“Dopo il terremoto del 2016 ho avuto due pensieri fissi, da una parte percepivo la ferita e il dolore, dall’altra sentivo l’entusiasmo dell’ondata di attivismo che spingeva a tornare nelle zone del cratere. Ho scelto di tornare e di studiare le forme di organizzazione che riescono a fare impresa in Appennino, ripensando anche il mio modo di vivere le mie zone e il lavoro di progettazione”.
Dopo un’esperienza di cooperazione con il Sudest europeo e dopo anni di progettazione in ufficio a Bologna, Annalisa Spalazzi decide di tornare in Centro Italia. Il terremoto è stato uno spartiacque, una cesura personale e collettiva. È così per molti giovani delle Marche, che hanno messo in discussione alcuni percorsi formativi e professionali per immaginare qualcos’altro, partendo da casa.
Dottoranda in Regional Science and Economic Geography del Gran Sasso Science Institute (GSSI), tra le coordinatrici di IT.A.CA, festival del turismo responsabile, Annalisa Spalazzi, originaria della provincia di Ascoli, ha deciso di intrecciare le sue ricerche accademiche con l’attivismo di base in Appennino. Cosa ha unito il percorso accademico con quello da attivista?
Mi sono sempre occupata di territori marginali come europrogettista, nello specifico su temi ambientali e sociali. Ma andando avanti mi sono accorta che era proprio la dimensione territoriale a mancare, perché il tempo per indagarla era molto poco. Ho lasciato Bologna e il lavoro in ambito europeo, anche come conseguenza del terremoto del 2016. Sono tra quelle persone andate via per per vedere altro e per opportunità, però dopo il sisma ho scelto di riconsiderare il Centro Italia. Le tante persone incontrate dopo il terremoto, l’impegno di chi era rimasto e di chi stava tornando mi hanno fatto ripensare le mie attività di ricerca e di lavoro. Così mi sono candidata al dottorato in Regional Science del Gran Sasso Institute a L’Aquila. Come tema ho proposto sin da subito il ruolo delle comunità che fanno impresa di territorio, soprattutto centri piccoli e medi in zone considerate marginali. Questi temi mi hanno portato a seguire anche organizzazioni come Appennino Lab e progetti nati dal basso, tipo Il cammino nelle terre mutate.
LEGGI IL NOSTRO SPECIALE AREE INTERNE
Cos’è Il cammino nelle terre mutate?
Il progetto nasce originariamente come marcia solidale per l’Aquila nel 2012, poi dopo il sisma del 2016 si è strutturato un cammino e come qualcosa di stabile per le comunità. L’idea nasce da tre associazioni romane: FederTrek, Movimento Tellurico e Ape Roma (Associazione proletari escursionisti). Ho conosciuto il progetto a Ussita con le iniziative di Casa – Cosa accade se abitiamo. Mi sono appassionata al progetto, come esperimento di turismo lento che unisce idealmente le terre ferite dal terremoto, facendole scoprire a chi le attraversa, mettendo in connessione camminatori e abitanti. Le comunità locali hanno risposto bene a questo progetto, perché fa transitare persone differenti in tanti comuni, creando anche una sorta di osservatorio dal basso sulla ricostruzione. Indicare queste zone come mutate indica una possibilità; ti sta dicendo che esistono capacità trasformative. Ora sto cercando di collaborare al progetto provando a capire come dare continuità al cammino, come sostenere le microeconomie, le aziende lungo il cammino e come consegnare le competenze alle comunità locali. L’idea di fondo la trovo interessante, perché camminare diventa un atto politico. Diventa anche un modo per contrastare la percezione di essere soltanto un territorio vittima di qualcosa.
Leggi anche: Partire o restare? Uno studio indaga la scelta dei giovani delle aree interne
Il lavoro accademico e il sostegno alle comunità tramite la progettazione sociale le hanno fatto conoscere imprese di territorio e comunità che generano servizi e reddito. In che modo?
I miei studi si concentrano sulle esperienze e sui percorsi comunitari che fanno economia territoriale. Sto raccogliendo dati, evidenze e fenomeni su imprese di comunità e cooperative di comunità. Quello delle cooperative di comunità è un caso, ci troviamo al momento una diffusione di questo modello. Alla base c’è la restituzione degli utili al paese, in modi differenti e per esigenze che cambiano da territorio a territorio. Ci sono già studi e ricerche che confermano che il 60% delle cooperative di comunità si trovano in area appenninica. Questo è significativo. Vuol dire che c’è una visione di paese, di area interna se vogliamo, che è attiva e che punta a un impatto positivo. Questo tipo di economia è indagata per lo più dal punto di vista dell’innovazione sociale ma se osserviamo bene ci sono elementi di circolarità e di mitigazione climatica molto interessanti. Se sono tornata è anche perché vedo opportunità e possibilità, mi colpiscono le iniziative che riescono a integrare politiche e tecnologie, innovazioni e saperi comunitari. Credo che questa Italia non sia residuale, penso anche che molte esperienze possano dare un contributo conoscitivo e politico anche alle metropoli.
