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venerdì, Novembre 29, 2024

Edilizia e urbanistica circolare: c’è una miniera (sostenibile) e non la usiamo

L’edilizia urbana è uno dei settori con più impatto sull’ambiente. Ecco allora come ripensarla in maniera circolare: dalla politica, dagli amministratori locali, dai costruttori e dagli abitanti. Le città sono una cava di risorse, a saperle utilizzare: ma l’imperativo resta costruire di meno e riutilizzare di più

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

L’economia circolare applicata all’urbanistica e all’edilizia è possibile? Ovviamente sì, e in tanti modi: modificare le abitazioni per renderle autosufficienti a livello energetico è la prima cosa che viene in mente. Oppure restaurare gli edifici e allungare la loro vita, riducendo così la necessità di costruirne altri. Quando non è possibile, l’economia circolare aiuta invece a ridurre l’impatto delle nuove costruzioni che prenderanno il posto delle vecchie. Se pensiamo che da qui al 2060 ogni settimana verrà costruito in tutto il mondo l’equivalente della città di Parigi non è certo un aspetto secondario.

Solo nel 2020 in Europa sono stati prodotti circa 850 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione. Quando un edificio viene demolito, si riciclano molti materiali, ma quasi sempre c’è un downcycling: non si userà, ad esempio, il cemento per costruire un nuovo palazzo, ma solo come riempitivo. Sfruttare al massimo grazie al recupero materiali come cemento, mattoni, rinforzi in acciaio, materiali per le coperture, tubi di rame e alluminio è l’altra strada circolare per ridurre l’impiego di combustibili fossili e materie prime: è quello che viene chiamato urban mining.

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Alcuni dati per inquadrare il fenomeno

I centri abitati, dalle città ai piccoli paesi, coprono solo l’1% delle terre emerse. Eppure, guardando all’Unione europea, il 72% dei cittadini vive in aree urbane e nel 2050 il numero salirà all’83,7%. Il problema è che le aree urbane esercitano un immenso stress sul nostro pianeta: dalla perdita di biodiversità all’esaurimento di risorse e acqua dolce fino, più in generale, alle emissioni di gas serra e all’inquinamento degli ecosistemi acquatici e terrestri. Sono responsabili del 39% delle emissioni globali di CO2 e di oltre il 30% dell’impronta di carbonio europea. In Europa l’edilizia assorbe il 40% della domanda di energia.

Circa il 63% del consumo totale di materie prime a livello globale è destinato all’edilizia. Il mondo utilizza ogni anno più di 50 miliardi di tonnellate di sabbia e ghiaia, componenti chiave nella produzione di vetro e cemento (dati UNEP). Si prevede che l’impiego totale di minerali non metallici, compresi i materiali da costruzione, crescerà da 35 miliardi di tonnellate nel 2011 a 82 miliardi di tonnellate nel 2060 (dati OCSE). La domanda di materie prime per le costruzioni in Europa è di 6 tonnellate pro capite all’anno: ma solo il 10,6% proviene da fonti riciclate o riutilizzate e circa il 70% di questi è usato per materiali di riempimento e non di costruzione.

La gerarchia degli interventi

Allo stesso tempo l’ambiente urbano è fondamentale per il benessere sociale perché fornisce riparo, sicurezza e unisce le comunità creando relazioni sociali, sul lavoro e nel tempo libero: le città non sono solo un insieme di grigi edifici e anonime infrastrutture. Proprio per questo motivo, però, è quasi inevitabile assistere alla loro costante crescita: così è successo agli albori della civiltà intorno ai suq, i mercati della Mesopotamia, e così sarà in futuro. La crescita, però, deve essere sostenibile: proprio per non snaturare quello che rende veramente tale un agglomerato urbano di persone.

“Il processo lineare in cui si prelevano risorse da tutto il pianeta e si utilizzano per costruire deve arrestarsi”, è la prima constatazione di Desislava Kraleva, coordinatrice dell’evento organizzato da Commissione europea e Banca europea per gli investimenti e seguito da EconomiaCircolare.com sul tema della città circolare. “La città – si legge nello studio A guide for circularity in the urban built environment presentato nel corso del webinar – dovrebbe essere un sistema ‘vivente’ in cui i materiali e i prodotti da costruzione vengono utilizzati in modo ottimale e poi riutilizzati, un sistema che opera entro i confini del nostro pianeta, preserva il valore delle sue risorse e aumenta il numero di posti di lavoro e competenze preziose in una città”.

Ripensare l’edilizia in maniera circolare vuol dire anche ripensare la tipologia di interventi, seguendo una precisa gerarchia proprio come avviene nella gestione dei rifiuti, aggiunge Martin Pauli, esperto di economia circolare di Arup, una società di consulenza per l’ambiente urbano, che così la riassume: “Non costruire nulla di nuovo e concentrarsi su quanto già edificato è alla base. Laddove non sia possibile, bisogna costruire in modo efficiente e con materiali riutilizzabili così da creare valore a lungo termine”.

Come rendere l’edilizia cittadina più circolare

Un approccio fondato sull’economia circolare, secondo la Ellen MacArthur Foundation, ridurrebbe le emissioni globali di CO2 del 38% entro il 2050, abbattendo la domanda di materie prime. Perché avvenga il cambio di paradigma, però, con l’adozione estesa di soluzioni circolari, c’è ancora molta strada da fare. “Ci sono tante iniziative sparse in Europa, ma sono ancora frammentarie e sparpagliate su un vasto territorio. Adesso è il momento che vengano realizzati su scala più ampia e che ci sia un maggior coordinamento”, prosegue Kraleva.

