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Se scattassimo una foto alla guerra in Ucraina, a un anno dall’invasione russa, vedremo chiaramente quattro o cinque figure chiare sullo sfondo. La distruzione devastante, l’orrore dell’enorme quantità di vittime e dei feriti civili, il gioco al massacro dei militari, l’impossibilità di arrivare anche solo a un cessate il fuoco. Sarebbe il modo giusto per comprendere la guerra? No. Perché ogni fotografia è piatta, schiacciata sul momento. E questa sarebbe troppo simile ad altre fotografie scattate ad altre guerre. Sarebbe come una specie di immagine pubblicitaria, spettacolare o fumettistica. Non uno strumento per comprendere il presente, ma solo un modo per nasconderlo.
Questa fotografia, però, non sarebbe del tutto inutile, se volessimo vedere come porvi rimedio, per farla finire la guerra. Costituirebbe la base per analizzare cosa sta realmente succedendo. Prendendo una per una le angolazioni che la compongono, e cercando di dare loro la profondità che qualsiasi immagine della realtà storica e sociale ha, infatti, riusciremo finalmente a capire perché la guerra è un fenomeno complesso di prima grandezza, perché chiama in causa la società e la sua trasformazione.
Pensare alla guerra, in altre parole, ci obbliga a pensare alla società, dato che, esattamente come dovrebbe essere nel caso della politica, essa coinvolge l’insieme dell’organizzazione sociale. Solo che la prima (la guerra) ha una logica e una prospettiva diametralmente opposta dalla seconda (la politica). Senza profondità, e seguendo solo la logica manichea e riduttiva dell’aggressore e dell’aggredito e il presupposto che una guerra possa avere in sé qualsiasi forma di giustizia, non riusciremo a vedere davvero perché la politica si oppone alla guerra, ed è la sua unica alternativa. Non riusciremo a renderci conto che, parafrasando Hannah Arendt, il potere alla base della politica è altro da quello che fa nascere e prosperare una guerra.
Guardare con profondità alle immagini “superficiali” che costituiscono la fotografia della guerra in Ucraina, ci consente, in altre parole, di arrivare a capire quello che un sempre maggior numero di persone si sta chiedendo dopo un anno di barbarie: perché non si riesce ad arrivare a un negoziato? Com’è possibile giungere a un accordo tra le parti in campo che ponga fine a sofferenze e violenze su vasta scala, affermando allo stesso tempo degli accordi fondati sulla giustizia?
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Logica imperiale
Iniziamo allora la nostra analisi delle immagini che oggi compongono la fotografia della guerra. La distruzione devastante: perché ci troviamo di fronte a una distruzione così feroce? Perché a essere coinvolti nel conflitto sono una potenza militare e nucleare (la Russia) e uno schieramento di Paesi capitanati da una potenza militare e nucleare (gli Usa). L’Ucraina è il terreno di guerra su cui si intrecciano interessi geostrategici ed economici di almeno quattro potenze, oltre che dei rispettivi complessi industriali militari, oltre che altri interessi transnazionali di tipo criminale: la Russia, la Cina, gli Usa e l’Unione europea.
La logica con cui si muovono e agiscono questi macrosoggetti è quella dell’affermazione della potenza. Anche se lo fanno in modo diverso e non sempre lineare. La stessa logica che ha portato negli anni ’90 a mantenere in piedi la Nato nonostante la fine dell’Urss, e ad allargarla ad est, e che ha portato lo scorso anno la Russia a invadere l’Ucraina, non riconoscendole nessun diritto all’esistenza e all’autonomia. L’imperialismo militare russo e statunitense non bada a spese sociali o a “costi umani” pur di raggiungere il principale obiettivo geostrategico a cui puntano: affermarsi a discapito di quello che viene considerato il nemico. Tutto viene fatto in funzione del nemico, infatti. Lo scopo dichiarato è neutralizzarlo, prima ancora di sconfiggerlo sul campo.
Ma proprio questa strategia di guerra ne costituisce il presupposto imprescindibile. È guerra già in atto, prima che scoppi. Questa stessa logica sta guidando anche l’attuale fase di offensiva/controffensiva. E come sa bene anche il più distratto analista di cose di guerra, questo macabro ping pong può durare molto a lungo.