Ci può fare degli esempi su alcune cooperative di comunità?
Possiamo andare a Campo di Giove in provincia dell’Aquila, dove dal 2018 una cooperativa di comunità utilizza parte degli utili provenienti dal turismo, dalla ricezione e dalla ristorazione per sostenere servizi alla comunità e per concretizzare pratiche di agricoltura rigenerativa, come per esempio il recupero di semi antichi e locali. Le cooperative di comunità possono essere una risposta al rischio spopolamento e un’azione concreta e sistematica alla sottrazione dei servizi sanitari. In alcuni casi con le imprese di comunità si uniscono professioni, esperienze di artigianato, economia circolare e percorsi culturali. Un’attenzione particolare a questi aspetti si trova nella cooperativa di comunità Filo&Fibra, in Toscana, a San Casciano Dei Bagni. È una realtà che recupera lana locale utilizzandola per realizzare prodotti di sartoria. Parte dei ricavati finanzia campi scuola per bambini, iniziative culturali legati alla memoria e alla riscoperta del territorio. In generale le cooperative di comunità hanno un’attenzione ai servizi ecosistemici, all’utilizzo circolare dei boschi, dell’acqua e dell’energia. In alcuni casi si tratta di pratiche presenti da sempre nei paesi, che vengono messe a sistema con una programmazione e una regia. Se pensiamo alle comunità energetiche dobbiamo andare a Gagliano Aterno (L’Aquila), dove Montagne in movimento, insieme al lavoro dell’antropologo Raffaele Spadano e al sindaco Luca Santilli hanno favorito un processo comunitario, prima che un progetto. Sono stata a Gagliano per un mese, ho vissuto lì aiutando con la scrittura di alcuni progetti e la ricerca di bandi. A Gagliano si può andare via con una lezione: da sola l’innovazione tecnologica non realizza una comunità energetica, servono politiche, ascolto e capacità di relazione. A volte manca la consapevolezza di star realizzando economia circolare, ma l’Appennino può essere circolare. Le cooperative di comunità lo dimostrano. Studiare questi fenomeni di impresa è essenziale, perché rendono i luoghi più vivaci, vivibili e abitabili.
Su queste zone si producono retoriche e discorsi che indirizzano anche alcune politiche pubbliche. Da ricercatrice, come considera il dibattito pubblico sull’Italia interna?
È un dibattito ancora di nicchia, ci sono strategie importanti nate dall’osservazione e dal lavoro sul campo. Pensiamo soltanto alla Strategia Nazionale Aree Interne. Iniziano a esserci lavori statistici, evidenze scientifiche e soprattutto protagonismo territoriale. Dobbiamo soltanto capire che a volte utilizzare tanti termini non significa automaticamente indicare una comunità. Terre terremotate, rugose, poi territori montani, marginali, periferici, ora sono interni. Il linguaggio tecnico è importante, come è essenziale aver definito cosa è un’area interna, in relazione a indici di spopolamento e alla presenza di servizi. La realtà è ovviamente più complessa e va affrontata al di là delle definizioni. C’è un distacco linguistico tra ricerca e comunità, sta all’accademia saper modificare le parole in base a dove ci si trova. Basta ascoltare: molte persone, in tanti comuni, si sentono appenniniche.
Ci troviamo in una nuova fase politica con un governo che inizia a rivedere alcune questioni legate all’Italia dei piccoli centri. Molte di queste zone rientrano negli investimenti del bando borghi. A quasi un anno di distanza dalla presentazione di queste politiche del Pnrr, cosa possiamo osservare?
Il bando borghi sta generando una competizione tra comuni, anche tra quelli vicini. La Linea A ci allontana dagli investimenti di zona, che era l’approccio della strategia nazionale aree interne e di altri investimenti, anche regionali. Anziché immaginare e lavorare per una distribuzione territoriale. La progettazione d’area ha avuto investimenti per circa 4 milioni di euro, ora il bando borghi con la linea A consegna investimenti per 20 milioni di euro a un solo piccolo comune scelto dalle istituzioni regionali. In Abruzzo diverse amministrazioni comunali hanno fatto ricorso contro la decisione di individuare Rocca Calascio (L’Aquila). L’azione dei comuni va letta come una conseguenza negativa di questo bando. Se si punta all’eccellenza di un solo comune, si creano disuguaglianza, si alimentano campanilismi e si punta soltanto a gareggiare. Una disputa che non fa bene a nessun territorio. Con la linea B, pensata invece per i comuni sotto i cinquemila abitanti, alla fine l’impostazione centrale ha dato come impronta da seguire quella dei servizi turistici. In generale la visione è quella di aumentare l’offerta dei servizi in relazione alla capacità di attrattività. La direzione credo resterà la stessa, se pensiamo alle prime dichiarazioni della ministra del Turismo Daniela Santanché, ossia che “il turismo può diventare la nostra prima azienda, è il nostro petrolio”.
Leggi anche: Green Communities, i territori montani che guideranno la transizione ecologica
© Riproduzione riservata