Gli attori coinvolti sono parecchi e lo studio li analizza uno a uno: politica e amministratori locali, investitori privati, stakeholders (costruttori, architetti, ditte di demolizione). Così come i possibili interventi. “Come possiamo ottimizzare l’edilizia verso strategie di urbanizzazione circolare? Come farlo a livello operativo? Quale ruolo devono svolgere manutenzione, ristrutturazione, riparazione e ammodernamento in un ambiente urbano circolare? La demolizione è un momento importante nella catena del valore: come possiamo allungare il ciclo di vita e non chiuderlo un’unica volta per gli edifici che costruiamo?”. Sono tutte domande al quale il rapporto di Commissione europea e Bei cerca di dare una risposta.

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Gli investimenti in primo piano: quali possibili incentivi

Visto che parliamo di uno dei settori trainanti dell’economia mondiale, per prima cosa servono gli investimenti privati “ancora insufficienti o del tutto mancanti”, spiega Kraleva. Secondo Martin Pauli, qualcosa si sta però muovendo. “Gli attori del settore privato stanno adottando sempre più spesso approcci circolari, sia per conformità alle norme sia per ricevere un vantaggio competitivo”, sostiene.

Quasi sempre, però, l’ostacolo è la mancanza di risorse: “Farlo costa soldi e nessuno può pensare che lo sviluppo sostenibile e gli edifici circolari possano venire su gratuitamente e a costo zero”. Ecco perché, sostiene Pauli, bisogna concentrare l’attenzione sul “contesto”. Il principio guida resta quello economico. “Il primo aspetto è la mitigazione del rischio: l’investimento non può essere una scommessa ma devono esserci chiare valutazioni economiche dietro. Il secondo aspetto è aumentare il rendimento del capitale in modo che costino meno le operazioni green per gli edifici e le infrastrutture. Infine, investire nell’innovazione e rendere così le città più attraenti per altre persone” conclude Pauli.

Con una precisazione: “Non è possibile accelerare la transizione da un’economia lineare a un’economia circolare se gli attori interessati del settore privato operano in isolamento. Dobbiamo operare su larga scala e costruire partnership a monte, a valle e lungo tutta la catena del valore”. Del resto, uno dei compiti della Bei è proprio quello di fornire capitali per impieghi sostenibili. Di creare, insomma, insieme alle altre istituzioni, il contesto favorevole di cui parla Pauli.

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I compiti della politica e degli amministratori locali

“Le singole città devono aiutare e facilitare questi bisogni” nota una delle autrici dello studio, Samy Kazemi. “Il legislatore e le autorità di regolamentazione oltre a garantire le condizioni di parità tra gli attori economici e guidare i meccanismi di mercato verso la circolarità possono plasmare politiche che rimuovano le barriere e armonizzino le definizioni e classificazioni delle attività circolari”, si legge nello studio.

Un ottimo esempio è la Tassonomia dell’Unione europea: un quadro normativo che definisce le attività economiche sostenibili dal punto di vista ambientale sulla base del Regolamento Ue 2020/852, compresi criteri chiari per la nuova costruzione e la ristrutturazione degli edifici. Sempre a livello normativo, tracciamento delle materie prime, passaporti digitali dei prodotti e informazioni sulla composizione dei materiali utilizzati negli edifici esistenti dovranno diventare la norma per accrescere la fiducia nel passaggio alla circolarità.

Incoraggiare il mercato “può essere fatto con un’efficace collaborazione pubblico-privato, portando le Pmi e le startup a creare programmi di incubazione o ampliando quelli già esistenti dedicati alla circolarità per trasformarli in veri e propri laboratori cittadini viventi”, propone Kazemi. Oltre a puntare sulla formazione, perché serviranno una serie di competenze che spesso mancano: sia tra gli addetti ai lavori sia tra i cittadini.

Le città stesse sono nella posizione di contribuire e facilitare queste esigenze, “favorendo nei piani urbanistici la circolarità e concentrandosi su progetti che rispettino la gerarchia e quindi la ristrutturazione e il recupero dei materiali. È evidente, però, in un campo come l’urban mining, quanto sia fondamentale gestire la logistica e fornire l’infrastruttura fisica e tecnologica adeguata”, conclude l’autrice dello studio.

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Immaginare la città circolare del futuro

Immaginare una nuova città circolare è possibile, se come ricordano i relatori del webinar, a partecipare attivamente saranno tutti gli attori coinvolti. A partire dai cittadini, che possono essere incoraggiati da incentivi pubblici a rinnovare gli edifici seguendo principi circolari e di efficientemente energetico, ma saranno loro in ultima istanza a decidere se farlo o meno. E saranno gli architetti a progettare nuovi edifici nel modo adeguato. Dove si utilizzeranno più viti e bulloni invece di cemento e calcestruzzo, perché saranno più facili da smontare e da recuperare in futuro.

Dove i costruttori sono i primi a scegliere quali materiali usare: ad esempio privilegiare quelli certificati e che possono essere facilmente riciclati e siano sicuri. Perché la composizione chimica dei prodotti fabbricati ha un impatto sul loro futuro potenziale di riutilizzo, mentre diversi processi meccanici possono consumare più o meno energia e materiali. E preferiranno ristrutturare piuttosto che costruire.

L’industria del cemento, infatti, avrà compreso come i rifiuti siano una risorsa e possano sostituire le materie prime. E per questo motivo, invece di concentrarsi sulla demolizione degli edifici e lo sgombero delle macerie, le imprese edili si dedicheranno allo smontaggio selettivo e al recupero dei materiali per poi lavorarli ancora una volta e creare nuove materie prime seconde. Più “minatori urbani” e meno “demolitori”. I centri abitati saranno grati: e lo sarà anche l’ambiente che li circonda.

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