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La giustificazione della vendetta
La seconda immagine riguarda il massacro dei civili. E anche in questo caso la domanda è inevitabile: come mai ci troviamo di fronte all’ennesimo orrore di vittime e feriti civili? Perché ancora l’opinione pubblica non ha afferrato che, soprattutto nelle guerre contemporanee, vengono considerati degli attori in guerra. Parte della guerra. Non sono degli errori di calcolo, né vengono considerati in modo neutrale, sono piuttosto una parte del calcolo dell’orrore.
Generare morte e sofferenza serve a indebolire il nemico, oltre che a spargere terrore e dare prova di dominio. Come si può giustificare e legittimare tutto questo? Sia la Russia sia l’Ue assumono che esiste una “giustizia” in guerra, che la guerra possa essere giusta se svolta in un certo modo, e che possa portare a (ri)stabilire giustizia. Si sposa, coscientemente o incoscientemente, la teoria medievale della guerra giusta. Si fa leva sull’idea che vincendo militarmente si farà giustizia di tutte le vittime, le sofferenze, e i soprusi subiti da parte del nemico, per poi giustificare che essa si può realizzare solo, e inevitabilmente, producendo vittime, sofferenze e soprusi. In sostanza, si sostiene pubblicamente che la vendetta serve per fare giustizia.
Come nella retorica di molti film statunitensi che difendono l’idea che ci si possa fare giustizia da soli, malcelando una chiara equazione tra vendetta e giustizia. A questo serve rispolverare la teoria della guerra giusta anche in questa guerra, in fondo: confondere la vendetta e la giustizia; pensare che con la violenza si possa arrivare alla pace; sostenere che la guerra sia lo strumento per arrivare alla pace. Non importa che questo faccia a cazzotti con la logica e la ragionevolezza, o che possa generare mille dubbi anche ai meno avvezzi al ragionamento e a chi ha difficoltà a immaginare quale violenza estrema si infligga con la guerra, per generazioni.
Il sacrificio di vite umane è legittimato dalla giustezza dei modi in cui si uccide, si distrugge o si ferisce, e dalla giustizia dell’obiettivo e del risultato. Ma in realtà si tratta di un trompe l’oeil: la giustizia è solo un’idea che serve a mascherare la realtà della vendetta, a legittimarla. Ecco perché Simone Weil nel 1939, davanti al possibile precipizio della seconda guerra mondiale, ha esortato tutti a non ripetere la guerra di Troia. Cosa poi accaduta in proporzioni mai vissute dalla storia dell’umanità. Come ci viene mostrato in modo splendido e drammatico nell‘Iliade, infatti, a un certo punto di quella guerra il motivo che l‘aveva scatenata si perde, non è più importante per le parti che si combattono. Ciò che conta è proseguirla a tutti i costi, pur di arrivare alla vittoria che ristabilisca la giustizia. Generando la spirale infinita della vendetta e della rivalsa. La stessa che dalla fine della prima ci ha portati alla seconda guerra mondiale. La stessa che Fabrizio De André mette in musica con la sua “Disamistade”, riferendosi alle guerre di mafia che hanno devastato la società e la cultura italiana.
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L’unica difesa possibile
La terza immagine è l’aumento dei militari morti. Che fa scattare un ulteriore quesito: come mai si pensa che inviare le armi in Ucraina, e continuare a fare in modo che chi le usa, prima o poi, venga ucciso o ferito gravemente, è un aiuto per la Patria, composta proprio dagli ucraini morti o dalle famiglie e dagli amici a cui chi muore viene sottratto violentemente? Ecco una risposta senza se e senza ma: per lo stesso motivo per cui Putin sta mandando al macello migliaia di russi, obbligandoli a uccidere i loro “cugini” ucraini, richiamandoli al dovere di aiutare la Patria.
Perché, viene detto in entrambi i casi, è l’unico modo per difendersi. I primi dall’invasione russa e dal regime di Putin, e i secondi dall’accerchiamento della Nato e dai fantomatici nazisti al potere. Peccato che fino al 2022, e quindi a otto anni dall’inizio effettivo e reale della guerra in Ucraina, l’Ue continuava ad avere buone relazioni con la Russia, e non solo dal punto di vista economico. Peccato che anche la Russia di Putin in passato ha pensato di entrare nella Nato, e che l’ingresso dei Paesi baltici nell’Alleanza Atlantica consentirebbe già da tempo, in teoria, un devastante attacco alla Russia, oppure che i nazisti ucraini diventano un problema solo quando non ci sono più i presidenti filorussi, nonostante abbiano una posizione ultranazionalista e conservatrice molto vicina a quella sostenuta ideologicamente dallo stesso Putin.
