Nella gestione dei fanghi di depurazione manca ancora un approccio industriale di sistema e solo in specifici contesti in cui il ciclo di questo tipo di rifiuti può dirsi davvero “chiuso”. Questo gap di governance, che è anche (ma non solo) impiantistico, ha prodotto l’esplosione di uno spontaneismo normativo su scala regionale non sempre coerente con il quadro nazionale e con le esigenze di investimento.
L’ovvia conseguenza è stata l’immobilismo impiantistico e la conseguente messa su strada migliaia di tonnellate di fanghi alla ricerca di una collocazione, non sempre in linea con i principi della circolarità. Condizione ideale per il moltiplicarsi di pratiche illegali messe a segno da imprenditori senza scrupoli, lesti a usare terreni agricoli per far sparire (apparentemente) fanghi mai trattati e contaminati, quindi non in regola per il loro impiego agronomico. Vicende confermate, purtroppo, dalla sequela di inchieste chiuse in questi giorni in Lombardia, dopo quelle svolte in Toscana e in mezzo Nord. Identico l’epilogo: ettari di campi trasformati in discariche non autorizzate, dove si producono prodotti destinati alla nostra dieta mediterranea.
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I modelli virtuosi di gestione dei fanghi in Europa
Allargando lo sguardo a livello europeo, si possono intercettare, al contrario, modelli di gestioni pensati e studiati ad arte, che per ragioni di sintesi potrebbero rispondere ad almeno tre differenti scuole di pensiero, alle quali anche il nostro paese dovrebbe guardare con interesse.
Il modello della Svezia ha previsto la nascita di consorzi tra i gestori del servizio idrico e gli agricoltori per decidere se e a quali condizioni i fanghi prodotti dai primi possano o meno andare nei campi gestiti dai secondi. La gestione, dunque, è il frutto di una scelta condivisa tra produttore e consumatore perché l’accordo è tra parti che hanno lo stesso peso e perseguono interessi differenti ma complementari.
Il modello sposato dal Regno Unito si basa, invece, sul solito mantra del mercato libero e standardizzato, con la predisposizione di piattaforme di trading, sul modello del mercato dell’energia. Qui i singoli produttori fanno l’offerta, quotano il proprio prodotto con le specifiche qualitative e i potenziali acquirenti fanno la domanda, da cui deriva il prezzo, che consente (quasi sempre) di trovare un punto d’equilibrio.
Il modello dei Paesi Bassi ha previsto la nascita di una joint venture – Aquaminerals – tra tutti i gestori nazionali del servizio idrico quale strumento utile a collocare sul mercato sia i fanghi che i sottoprodotti derivati: nutrienti, fosforo, azoto e compost. L’offerta è calibrata rispetto alla domanda dei potenziali clienti e nulla è lasciato all’improvvisazione.
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Una strategia nazionale per risolvere il problema dei fanghi di depurazione
Dove sta il gap rispetto all’Italia? Sta, essenzialmente, nell’assenza di pianificazione e programmazione su scala nazionale e a cascata a livello regionale e sub regionale. La scelta tra la strada dell’inferno della discarica e l’ascesa verso il paradiso del recupero dipende da questi due elementi strategici, fondamentali per inserire i reflui nella catena del valore e in mercati efficienti.
I reflui possono provenire da attività industriali, zootecnia e in genere agroalimentare e proprio in quest’ultimo caso, il mercato non è dato solo da fattori esogeni (per esempio dalle dinamiche della domanda) ma soprattutto da fattori endogeni, che prima ancora che agire sull’offerta siano capaci di migliorare l’efficienza della filiera, generando sistema.
Il trade off capace di creare valore, insomma, non è dato esclusivamente dalle caratteristiche intrinseche al prodotto (i fanghi), ma piuttosto da quelle combinazioni di governance in grado di generarlo. Non essendo un prodotto di consumo e avendo molti competitor e diverse opzioni in ballo, in una logica di recupero il mercato va costruito scientemente a servizio dell’intero Paese, avendo sullo sfondo, come sanno bene gli economisti, anche i temibili fallimenti di mercato.
