In un momento in cui l’attualità geopolitica ci sta dolorosamente mostrando (semmai ce ne fosse stato bisogno) come materie prime ed energia possano diventare causa di conflittualità, ridurre lo sfruttamento delle materie prime diventa sempre più cruciale. Allungare la vita dei prodotti che utilizziamo è una delle chiavi per avviarci verso un futuro di minore dipendenza da fonti energetiche, materie prime e da chi le detiene.
In questo senso il movimento per il diritto alla riparazione si inserisce in un più ampio sforzo globale verso un’economia circolare. La Repair Association, un’associazione di categoria attiva negli USA come non profit dal 2013, è in prima linea in questa battaglia che coniuga le preoccupazioni ambientali con l’opposizione ai grandi monopoli industriali. Il gruppo è riuscito a portare il diritto alla riparazione nel dibattito nazionale.
Di questi risultati e del tanto lavoro che resta da fare abbiamo parlato con la direttrice Gay Gordon-Byrne, alla guida dell’associazione da 10 anni, dopo una lunga esperienza nell’ambito della fornitura e rivendita di apparecchiature usate per grandi utenti IT commerciali. Da sempre fanatica delle riparazioni per sua stessa ammissione, Gordon-Byrne ci ha raccontato la situazione negli USA e ci ha fatto i nomi dei cattivi.
Ci può raccontare cosa fa la Repair Association? Di cosa si occupa, quali sono le attività?
Dopo qualche tentativo in direzioni diverse, abbiamo deciso di concentrarci sullo sforzo di far approvare leggi statali che consentano al consumatore di rivolgersi a un tecnico di sua scelta per le riparazioni, come facciamo con le nostre auto. E l’ispirazione è venuta proprio dalle auto, perché nel 2012 lo Stato del Massachusetts ha approvato una legge [recentemente ampliata, come abbiamo raccontato su Economia Circolare, ndr] che stabilisce che i produttori debbano mettere a disposizione dei meccanici indipendenti componenti, attrezzi, diagrammi e parti meccaniche necessari per riparare le auto. È stato un buon punto di partenza e si è rivelato un ottimo modello. Abbiamo eliminato diverse cose specifiche all’ambito automobilistico, per rendere le nostre richieste più generiche, in modo che possano essere applicate a più settori e prodotti, ma il resto è letteralmente copiato da quella legge. Ed è il fondamento dell’associazione, che ha lo scopo di sostenere politiche, standard e norme che favoriscano la riparazione indipendente.
Perché lavorate a livello statale e non federale?
Perché sono gli stati ad avere potere legislativo sul diritto commerciale generale, non il governo federale. E questo l’ha capito anche l’industria automobilistica. Quando ti registri come azienda in uno stato, devi soddisfare i requisiti dello stato. Quindi gli stati hanno il potere letteralmente di dirti cosa devi fare come produttore per fare affari nel loro stato.
Quanti altri stati dell’Unione si sono dotati di legislazioni simili a quelle del Massachusetts?
Nessuno, il Massachusetts è l’unico che ha approvato una legge del genere. C’erano una dozzina di altri stati che stavano valutando leggi simili, ma l’industria automobilistica ha deciso di anticiparli arrivando a un accordo, un memorandum d’intesa, o MOU, ed è stato firmato dall’Auto Alliance, che includeva praticamente tutti i principali produttori ad eccezione di Tesla. Con quell’accordo l’industria automobilistica ha accettato lo standard della legge del Massachusetts, di fatto allargandolo a livello nazionale. E questo è diventato ufficiale a gennaio 2014.
Quindi nessun altro stato al momento ha una legislazione sul diritto alla riparazione, nemmeno in altri settori?
Ci sono alcuni stati che hanno degli statuti sulla disponibilità di componenti che è un elemento fondamentale del diritto alla riparazione: i consumatori devono avere accesso alle componenti necessarie per riparare i prodotti. Tra questi stati, il più importante è la California. Poi ci sono l’Indiana e il Rhode Island che hanno stabilito dei requisiti per quanto riguarda la disponibilità di componenti, ma mi sembra che i produttori li stiano ignorando. Non è così invece in California dove si stanno adeguando.