Insomma, nell’orizzonte bellicista di chi sta mandando al massacro migliaia di militari, la difesa è in realtà un’aggressione preventiva, e non c’è modo di pensare la difesa come un insieme di strumenti e istituzioni nonviolente volte a non subire passivamente violenze da parte di terzi, e a depotenziare la spirale di violenza una volta che questa ha preso piede. L’idea che bisogna investire economicamente e politicamente nella costruzione di un esercito popolare nonviolento esclusivamente di difesa, è totalmente esclusa dalla famosa “anticamera del cervello” di chi sta facendo questa guerra.
A un’aggressione armata si può rispondere solo con un’aggressione armata, questo ci viene detto come un mantra mortifero. Il conflitto nonviolento non è contemplato. La disobbedienza popolare viene considerata una fantasia. Gli strumenti del diritto e della politica ritenuti inefficaci. E la valanga di soldati morti, ancora una volta, diventa una necessità storica. Al limite, un’incresciosa fatalità. Un sacrificio per la Patria, inevitabile. Ognuno per la propria, salvo poi mandare i più poveri e ignoranti a combattere. Oppure far leva sui professionisti della guerra, perché pagati profumatamente e ben formati ideologicamente. Nonostante questo sia conosciuto e risaputo, ci si ostina a continuare a ritenere che l’unica difesa possibile sia quella armata.
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Nessuna negoziazione senza politica democratica
Ultima immagine della fotografia: nessuna negoziazione all’orizzonte. Davanti a tutto questo, ancora ci si meraviglia se nell’attuale situazione non si riesca ad arrivare anche solo a un cessate il fuoco? A chi conviene che tutto resti com’è o che peggiori? Quali sono i presupposti per arrivare al negoziato?
Queste domande si incontrano subito con altre che nascono se guardiamo la fotografia nel suo insieme: dalla prospettiva bellicista, perché si dovrebbe pensare che il cessate il fuoco sia qualcosa di efficace, di utile o di giusto? La risposta sembra una sola a questo punto: per innescare la spirale che porterà al negoziato, c’è bisogno di cambiare logica. Bisogna fermare il processo di normalizzazione della guerra e di affermazione di una cultura popolare militaresca, nel nostro come in tutti i Paesi coinvolti, così da scongiurare un approfondimento e un’estensione della guerra, la cui probabilità aumenta con l’aumento del pericolo nucleare.
Ma come si può fare? Non bisogna guardare lontano per avere una risposta. Basta guardare quello che ancora resta della nostra eredità politica e democratica: usando la politica in modo democratico. Ma cosa significa esattamente? Che una certa normatività deve entrare negli strumenti di de-escalation, sin da subito. Per esempio se si manderanno dei messaggi di distensione e apertura nei confronti dell’avversario, invece di continuare a minacciarlo e disprezzarlo. Nel costruire le condizioni affinché la pace “convenga”, anche a livello economico. Nel rafforzare la disobbedienza civile alla guerra, in tutte le sue forme, in tutti i Paesi coinvolti. Nel sostenere la resistenza russa al governo di Putin così come nel creare alleanze con i partner della Russia per trovare delle soluzioni trasversali, e, nello stesso tempo, con lo smettere progressivamente di mandare le armi in Ucraina (al contrario di quanto sta avvenendo). Oppure nel rivendicare di dare un ruolo centrale all’Onu e al diritto internazionale. Solo per ricordare alcune delle proposte che, nell’ultimo anno, abbiamo fatto su questo giornale per arricchire il dibattito italiano sulla guerra, e sperare di condizionare una classe politica che si è rivelata (senza grandi sorprese) del tutto sorda alle richieste pacifiste che provengono dalla maggioranza degli italiani. Tutto questo è impossibile e impraticabile se non si esce dalla logica, dalla finalità e dalla prospettiva militare e si ritorna a fare appello all’orizzonte politico e democratico.
Purtroppo, però, questo richiede degli sforzi importanti, e risulta quasi impossibile a prima vista, dato che il nostro continente è attraverso da una più che decennale crisi della politica ed è avvinghiato da un’altrettanta decennale condizione post-democratica, ormai sempre più evidente e pericolosa (basti pensare all’astensionismo delle ultime elezioni regionali). Eppure è solo con il ritorno di una logica, di una finalità, di una prospettiva e di un’organizzazione politica e democratica che saremo in grado di far finire questa guerra senza che essa diventi il presupposto per un’ulteriore guerra o la condizione per un’ulteriore, futura, catastrofe umana e politica.
