Oggi parlare di piccoli paesi italiani è una tendenza. L’attenzione mediatica su borghi, località di provincia e rurali consegna servizi televisivi e articoli sulla fuga dalle grandi città verso ruderi, campagne e abitazioni costruite nella roccia. I paesi sono un trend topic, sono spesso raccontanti in serie, “per cliché, posti dove fare l’esperienza della vigna e della mietitura, sono diventati pacchetti turistici da vendere”. Anna Rizzo, antropologa culturale, analizza questa crisi narrativa nelle prime pagine del suo saggio I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, in libreria dal mese scorso per i tipi de Il Saggiatore.
Anna Rizzo si occupa di paesi da più di dieci anni, studia i piccoli insediamenti, le aree rurali e le aree interne, ha svolto ricerche a Riace, in Cilento e a Frattura di Scanno, frazione del comune abruzzese dove vivono pochissimi abitanti e dove è presente un’antica forma di pastorizia. È qui, negli insediamenti di Frattura, attraverso missioni sul campo, raccolta di dati e di storie sulle trasformazioni economiche della Valle del Sagittario che Anna Rizzo decide di concentrare i suoi studi. La frazione di Frattura ha due insediamenti: uno, quello antico, distrutto dal terremoto della Marsica del 1915; e poi c’è Frattura nuova, costruita a un chilometro di distanza seguendo l’edilizia rurale fascista.
Cosa manca in questi posti? Come si vive? Che tipo di legami esistono? Sono domande che l’antropologa ha indagato vivendo con la comunità, al di là di resoconti accademici, convegni e pubblicazioni. Nelle persone rimaste a vivere posti come Frattura, nelle condizioni di vita degli abitanti, nei loro saperi, Anna Rizzo ha individuato dei nuclei di ricerca da sviluppare. Lo ha fatto nel 2010, un anno dopo il terremoto dell’Aquila.
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Nel suo libro lei segna il 2009 come un anno spartiacque: è in quel momento che i media puntano i riflettori sull’Italia dei paesi. Perché?
Il 2009 è veramente un anno spartiacque. Il tema delle aree interne e dei borghi, che abbiamo visto esplodere durante gli anni della pandemia, comincia dopo il terremoto dell’Aquila con l’hashtag #terremotocentroitalia. In quel momento nascono comitati, c’è molto protagonismo cittadino, ci sono nuove energie associative. Negli anni del dopo sisma assistiamo a un interesse per queste zone e per le istanze legate alla ricostruzione. Le mie ricerche all’inizio erano legate all’archeologia, soprattutto con la missione Fluturnum, Archeologia e Antropologia nell’Alta Valle del Sagittario. Ho iniziato a occuparmi di aree interne durante queste missioni. Nel 2010 a parlare di entroterra e delle aree interne erano per lo più ambientalisti, forestali e direttori di parchi naturali e archeologici. Dieci anni di lavoro a Frattura mi hanno offerto la possibilità di raccogliere dati significativi, di capire che di questi paesi non bisogna parlare per metafore. Gli studi delle epoche passate fanno capire le ragioni di chi resta ma anche di chi se n’è andato. Se ci approcciamo con metodo, rigore e rispetto in molte zone interne non dobbiamo parlare di coraggio, ma di servizi di base, di diritti. Dal 2010 in poi nelle mie ricerche e nei miei articoli ho sottolineato e dato attenzione alle mancanze, alle diseguaglianze, all’isolamento sanitario, all’intermittenza dei servizi.
Cosa manca nei paesi?
In molti paesi spesso il medico non sale, non fa ambulatorio. Ci sono molti anziani che non possono usufruire delle prestazioni sanitarie. Durante gli ultimi due anni siamo stati raggiunti da una narrazione su queste aree che non contiene dati, studi e riferimenti. Prima di tutto non ci sono studi aggiornati su cosa siano i paesi oggi. Si parla di ritorno in queste aree facendole diventare un unico soggetto, quando in realtà le aree interne sono territori compositi e diversi. Si parla di alcuni luoghi come presidi di innovazione, mentre scompaiono le comunità locali e i loro bisogni vengono allontanati dal racconto. In questo modo chi vive questi territori rischia di subire il cambiamento, l’innovazione. Parliamo in molti casi di contesti isolati dove se l’ambulanza arriva dopo un’ora si rischia di morire. Ci sono dei luoghi in cui la scuola più vicina si trova a 50 chilometri, in cui non ci sono scuole superiori. Non sarà un albergo diffuso o una spa di lusso a salvare i paesi. Credo che i servizi di base non siano negoziabili, né tantomeno possano essere legati alla logica dei bandi, dell’innovazione e dell’eccellenza.