Allo stesso tempo, sembra che ultimamente il dibattito sul diritto alla riparazione si stia ampliando. Cosa pensa sia cambiato? Come mai sta succedendo adesso?
Devo darci un po’ di credito per questo [ride]. Abbiamo fatto di tutto per promuovere questo concetto. All’inizio non ci conosceva nessuno. È davvero grazie a gruppi come il nostro che il concetto si sta diffondendo. Noi che lavoriamo negli Stati Uniti e i vari gruppi attivi in Europa, in Australia, in Canada con cui collaboriamo. Non siamo solo noi, ma noi siamo sicuramente stati tra i primi e ci spetta un po’ di credito.
Nonostante quello che ci diceva sul controllo statale, sembra che anche a livello federale le questione stia attirando l’attenzione dei legislatori. Il presidente Biden ha addirittura twittato sull’argomento.
Beh, le parole non costano niente. E i politici parlano tanto [ride]. Quello che il governo federale può fare è poco, ma ci sono alcuni legislatori che stanno cercando di replicare a livello federale le proposte di legge che abbiamo presentato a livello statale. Praticamente quasi tutto ciò che abbiamo suggerito a livello statale è stato ora riproposto come disegno di legge federale. Ma la politica è pessima a livello statale e ancora peggio a livello federale. Mi sembra che a certi livelli non si segua la propria coscienza. Stiamo parlando di leggi di grande impatto. Quindi i legislatori cercano di assicurarsi di avere supporto, di avere le spalle coperte. Ed è quello su cui stiamo lavorando a livello federale: cercare di far sì che abbiano le spalle coperte. Un po’ alla volta stiamo imparando come funzionano queste cose e come portare a casa il risultato.
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Quali sono i settori nei quali ritiene che questo tipo di legislazione sia più urgente?
Ogni prodotto che contiene un chip corre esattamente lo stesso rischio di essere monopolizzato, dal tuo cellulare alla tua TV, gli elettrodomestici e tutto ciò che è collegato a una rete. E, sempre più, capita che i produttori mettano chip un po’ dovunque e in questo modo tolgono all’acquirente la possibilità di riparare i prodotti. Possono farlo e lo fanno. Perché mancano leggi che glielo impediscano. Non abbiamo alcuna regola che stabilisca: se vuoi vendermi qualcosa, devi prevedere che io possa ripararlo: io, non solamente tu che me lo vendi. Per questo, per esempio, sta crescendo il supporto da parte dell’industria agricola che con i trattori ha lo stesso problema che io posso avere con il mio cellulare. Siamo su una scala diversa, ma le pratiche sono le stesse. Se consideri il tuo cellulare e il tuo computer importanti per la tua vita quotidiana, allora è urgente ripararli quando si rompono. Pensiamo all’istruzione che oggi utilizza così tanto gli strumenti digitali. Soprattutto con l’istruzione in remoto, se non hai a quei materiali, non sei a scuola. Per l’istruzione quindi è urgente. Come lo è per l’assistenza sanitaria e questa è una grande battaglia. Gli ospedali dovrebbero essere in grado di riparare tutte le loro apparecchiature secondo direttive della Federal Drugs Administration, ma i produttori di macchinari si stanno adeguando molto lentamente e stanno cercando di opporsi a questa direttiva. È molto frustrante.
Se n’è parlato in relazione all’emergenza COVID. Si diceva che alcuni ospedali non erano in grado di riparare i respiratori proprio per questo motivo. Conferma?
È assolutamente vero. Il senatore Ron Wyden dall’Oregon aveva presentato una proposta di legge federale secondo cui, per tutta la durata della pandemia, i produttori sarebbero stati costretti a fornire materiali per la riparazione. Ma siamo ancora sotto pandemia e non è successo nulla, la legislazione non è andata da nessuna parte.
Facciamo il gioco dei buoni e cattivi. Può farci il nome di un’azienda virtuosa e di una che si comporta particolarmente male?