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Il bivio ancora possibile
Nonostante l’attuale regresso politico, democratico e pacifista in Europa, nel vecchio continente abbiamo quindi ancora delle risorse vitali e fondamentali per poter avviare questo difficile processo, per permettere che si arrivi a un negoziato che getti le basi per affermare la pace positiva (intesa come giustizia democratica). Perché, da una prospettiva non bellicista, è la pace ad essere la vera giustizia. E la giustizia a essere vista, voluta e vissuta, come l’unica garanzia per la pace. Come ci insegnano diversi filosofi della politica, dall’antichità sino a John Rawls, la giustizia può essere considerata in modo molto diverso. Anche chi crede nella guerra, afferma, a suo modo, di volere la pace e la giustizia, non bisogna mai dimenticarlo. Insomma, qual è la giustizia per chi vede nella politica uno strumento alternativo alla guerra e le riconosce un vincolo intimo con il fare democratico?
Se ci fermiamo a riflettere su come sono nate le democrazie del secondo dopoguerra, anche sulla base del riferimento ai diritti umani e alla nascita dell’Onu, una risposta si fa strada con una certa insistenza. Ce la ricorda la triade moderna della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità. Se prendiamo i tre valori contemporaneamente, e come principi imprescindibili per l’orientamento della politica e della democrazia (come in parte già avviene nelle democrazie liberali e costituzionali), allora cominceremo a vedere la luce oltre il tunnel. Cosa significa? Che questi principi devono guidare non solo le nostre istituzioni, ma anche il modo in cui le democrazie agiscono tutti i tipi di conflitti, interni e internazionali. Pena la negazione attiva di questi principi fondativi, e la fine completa dell’esperienza democratica.
In altre parole, non possiamo rapportarci con il nostro “nemico” senza riconoscergli la libertà di fare diversamente da noi, l’eguaglianza nella relazione con noi, e considerandolo in modo fraterno o solidale. Anche quando commette violenza e ingiustizia. Certo, fare questo davanti alla barbara pretesa di negazione, come quella del governo russo, non è facile. E non significa porgere l’altra guancia. Significa tutelare quello che siamo e quello che vogliamo trasformare. Significa essere agenti attivi dell’emancipazione russa, nel conflitto e nel dialogo. Anche se questo, ovviamente, richiede molta abilità, per non cedere davanti a violazioni continue nei nostri confronti e degli ucraini di quegli stessi principi, e anche se prevede che si continui a fare conflitto contro le violenze, le aggressioni e tutto l’arco di violazione che la Russia di Putin continuerà a commettere. Significa fare conflitto nonviolento diretto e indiretto, e aiutare con tutti gli strumenti che abbiamo la resistenza nonviolenta ucraina, russa e bielorussa, pur mantenendo aperta una comunicazione e un dialogo, volto a far finire la guerra e a instaurare una pace positiva. Modulare forme di riconoscimento e dialogo, e allo stesso tempo fare conflitto, non è in contraddizione: queste prospettive non si negano reciprocamente. Come invece accade quando agiamo in modo violento e mossi da una logica e da una strategia militare e pretendiamo di sviluppare un dialogo sostenibile e alla pari con il “nemico”.
Differenza tra conflitto e violenza
Parafrasando il filosofo critico tedesco Axel Honneth, potremmo affermare che, in una condizione di mancanza di libertà, eguaglianza e rispetto attivo e solidale della nostra reciproca e comune interdipendenza, il conflitto è necessario. Ma il conflitto e la violenza sono due realtà ben distinte. Imporre questi principi con la violenza, in altre parole, significa entrare in contraddizione profonda, violarli e manipolarli. Come si può, infatti, imporre con la violenza la libertà? Com’è possibile essere liberi se l’altro cova rabbia, rancore e vendetta nei nostri confronti? Come si può pretendere che si rispetti la nostra eguaglianza se quello che consideriamo nostro “nemico”, lo trattiamo di fatto come inferiore, in quanto criminale? Com’è possibile che l’altro ci riconosca come eguali, se non facciamo lo stesso? Com’è possibile richiamarsi alla fraternità (o, meglio, alla solidarietà attiva), pretendere che venga rispettata o attivamente praticarla verso il nostro “nemico”, con i fucili e i cannoni? I nostri fucili sono solidali e quelli del nemico no?