Nel saggio c’è un altro hashtag con una parola molto utilizzata quando parliamo di borghi, paesi e aree interne: #Resilienza. Nel libro c’è scritto che questa parola “infesta il dibattito sui borghi”. Perché?
La parola resilienza genera confusione, viene utilizzata per ogni tipo di progetto sulle aree interne. Si parla della capacità rigenerativa di queste aree, del loro essere resilienti ai traumi. In questo modo si allontanano le possibilità di denunciare mancanze gravi, miserie e criticità. Perché si sta dando valore ai paesini? Perché alcuni contesti spopolati hanno avuto attenzione? Le risposte probabilmente stanno nel tentativo di poterli trasformare in una fonte di guadagno servendosi delle case vuote, delle residenze estive, del paesaggio, dell’incontaminato. E quelle mancanze di cui parlavamo, compresi i servizi di base, sono colmate dal welfare familiare. A farsi carico delle cure e dell’assistenza agli anziani, degli spostamenti per raggiungere un ospedale, il medico o la posta, sono spesso le donne. In alcuni contesti, in alcuni paesi è difficile anche fare psicoterapia, è difficile spezzare subalternità vissute in famiglia. A volte è complicato andare dallo psicologo, a volte si va in terapia soltanto quando si è molto lontani da casa.
Il libro contiene molti riferimenti al lavoro sul campo, alle comunità e anche ad alcune persone conosciute vivendo nei paesi scelti come nucleo di ricerca. È un’antropologia collaborativa, un lavoro che esige dialogo costante, interviste, scambi di sguardi e di voci con gli abitanti. Nel saggio si mette in guardia il lettore da alcune visioni e approcci che puntano al rilancio dell’economia dei piccoli centri. In molti progetti di riattivazione dei borghi, ad esempio, si parla spesso di community organizing, di facilitatori. Si parla delle comunità, ma gli innovatori parlano con le comunità?
Molte progettazioni nascono per il rilancio economico e turistico, ma il marketing territoriale e alcuni progetti pensati per riattivare le comunità finiscono per far del bene soltanto a chi li presenta. Bisogna studiare, conoscere e poi raccontare. Gli articoli e webinar del 2020 e del 2021, le narrazioni sui borghi durante la pandemia raccontando il trasferimento delle vite dei cittadini nei piccoli centri hanno prodotto immagini falsate. Questo fenomeno non c’è: i rilevamenti e i lavori sul campo dicono altro. Molte di questi progetti consegnano convegni, targhe o pacchetti d’esperienza ma non danno strumenti economici e finanziari alle popolazioni. C’è l’idea di fondo che la comunità non sia presentabile, e quindi si parla e si scrive per loro. La presunzione impedisce di interloquire e di collaborare con i paesani.
Con il Pnrr l’attenzione sulle aree interne si è trasformata in programmi di finanziamento, tra tutti il Bando Borghi. Negli anni passati sono nate anche percorsi specifici sui territori montani, sono state individuate aree in ogni regione e delle strategie. Come possiamo considerare queste operazioni politiche?
La corsa ai fondi e alle risorse finanziarie di questi bandi porta con sé il rischio di una grande speculazione. Con la sfida del riabitare e del ripopolare assisteremo a un atteggiamento predatorio e di dimostrazione di potere. Le strategie sono fallite perché sono state autoreferenziali, perché non hanno avuto interazione con le comunità locali. Hanno seguito le ambizioni politiche di alcuni amministratori e hanno tradito le comunità. Con queste operazioni si continuerà a parlare di costruire infrastrutture senza mettere al centro i diritti, i servizi alla persona e la medicina territoriale.
In “I paesi invisibili” si parla anche di economia circolare. È realtà nei piccoli centri?
I paesi portano avanti da sempre pratiche e saperi di circolarità. Ci sono anche storie di giovani imprenditrici che fanno ricerche storiche e territoriali, come nel caso di Lamantera, progetto di recupero della lana delle tosature delle pecore che pascolano ad Anversa degli Abruzzi. Una volta recuperata la lana sarà utilizzata per realizzare abbigliamento e prodotti legati al mondo della transumanza. Ci sono esperienze che ristabiliscono legami produttivi, storici e di comunità. Per esempio, Monte Frumentario ad Atena Lucana, in Cilento, dove una cooperativa sociale recupera grani antichi locali, assicura formazione e ricerca sulla coltivazione delle varietà del grano. È una storia di recupero di una filiera produttiva in cui c’è una considerazione per il valore immateriale e alle funzioni civili dei forni delle abitazioni delle case di Atena Lucana. Nei paesi ci sono delle pratiche informali e consuetudinarie legate all’approvvigionamento delle risorse idriche, al recupero delle acque piovane, alle materie prime; tutte pratiche circolari. Il rischio che si corre è quello di un’appropriazione culturale di queste pratiche, un ulteriore impoverimento delle reti sociali delle comunità.
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