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Alcuni esempi di gestione dei fanghi in Italia
Qualche strumento sulla retta via c’è già. Il sistema tariffario regolato da ARERA oggi consentirebbe di chiudere il ciclo idrico contemplando anche la gestione dei fanghi. Condizionale d’obbligo, considerato che questi continuano a rimanere fuori dalla tariffa, scontando una grave carenza di programmazione. Anche laddove si pianificano investimenti nel settore, la gestione dei fanghi rimane un trascurabile dettaglio. È questa la principale ragione delle gestioni improvvisate e inefficienti sotto tutti i punti di vista, compreso quello ambientale. Mancando la governance complessiva, tutto il peggio arriva a cascata.
Attualmente, i campi agricoli sono stati l’unica alternativa comoda alla discarica, con i relativi pro e contro, principalmente quando i processi non sono pienamente controllati ed efficienti.
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Secondo l’Istituto Mario Negri lo spandimento dei fanghi in agricoltura potrebbe creare problemi di inquinamento dei suoli, delle falde acquifere e potenzialmente delle colture per consumo animale e umano riconducibili alla possibile presenza di composti organici nocivi, tra cui: inquinanti Organici Persistenti (POPs), interferenti endocrini, sostanze farmaceutiche, droghe d’abuso e metalli pesanti (arsenico, cadmio, cobalto, cromo, ferro, mercurio, etc.). Tale ragionamento riguarda anche i reflui urbani, considerando che possono collettare anche scarichi di insediamenti commerciali, artigianali e industriali (non solo di piccole dimensioni). Molti di questi inquinanti, infatti, tra cui i metalli e i composti organici liposolubili, si condensano nei fanghi con concentrazioni elevate in fase solida. Non a caso, in UE i limiti di concentrazioni di metalli pesanti per l’uso agricolo varia in maniera considerevole da Paese a Paese.
L’uso agricolo dei fanghi è comunque una pratica molto comune nei paesi UE, soprattutto in Portogallo (90%), Irlanda (85%), Regno Unito (80%), Lussemburgo (75%), Spagna (75%), Danimarca (60%), Bulgaria (55%), Francia (40%), Lettonia (35%), Lituania (35%), Italia (30-35%), Repubblica Ceca (30%), Germania (30%), Svezia (25%).
Considerato che la qualità finale dei fanghi deriva dalla qualità delle matrici d’ingresso, il ciclo idrico integrato alla gestione dei fanghi è la scelta migliore. Chiudere il ciclo significa eliminare “i viaggi della speranza “dei fanghi, aumentandone tracciabilità e trasparenza.
Nel nostro Paese, esistono già alcune eccezioni virtuose. In Emilia Romagna, Hera Ambiente Spa sta lavorando da tempo all’implementazione di un ciclo idrico integrato con la gestione e la valorizzazione dei fanghi prodotti, che prevede il monitoraggio e il controllo della filiera in ogni punto. Come ci racconta il Responsabile Valorizzazione Compost e Fanghi Pier Paolo Piccari Ricci, “con i nostri impianti stiamo recuperando complessivamente il 65% dei fanghi di depurazione prodotti dal Gruppo con l’obiettivo di raggiungere il 100% nei prossimi 2 anni, tracciando ogni singolo lotto dalla produzione alla destinazione finale”.
Monitorando l’intero ciclo l’azienda riesce a gestire la stessa qualità dei fanghi e il loro impiego in agricoltura, secondo il fabbisogno delle colture e dopo essere stati trasformati in fertilizzanti (gessi di defecazione e ammendanti compostati) come previsto e regolamentato dalla normativa nazionale e regionale. Ad oggi il compost prodotto viene donato alle aziende agricole, che provvedono solo a sostenere i costi per il loro impiego effettivo. Le due linee di trattamento e valorizzazione si trovano a Cervia e a Piacenza: nella prima transitano i fanghi che già rispettano i parametri di legge per essere utilizzati in agricoltura, quindi senza problemi di inquinanti, nella seconda invece si lavorano i fanghi che hanno bisogno di un trattamento aggiuntivo per abbattere sia gli inquinanti organici persistenti (POP) che le tracce di metalli pesanti.
