute e vengano rafforzati gli sforzi per migliorare le osservazioni oceaniche a livello globale. “È fondamentale concentrare l’attenzione della politica e dei media sulle soluzioni necessarie per proteggere gli ecosistemi marini, ad esempio attraverso il monitoraggio e la ricerca sull’acidificazione, la deossigenazione e il riscaldamento dell’oceano e i loro impatti, sottolineando l’importanza di dare accesso a tutti a queste informazioni”, spiega Francesca Santoro, Senior Programme Officer per IOC/UNESCO e responsabile a livello mondiale dell’Ocean Literacy (letteralmente “alfabetizzazione all’oceano”, un catalizzatore di iniziative per conoscere, tutelare e utilizzare in modo sostenibile l’oceano coinvolgendo tutta la società, arrivando soprattutto alle nuove generazioni). L’iniziativa rientra nel Decennio degli oceani (2021-2030), promosso dalla Commissione Intergovernativa Oceaonografica dell’UNESCO (IOC/UNESCO) che ha come primo scopo quello di favorire il raggiungimento dell’Obiettivo 14 dell’Agenda 2030: “Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”.

È in questa direzione che si muove la “COP28 Dubai Ocean Declaration” firmata da IOC/UNESC e  tutti i partner dell’Ocean Pavilion. Il Padiglione dedicato agli oceani tornato alla COP per il secondo anno, ricco di iniziative ed eventi (oltre 70), che coprono una vasta gamma di argomenti legati agli oceani (dal cambiamento climatico, all’innalzamento del livello del mare, all’oceano vivente, alla giustizia climatica e all’accesso a tutti, in particolare ai Paesi più vulnerabili, alla ricerca e ai dati).  Per il primo anno, insieme alle delegazioni storiche delle Piccole Isole del Pacifico, alla COP di Dubai, presso il padiglione Moana Blue Pacific, è possibile incontrare anche una rappresentanza del Tungaru Youth Action, la delegazione dei giovani di Kiribati, che si sono presentati non solo come partecipanti ma come agenti del cambiamento. “Apprezzo e sono grato per l’opportunità di essere tra la prima delegazione giovanile a Dubai in occasione della COP28, resa possibile anche dal Global Centre for Climate Mobility, che mi ha selezionato come uno dei membri dell’Iniziativa Rising Nations. Mi concentrerò principalmente sulla conservazione marina, dove sosterrò come una delle voci dei giovani di Kiribati un’azione per il clima basata sull’oceano guidata dai giovani, contribuendo al piano di adattamento a lungo termine per Kiribati, uno dei Grandi Stati dell’Oceano. I giovani sono la voce del futuro e i leader di domani, e anche il loro contributo all’azione per il clima è fondamentale per un futuro resiliente e sostenibile”. È quanto dichiarato da Tiein Taebo, delegato Rising Nations per Kiribati alla COP28.

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Nel Pacifico prove di sopravvivenza oltre i confini in vista dell’arrivo dell’oceano. È il caso di Tuvalu

Nell’area del Pacifico lo stato di salute degli oceani non è sono solo una questione ambientale ma è già anche una questione politica e di giustizia sociale. Piccole isole paradisiache dell’immaginario collettivo stanno lentamente scomparendo a causa dell’innalzamento del livello delle acque, dell’intrusione salina nelle falde costiere e degli eventi meteorologici sempre più estremi. È il caso dell’arcipelago di Tuvalu, situato a metà tra l’Australia e le Hawaii. Con una superficie di 26 Km2 è il quarto Stato più piccolo al mondo, abitato da circa 11 mila persone. A soli 4,6 metri di altitudine massima sul livello del mare, Tuvalu rischia di diventare inabitabile entro i prossimi ottant’anni. Difronte a questo scenario, anche se può suonare alquanto bizzarro, le autorità stanno progettando di trasferire l’arcipelago nel Metaverso (e non sono i soli). “La nostra terra, il nostro oceano, la nostra cultura sono i beni più preziosi del nostro popolo e per tenerli al sicuro da ogni pericolo, qualunque cosa accada nel mondo fisico, li trasferiremo nel cloud”, aveva dichiarato il ministro degli Esteri, Simon Kofe, alla COP27. Ma lo Stato di Tuvalu ha fatto ancora di più, proprio perché ben determinato a non scomparire. A ottobre di quest’anno ha cambiato la propria costituzione mettendo in discussione il diritto internazionale e il suo concetto di nazione (che non può prescindere dall’esistenza di territorio). Tuvalu invece esisterà a prescindere dagli effetti che il cambiamento climatico avrà sulle sue isole. Resta ora da vedere se altri Stati ricalcheranno le sue orme e se la comunità internazionale riconoscerà mai uno Stato senza un territorio.

