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domenica, Ottobre 6, 2024

Metti i soldi e scappa dalle responsabilità climatiche, la strategia della Cop28

Dopo i primi giorni la presidenza conferma, coi suoi annunci basati sugli impegni economici, di voler fare da stampella ai governi e alle aziende che intendono replicare il modello economico che ci ha condotto all'attuale collasso climatico. Per capirlo serve analizzare le decisioni prese finora in ambito energetico

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“In qualità di presidente dell’IPCC ho affermato che la comunità scientifica è pronta a sostenere i risultati della Cop28 nel dare forma a un’azione per il clima basata sulla scienza. Ma la scienza di per sé non può sostituire l’azione”. Le parole di Jim Skea risalgono al primo giorno di dicembre. Chissà se quando le ha impresse su twitter Skea, che oltre a essere il presidente del gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici è anche uno stimato docente di sostenibilità energetica all’Imperial College di Londra, avrebbe potuto immaginare che appena tre giorni dopo, il 4 dicembre, sarebbe stato a fianco di chi quella scienza l’ha messa in dubbio.

Dopo l’avvio e i primi due giorni, quando l’arrivo dei capi di stati e governi ha fagocitato l’attenzione della stampa generalista, anche la Cop28 sembrava avviata a rientrare nell’esclusivo circuito della diplomazia climatica e dell’opinione pubblica interessata alle questioni ambientali. Per poi tornare a richiamare le attenzioni generali coi negoziati finali, come avviene per ogni conferenza annuale sui cambiamenti climatici. Nel nostro piccolo, in Italia, lo si è notato con la lettura mattutina dei giornali del 3 dicembre, di nuovo zeppi di prime pagine dedicate alle piccole cose della politica nazionale. Poche ore dopo, però, cambia tutto. Il Guardian pubblica uno stralcio di una chiamata Zoom del presidente della Cop28 Sultan Al Jaber afferma che non esiste “nessuna scienza” che indichi che sia necessaria un’eliminazione graduale dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Inoltre Al Jaber afferma che se si scegliesse di rinunciare ai combustibili fossili ciò “ci riporterebbe nelle caverne”.

Una conferma del triplo conflitto di interessi di Sultan Al Jaber – presidente della Cop28, ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti e amministratore delegato di ADNOC, la compagnia petrolifera di stato – che inevitabilmente accende di nuovo le luci dei riflettori su una figura controversa che, ancor prima dell’avvio della Cop, faceva già propendere per un pessimo esito.

Leggi anche: In Colombia sta per iniziare il controvertice sul clima. I movimenti non credono alla Cop28

Le reazioni della Cop28? Altri annunci

Sultan Al Jaber è costretto a convocare una affrettata conferenza stampa per il 4 dicembre. E al suo fianco vuole proprio il presidente dell’IPCC Jim Skea che, come riportano molti giornalisti, è laconico, come se non avesse una gran voglia di stare lì. Al Jaber, invece, è deciso. Si dice “davvero sorpreso dai costanti e ripetuti tentativi di sabotare il lavoro della presidenza della Cop28”. Fa l’analisi dei primi 4 giorni della Cop e ricorda il voto, giunto un po’ a sorpresa il 30 novembre, sull’istituzione del fondo Loss and Damage, che serve per risarcire i Paesi vulnerabili dagli impatti della crisi climatica, finora giunto a circa 660 milioni di dollari – secondo tutte le previsioni ne servirebbero almeno 100 volte tanto.

“Abbiamo votato, sostenuto e adottato l’ordine del giorno nella prima ora del primo giorno della Cop. Nelle 12 Cop a cui ho partecipato personalmente, e sono sicuro che in questa stanza ci sono persone che hanno partecipato a molto di più delle sole 12 Cop, non abbiamo mai visto l’ordine del giorno essere adottato il primo giorno, per non parlare della prima ora (…) Il nostro compito non è solo renderlo operativo e aprire o creare un conto bancario vuoto. No, abbiamo fatto una promessa. Vogliamo renderlo operativo e vogliamo concordare le modalità di finanziamento e iniziare a riempirlo. E questo è esattamente quello che è successo. E ancora una volta, è la prima volta che in una Cop il primo giorno viene adottata una decisione del genere”.