Così come nessuno dei “principi fondanti” la politica democratica ereditata dalla modernità può essere preso in modo isolato (come purtroppo è stato fatto spesso in passato), allo stesso modo non si può affermare la triade con qualsiasi forma o strumento violento, e men che meno in guerra (come sembra avvenire ancora in questa circostanza). È questa la nostra risorsa normativa ed epistemologica più preziosa, soprattutto in una situazione di guerra. Non attingervi sarebbe commettere un’ingiustizia altrettanto grave di chi vuole fare rispettare la democrazia con le bombe.
In sostanza, se a parole vogliamo che la Russia si comporti in modo democratico, che è l’unico modo in cui noi accetteremo una pace giusta, allora nei fatti, e non solo di principio, dobbiamo trattarla come di fatto non è ancora: democratica. Può sembrare, a un primo sguardo, qualcosa di paradossale. E forse in parte lo è. Ed è sicuramente molto complicato. Richiede molta capacità creativa, come ci ricorda il metodo transcend di Johan Galtung. Ma non possiamo rivendicare che chi non è democratico si comporti come tale se noi stessi non iniziamo a trattarlo come tale. Per passare dall’escalation alla de/escalation possiamo, e dobbiamo, attingere alla triade fondativa, immediatamente. Solo in questo modo passeremo davvero dalla logica militare a quella politica. E sanciremo che la politica, per esistere, deve essere democratica.
Aiutandoci allo stesso tempo ad affrontare la regressione epocale di politica e democrazia, di cui non si parla come si dovrebbe. Sempre che questo è quello a cui miriamo, che valorizziamo e che ci interessa. Per arrivare a comprenderlo, ancora una volta, bisogna abbandonare la propaganda di guerra e va sviluppato un pensiero divergente, altrimenti non riusciremo a rispettare la politica come strumento collettivo per organizzare la società e la sua organizzazione del potere, e la trasformeremo in un volano volto alla sua auto/distruzione, tutte incline all’affermazione di una qualche e nuova forma di dominio.
Rinnovare la democrazia per una pace giusta
Anche se quanto appena chiarito richiederebbe una lunga riflessione, in questa sede credo che quanto scritto sia comprensibile, anche solo grazie a questa argomentazione minima e all’intuizione di cui ognuno di noi è capace. Ma meglio essere chiari fino in fondo: si sta sostenendo che la politica e la democrazia si nutrono della triade rivoluzionaria che oggi ci consente di vedere davvero in cosa consiste una pace giusta: una condizione collettiva a cui si arriva riaffermando questi tre principi normativi in modo fattuale, concreto, istituzionale, e conflittuale. In un processo di de/escalation tutto ancora da costruire, che dalla prima tregua dovrà portare alla negoziazione e poi agli accordi di pace. Ecco perché, in questo senso, politica e democrazia sono alternative alla guerra, ed estranee alla logica che dal 2014 muove le fila dell’orrore ucraino. Ad oggi senza fine, se guardiamo in prospettiva.
Dopo un anno di intossicazione mediatica bellicista, quindi, sembra alquanto vitale aver individuato il portato normativo di una possibile alternativa politica da costruire nel presente, per il nostro futuro comune. Rinnovare la democrazia e rigenerare la politica attraverso il riferimento centrale al rispetto della triade rivoluzionaria, facendole così entrare con forza nel processo di de/escalation che non a caso si deve ancora avviare, e farlo in ogni modo possibile, è la strada maestra da costruire. L’altra possibilità che abbiamo è sotto gli occhi di tutti: continuare a ritenere che la guerra finirà solo con la vittoria militare del più forte, svegliandoci un bel giorno in uno Stato autoritario che nulla avrà da invidiare all’autocrazia putiniana che ci muove alla guerra. Per imboccare la prima strada, che potrebbe portarci finalmente a far diventare la guerra un tabù politico/democratico, c’è bisogno che ognuno faccia la sua parte, nella posizione che occupa nella società (nelle istituzioni civili, politiche e militari), e in tutti i modi che ha a disposizione.
L’altra strada già imboccata è un vicolo cieco: se qualche altro potere importante non interverrà per deviarne il percorso, ci potrà essere solo la morte definitiva della politica, la barbarie sociale e la reale catastrofe nucleare. A occhio e croce, meglio che questo potere sia il frutto della politica democratica piuttosto che il portato di qualche altra forma di dominio o compromesso insostenibile per le tutte parti coinvolte. Meglio che sia un potere nonviolento.
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