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L’upgrading delle due linee, al momento in fase autorizzativa, consentirà di abbattere gli inquinati fino all’80%, ben oltre i limiti previsti dalla legge. Il principale prodotto finale è rappresentato dai gessi di defecazione, un correttivo al Ph del suolo, materiale considerato dalla norma di settore end of waste (quindi non-rifiuto). La gestione integrata del ciclo consente, dunque, di poter monitorare e controllare l’intero iter, decidendo, caso per caso, quali fanghi (di qualità) destinare all’uso agricolo e quali invece necessitano di un pre-trattamento per la produzione dei gessi. Non ci sono sorprese, il tipo di recupero dipende dalla qualità della matrice di ingresso e del processo avviato.
Nel Mezzogiorno, sulla stessa strada si pone Acquedotto Pugliese (ACQ), l’azienda pubblica interamente partecipata dalla Regione Puglia, che gestisce l’intero ciclo in Puglia e non solo, e che con i propri impianti tenta di governare il caos di una macro area ancora impantanata in un grave deficit impiantistico, sia sul fronte depurazione che su quello della gestione dei fanghi.
L’obiettivo che si è posto il management è stato principalmente quello di ridurre al massimo la quantità di fanghi prodotti, grazie a processi di disidratazione meccanica e l’impiego di centrifughe altamente performanti, la cui combinazione consente di innalzare le percentuali del secco dal 18 al 25%.
La spinta verso l’innovazione è l’asso nella manica dell’azienda. Sono numerosi i progetti in campo, anche con l’università di Bari e CNR, tesi a ridurre all’origine i quantitativi di fanghi, produrre compost di qualità e gessi di defecazione direttamente nell’impianto di depurazione. Provando a combinare il recupero della materia con quello dell’energia, “una parte dei fanghi – spiega la direttrice degli impianti Franca Portincasa –, va a digestione anaerobica per la produzione di biogas, mentre è in corso un progetto per produrre biometano anche con cogenerazione della frazione organica, sempre del rifiuto urbano (Forsu)”.
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Il problema dei fanghi di depurazione: che fare?
A livello nazionale manca una strategia chiara di gestione dei fanghi ma molti territori e imprese hanno di fatto già iniziato ad elaborare alcune soluzioni “spontanee”. Conclusioni? Urge definire una corretta programmazione e pianificazione a livello territoriale, con un occhio a cosa accade sul fronte della tecnologia e l’altro a cosa accade nei singoli territori, non solo in termini impiantistici. Serve un approccio pragmatico, che sappia valutare pro e contro delle singole opzioni, nella consapevolezza che non esiste risposta giusta senza la giusta contestualizzazione.
Il recupero di materia andrebbe integrato al recupero energetico attraverso la digestione anaerobica (dei fanghi insieme ad altri scarti organici), in modo da ottenere biogas e biocarburanti in sostituzione di fonti fossili. Il cambio di approccio dovrebbe considerare anche la mancata valorizzazione dell’acqua contenuta dai fanghi, che è pari all’80% e che solitamente finisce per essere scaricata in superficie mentre con adeguate condutture (allacciate agli stessi depuratori) potrebbe essere usata per scopi irrigui.
Rappresenta, infatti, un errore di sistema, quindi, concentrarsi solo sul restante 20% di secco da valorizzare, senza provvedere a recuperare anche la gran parte di acqua a disposizione, anche in virtù della fragilità di questa risorsa e delle ricorrenti fasi di siccità. Basti pensare che l’Italia destina a scopi irrigui circa il 60% dei circa 56 miliardi di metri cubi annui di acqua dolce consumata ed è al primo posto in Europa sia per i consumi di acqua per abitante, sia per la maggiore estensione agricola irrigata, pari a 4,5 milioni di ettari.
Altrettanto urgente è riuscire a colmare il gap di fiducia con le comunità, ancora troppo diffidenti verso ogni iniziativa impiantistica e spesso abbandonate alle scorrerie di demagoghi e imbonitori. Senza partecipazione, formazione e corretta informazione non si può andare molto lontano, come ci hanno confermato tutti gli attori consultati per questo lavoro.
Il tema dell’accettabilità sociale degli impianti di trattamento e valorizzazione, con il moltiplicarsi di proteste e una radicale ostilità verso ogni opzione impiantistica è un nodo da sciogliere immediatamente, da qui la necessità di predisporre forme di partecipazione pubblica da affiancare alla fase di programmazione.
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