In fondo è sempre una questione di soldi. In una nota rivolta ai media il 4 dicembre, appena dopo le polemiche, la presidenza della Cop28 rende noto che “in una potente dimostrazione di solidarietà globale, governi, imprese, investitori e organizzazioni filantropiche hanno annunciato oltre 57 miliardi di dollari da destinare all’agenda sul clima solo nei primi quattro giorni della Cop28. Dopo uno storico accordo per rendere operativo un fondo per la risposta all’impatto climatico sin dal primo giorno, gli annunci si sono riversati su tutta l’agenda climatica, compresi finanza, salute, cibo, natura ed energia”.

Troppo facile osservare che si tratta di annunci, che le azioni sono un’altra cosa e che dopo ogni Cop, in ogni caso, quelle stesse promesse, già al ribasso, si sono sempre rivelate dei fuochi di paglia. D’altra parte Sultan Al Jaber ha chiesto di essere giudicato dai risultati. Non dagli annunci, appunto, dai risultati. Ma al momento dalla Cop28 arrivano solo intenti. E dunque non ci resta che giudicare quelli.

Ecco perché non convince l’approccio di una presidenza tutta orientata a formulare accordi che però, poi, di concreto hanno ben poco. E non convince neppure l’appello alla finanza privata: il modo in cui si chiede di contribuire ai privati e alle aziende conferma infatti l’idea neoliberista secondo la quale il compito degli Stati è facilitare le imprese e poco più, coi governi che diventano una stampella sulla quale la transizione ecologica immaginata dalle imprese verrà realizzata dalle stesse. Il mercato, insomma, dovrebbe salvarci. Lo stesso mercato che ci ha condotto al collasso climatico attuale, per citare l’espressione usata più volte da Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu. Cosa potrebbe andare mai storto?

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Dalle fossili al nucleare, l’energia della Cop28 è sul rinvio

A giudicare da un primo sguardo, la lista degli impegni e delle dichiarazioni firmate fino al 4 dicembre alla Cop28 è lunga:

– il Global Renewables and Energy Efficiency Pledge è stato sottoscritto da 119 Paesi;

– la dichiarazione degli Emirati Arabi Uniti su agricoltura, alimentazione e clima ha ricevuto l’approvazione di 137 Paesi;

– la dichiarazione degli Emirati Arabi Uniti  su clima e salute è stata approvata da 125 Paesi;

– la dichiarazione degli Emirati Arabi Uniti sugli aiuti climatici, la ripresa e la pace è stata approvata da 74 Paesi e 40 organizzazioni;

– la dichiarazione degli Emirati Arabi Uniti sui finanziamenti per il clima è stata approvata da 12 Paesi;

– l’impegno della Coalition for High Ambition Multilevel Partnerships (Champ) è stato sottoscritto da 64 Paesi;

– la Carta per la decarbonizzazione del petrolio e del gas è stata approvata da 51 aziende, che rappresentano il 40% della produzione globale di petrolio;

– l’Industrial Transition Accelerator è stato approvato da 35 aziende e sei associazioni di settore, tra cui World Steel Association, International Aluminium Institute, Global Renewable Alliance, Global Cement and Concrete Association, Oil and Gas Climate Initiative, International Air Transport Association.

Restiamo al campo degli accordi presi in ambito energetico. Innanzitutto si nota, nell’elenco fornito dalla Cop28, l’assenza della Declaration to Triple Nuclear Energy, cioè l’accordo sottoscritto da 22 Paesi in cui viene dichiarato l’impegno a triplicare la capacità di produzione di energia nucleare globale entro il 2050, con lo scopo di ridurre le emissioni di gas serra. Tra i Paesi aderenti vale la pena citare, oltre ovviamente agli Emirati Arabi Uniti, anche la Francia (il principale produttore di energia nucleare in Europa), gli Stati Uniti (nel loro mix energetico l’energia nucleare è già al 18%), l’Ucraina (ancora sconvolta dalla guerra e con la centrale di Zaporižžja più volte a rischio in questi due anni) e il Regno Unito. Tutti si impegnano non solo a migliorare le centrali già esistenti ma anche a crearne di nuove. Ed è noto come per la costruzione ex novo di nuove centrali, fossero anche quelle più piccole di quarta generazione, sono necessarie, a voler essere molto ottimisti, almeno una decina di anni. Vanno poi considerati gli enormi costi che comporta la costruzione di nuovi rettori.