Beh, dico sempre che ogni settore ha la sua Apple [il gioco di parole evoca la proverbiale mela marcia, ndr]. Apple è il paradigma di quanto c’è di sbagliato nell’elettronica di consumo. E John Deere lo è per i macchinari pesanti, le attrezzature agricole e le macchine da lavoro in genere. Non è difficile individuare i cattivi, mentre i bravi ragazzi sono pochissimi: i cattivi superano i buoni, almeno dieci a uno [ride]. Stanno per uscire alcuni nostri studi in cui classifichiamo i prodotti sulla base della riparabilità. Parte di questo lavoro viene dalla Francia, dove hanno creato un indice di riparabilità. Si tratta di un documento molto interessante, perché per compilarlo onestamente i produttori devono divulgare alcune informazioni che preferirebbero non divulgare. Per assicurarsi un punteggio migliore, Samsung ha pubblicato in Francia un manuale che si erano rifiutati di pubblicare nel resto del mondo. Ora esiste, è pubblico, ma solo in francese. È abbastanza comico. Ma credo che la competizione sulla riparabilità, semmai ci arriveremo, dia potere al consumatore.
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Apple, che citava come paradigma negativo, ultimamente sembra voler cambiare rotta…
Di nuovo, le parole non costano niente…e non è ancora chiaro cosa stiano facendo, con che tempi e per quali componenti. Per ora, è positivo che abbiano fatto dei passi indietro rispetto alla precedente posizione del “non si può fare”. Credo che Microsoft stia facendo uno sforzo più significativo: si sono rimessi al tavolo di progettazione, hanno rielaborato i design di alcuni dei loro Chromebook più popolari e li hanno realizzati in modo da poter effettivamente togliere la batteria e aggiustarli, il che è un enorme passo avanti. Inoltre venderanno alcune componenti e attrezzi per la riparazione e lo faranno attraverso iFixit, perché non hanno una distribuzione propria. Al contrario Apple ha un’ampia distribuzione ma pochi fatti, mi sembra vogliano passare per verdi, senza esserlo realmente.
Anche in Europa le cose stanno iniziando a muoversi. Quali sono le differenze rispetto a quello che succede negli USA?
Penso che gli sforzi siano complementari. L’Europa ha un approccio molto più normativo. Il parlamento europeo ha votato a favore del diritto alla riparazione, ma non è ancora successo nulla. Qui, se avessimo il favore del Congresso, avremmo una legislazione implementata. L’approccio, quindi , è diverso. Una cosa positiva è che, poiché l’Europa è meno vincolata dall’influenza negativa della Silicon Valley, sta imponendo standard che rendono i prodotti più riparabili. E, siccome le aziende non vogliono dover avere due diverse linee di produzione per due diverse aree geografiche, possiamo aspettarci che gli standard che si riescono a imporre in Europa attraversino lo stagno e arrivino fino a noi. Ogni passo in avanti fatto in qualsiasi parte del mondo è un passo in avanti per tutti.
Qual è il ruolo del consumatore in tutto questo? Possiamo fare la differenza con le nostre scelte d’acquisto?
Al momento i consumatori non hanno alternative per evitare il problema. Al di là di un numero molto ridotto di prodotti, non ci sono alternative più riparabili. Ma c’è una cosa che i consumatori possono fare che ha un grande impatto: e non è votare, ma farsi sentire, scrivere o chiamare i propri funzionari eletti e chiedere che venga rispettato il diritto alla riparazione.
Come vede il futuro della sua associazione?
Voglio vincere e andare in pensione. Ma non voglio fermarmi finché non avremo ottenuto dei risultati concreti.
Pensa che le aziende cambieranno una volta per tutte?
No, sono troppo vecchia per credere che possa avvenire un cambiamento definitivo. Credo che dovranno essere sempre monitorate. Mi fa piacere vedere che ora ci sia attenzione anche da parte dei governi. Il fatto che questo non doveva succedere, non avremmo dovuto ritrovarci in questa situazione, perché teoricamente le leggi che ci proteggono esistono già e avremmo dovuto impedire a questi monopoli di diventare così forti. Se non cambiano le cose, ci avviamo verso un modello in cui non saremo mai più realmente proprietari delle cose che acquistiamo e saremo, di fatto, sposati con chi quelle cose ce le vende. E senza nemmeno un accordo prematrimoniale! [ride]
Temo, allora, che non andrà mai in pensione…
Per me è una missione e amo quello che faccio. Sono stanchissima ma mi sveglio tutti i giorni pronta ad andare avanti col lavoro e so che non sono sola. Il movimento si sta allargando, siamo tanti e motivati.
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