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Asilo climatico o una strategia geopolitica?

Intanto l’Australia ha deciso di apire le porte agli abitanti di Tuvalu, attraverso un accordo, stipulato lo scorso novembre, denominato “Unione Falepili”, che nella lingua tuvaluana indica il buon vicinato, la cura e il rispetto reciproci. L’accordo stretto tra il primo ministro australiano laburista, Anthony Albanese, e il primo ministro dell’arcipelago, Kausena Natano, prevede l’ingresso in Australia fino a 280 tuvaluani l’anno, autorizzati a studiare e lavorare nel Paese, un finanziamento di circa 10 milioni di dollari per un progetto di adattamento costiero e la difesa anche militare di Tuvalu. In cambio a Canberra è concessa una forte ingerenza sugli accordi di sicurezza tra Tuvalu con Paesi terzi. Un patto questo che solleva inevitabilmente una serie di considerazioni soprattutto quando a firmare l’accordo è una nazione come l’Australia, nota negli ultimi due decenni per le sue politiche anti-migratorie, che hanno lasciato in un limbo migliaia di richiedenti asilo, rinchiusi in carceri offshore o in hotel-prigioni privati di ogni diritto, come denunciato anche da Amnesty International. L’Australia, inoltre, si è contraddistinta, sicuramente non nel bene, per le sue politiche climatiche che hanno sempre guardato e finanziato l’industria fossile, a scapito della lotta al riscaldamento globale, diventando per questo responsabile di notevoli quantità di gas serra, motivo di tensione con alcuni Stati dell’oceano Pacifico.

Più che un accordo rivoluzionario, come lo ha definito Albanese, o un faro di speranza come lo ha descritto Natano, suona come uno strumento di controllo da parte dell’Australia sull’isola di Tuvalu e nell’area del Pacifico, in primis per i timori di Canberra sulle mire espansionistiche cinesi in quest’area. L’accordo, coincidenza (?), è arrivato proprio dopo che la Cina ha sottoscritto un patto di sicurezza con le isole Salomone. Inoltre, come afferma Ingrid Boas, della Wageningen University nei Paesi Bassi, il rischio è che accordi come questo possano “deresponsabilizzare i governi dei Paesi più inquinanti (…) Gli Stati più ricchi dovrebbero pensare a ridurre le emissioni invece di far finta di risolvere il problema semplicemente aprendo le porte a chi emigra a causa della crisi climatica. L’ambiente è un problema politico e come tale va affrontato”.

La condizione in cui si trova Tuvalu è altresì un esempio calzante del concetto di loss and damage, ossia del risarcimento delle perdite e dei danni subiti in conseguenza dei cambiamenti climatici da chi meno ha contribuito a determinare la crisi climatica. Tema questo che resta caldo sebbene a Dubai sia stato annunciato lo stanziamento di un fondo di 420 milioni di dollari. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, come lascia intendere anche Pa’olelei Luteru, presidente dell’Alleanza per i Piccoli Stati Insulari (Aosis), che frena gli entusiasmi: “Il lavoro è lontano dall’essere finito. Quando Cop28 sarà terminata, non potremo riposarci fino a che il fondo non sarà adeguatamente finanziato. Sarà un successo quando la comunità internazionale supporterà in maniera appropriata le vittime della crisi climatica con accesso diretto ed efficiente alle risorse di cui hanno bisogno”. A questo punto resta da vedere quanto l’Australia si impegnerà nel sostenere concretamente il fondo e quanto invece entrerà nelle questioni politiche di Tuvalu.

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