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sabato, Gennaio 25, 2025

Sostenibili e felici? Si può. Stefano Bartolini: “Ricostruire le comunità per stare subito meglio”

Stefano Bartolini, economista attento alle tematiche sociali, ha analizzato gli effetti deleteri che le società neoliberiste hanno sulla felicità dei cittadini, e non ha dubbi: è possibile invertire la rotta, prendendoci cura non solo dell’ambiente, ma anche delle relazioni umane e dei beni comuni

Lilly Cacace
Lilly Cacace
Si occupa di Educazione ambientale da più di venticinque anni per varie associazioni. Dal 2016, progetta e coordina “Nettuno va a scuola”, innovativo progetto di educazione alla sostenibilità e alla cittadinanza attiva. Autrice del libro “Storie di amicizia tra persone e piante”. Laureata in Filosofia, scrive sul blog Ecofelicità e In/postazione...mobile e per Sapereambiente e Kaire. È curatrice e autrice, con altri, di “Cittadini del Presente”, testo scolastico di Educazione civica. Dal 2021 è tutor in un corso di giornalismo ambientale e culturale per Sapereambiente.

Stefano Bartolini insegna Economia politica ed Economia della felicità all’Università di Siena, e da anni studia il tema del raggiungimento della felicità nelle società avanzate. Ha pubblicato numerosi saggi per vari editori e sulle più prestigiose riviste internazionali. Il suo Manifesto per la felicità, pubblicato da Feltrinelli, è un long seller. In uno dei suoi libri più recenti, Ecologia della Felicità (Aboca, 2021) offre un’interessante prospettiva sulla possibilità di essere, insieme, sostenibili e felici.

Professor Bartolini, per la maggior parte delle persone i termini “ecologia” e “felicità” non sembrano andare molto d’accordo. Ma a quanto pare non è così…

Sono oltre vent’anni che indago il rapporto fra economia e felicità, e studiando quali sono le cose che rendono la gente felice, è venuto fuori un importante ruolo dell’ecologia. C’è molta gente, anche fra chi si occupa di ecologia, che pensa che per essere sostenibili dovremmo vivere peggio, avere di meno, fare delle rinunce in nome delle generazioni future e della salute del pianeta. Un’idea che appare inaccettabile in un mondo dominato dall’ansia della ricchezza e del possesso. In realtà i nostri studi hanno dimostrato che ciò che rende le persone felici non è possedere, ma condividere. I soldi hanno un impatto sulla felicità solo quando non si riesce ad arrivare a fine mese. Quando in una società si è raggiunto, per la maggior parte della popolazione, un buono standard di vita materiale, la strada della felicità non è nella crescita economica, ma nella condivisione e nello sviluppo delle relazioni, cose che oltre a regalare maggior benessere, riducono significativamente l’impatto sull’ambiente.

Che cos’è la crescita difensiva?

Quando i beni comuni declinano e si degradano, servono più soldi per compensare il disagio che nasce dal degrado. Se la città dove lei vive diventa pericolosa e non si può più uscire di sera, incontrarsi con gli amici, lei cosa fa per trascorrere piacevolmente le serate? Acquista quelle apparecchiature che vanno sotto il nome di home entertainment, e così facendo fa crescere la produzione di queste apparecchiature. Ma mentre la città vivibile e la compagnia degli amici sono gratis, l’home entertainment non lo è. Il degrado del tessuto sociale dei quartieri, dove in passato ci si prendeva cura l’uno dell’altro, ha portato ad avere bisogno di badanti, RSA, baby sitter, ludoteche, e a comprare più giocattoli. Tutte cose che non sono gratis, per ottenere le quali bisogna guadagnare di più e quindi lavorare di più. Questo fa crescere l’economia, fa aumentare il PIL, ma non migliora la qualità della vita, perché mentre si diventa più ricchi di beni privati si diventa molto più poveri di beni comuni. Inoltre, la crescita così ottenuta è comunque assai modesta. Sono ormai quarant’anni che il PIL cresce pochissimo. Se invece di puntare sul possesso di beni puntiamo sulla loro condivisione, saremo anche più sostenibili, perché un sistema basato sulla crescita difensiva è ecologicamente insostenibile.

A questo stato di cose viene spesso data una risposta pericolosa: il nazionalismo.

Viviamo in una società ipercompetitiva. La globalizzazione, che apparentemente offre a ciascuno “un mondo di opportunità”, in realtà ci fa sentire esposti a una competizione globale. Il nazionalismo ti dice che non sei solo, che c’è una nazione intera che ti protegge. Ma è un progetto irrealistico, che richiede uno straordinario impiego di forze di polizia per difenderci, per esempio, dai migranti che vedono nell’Europa l’unica isola di prosperità in un mondo che affonda. Abbiamo bisogno di un progetto diverso, che dia una risposta progressista alle ansie della gente. L’ecologia della felicità è sostanzialmente la ricostruzione delle comunità, della rete di relazioni che rende le persone più solide e rende meno necessaria la competizione.

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Nel suo libro Ecologia della Felicità, lei descrive due città immaginarie: Privatopoli e Collaborandia, che all’anno zero sono uguali. Situate in riva al mare e costruite su tre livelli, un giorno le due città sono colpite da una crisi ecologica, con innalzamento del livello del mare, invasione di rifiuti e così via. Ma reagiscono in modo diverso.

A Privatopoli la gente non si fida della politica, non è abituata a collaborare per gestire i beni comuni e per risolvere problemi. Di fronte alla crisi, tutti penseranno a guadagnare di più per potersi permettere un alloggio nella parte alta della città, nei quartieri dei ricchi. Aumentano le disuguaglianze sociali e la competitività. Si lavora sempre di più, c’è più stress, l’ambiente e le risorse vengono danneggiati sempre più. A Collaborandia i cittadini si riuniscono ed elaborano insieme un piano per superare l’emergenza: energie rinnovabili, riciclo dei rifiuti, mobilità sostenibile, riduzione degli orari di lavoro…questo porterà le due città a diventare molto diverse fra loro, e non è difficile immaginare in quale delle due si starà meglio.

Professore, viviamo a Privatopoli?

Eh sì, ma possiamo cambiare. Il dilemma dell’economia novecentesca è stato: “ci vuole più Stato o più mercato?”, cioè l’economia va lasciata libera perché produca ricchezza, o bisogna regolamentarla per garantire i diritti di tutti? La verità è che oggi occorrono meno Stato e meno mercato, più società e soprattutto più comunità.

Le cose stanno cambiando, la crescita decelera. Ma per riuscire ad arrivare al 2050 con un pianeta vivibile, c’è bisogno dell’impegno attivo dei cittadini. Ce la faremo, come direbbe Letizia Palmisano, a salvare il pianeta “prima che sparisca il cioccolato”?

Ce la faremo se assumiamo un atteggiamento non catastrofista. La verità è che la gente è ben informata sui problemi ecologici e sui rischi che si corrono, ma se poi gli prospettiamo come soluzione una serie di rinunce da attuare nel presente, nella speranza di un futuro migliore, rischiamo di trasmettere un messaggio paralizzante. Dobbiamo invece fargli capire che, riattivando le reti di relazioni, ricostruendo le comunità, incrementando e promuovendo la gestione dei beni comuni, staranno meglio da subito.

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