Non proprio ciò che ci si aspetterebbe da chi dichiara di avere recepito l’urgenza del riscaldamento globale. Soprattutto se si considera che ci sono forme di energie come le rinnovabili e miglioramenti già esistenti come l’efficienza energetica che sono già pronte, attive sul mercato e molto più convenienti dal punto di vista economico. Allora perché insistere con tali impegni? Si dirà: un mix energetico deve fare affidamento su tutte le forme di energia a disposizione. È la diversificazione, no? In realtà decisioni del genere testimoniano l’intento di voler posticipare la risoluzione dei problemi. Continuare a scegliere tutte le forme di energie, specie quelle che rimandano alle calende greche come il nucleare o la ccs (cattura e stoccaggio di carbonio) vuol dire, in sostanza, non scegliere le più adatte a fronteggiare il collasso climatico sul quale ci siamo già avviati da tempo.

Da quando per cambiare bisogna ripetere le stesse azioni? A che serve replicare il modello estrattivista che ha causato il dramma climatico in cui siamo immerse e immersi, se non a generare profitti per pochi a danni dei molti? Inoltre non va dimenticato che tutti gli accordi sono basati sulla volontarietà, in cui sono stati e aziende, attraverso rapporti di forza, a definire le modalità con le quali intervenire. Allo scopo di preservare, prima e dopo tutto, la convenienza economica.

Ne è prova un altro accordo energetico firmato in questi giorni alla Cop28, quello firmato da “51 aziende, che rappresentano il 40% della produzione globale di petrolio” per la decarbonizzazione delle proprie attività al 2050. Tutto bene? Non proprio. Innanzitutto perché l’orizzonte al 2050 vuol dire che le aziende confermano implicitamente che continueranno a cercare ed estrarre ancora petrolio e gas, quando le  maggiori indicazioni scientifiche indicano che bisognerebbe smettere già entro il decennio di avviare nuovi progetti. Inoltre la cosiddetta decarbonizzazione delle aziende fossili continua a puntare non alle “zero emissioni” ma alle “emissioni zero”: vuol dire, ciòè, che puntano alla neutralità carbonica attraverso soluzioni come le compensazioni e la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica che fino a questo momento hanno clamorosamente fallito (e sono destinate a ripetersi secondo la maggior parte delle analisi). Infine va citata la mancata presa di responsabilità sull’intero ciclo di vita dell’attività industriale: con questo accordo le aziende fossili si impegnano ad azzerare le emissioni Scope 1 e Scope 2, cioè quelle relative alle operazioni di estrazione e produzione. Ma la maggior parte delle emissioni legate a petrolio e gas, almeno il 75% secondo le analisi, sono le Scope3, cioè quelle relative alla combustione e ai prodotti finali (carburanti e riscaldamenti i casi più noti).

Oppure si pensi all’accordo sulle rinnovabili, in cui si punta a triplicare la potenza installata degli impianti e a raddoppiare il tasso annuale di miglioramento dell’efficienza energetica (passando da un misero 2% a un altrettanto risibile 4%): teoricamente è un impegno positivo, a patto di non osservare, come invece ha fatto Andrea Barolini su Valori, che all’appello mancano i grandi Paesi produttori e consumatori di fonti fossili come Cina, Iran e Russia. Con queste premesse, che credibilità possono mai assumere stati e aziende di fronte agli incredibili effetti del riscaldamento globale?

Leggi anche: lo Speciale sulla Cop28

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