domenica, Dicembre 7, 2025

Capitalismo al capolinea? Dal consumo di massa alla policrisi

Il capitalismo mostra i suoi paradossi: riduce il valore al profitto, alimenta l’iperconsumo e ignora i limiti planetari. Oggi questo sistema sembra entrare nella fase più fragile del suo ciclo evolutivo, in cui policrisi si amplificano a vicenda. La posta in gioco è la possibilità di riorganizzarci e cambiare rotta

Vittoria Moccagatta
Vittoria Moccagatta
Classe 1998. Laureata in filosofia all'Università degli Studi di Torino, è dottoranda in Design for Social Change presso l'ISIA Roma Design. È stata ricercatrice per il progetto "Torino città solidale e sostenibile"

Viviamo in un tempo in cui le crisi sono diventate quasi un sottofondo permanente e la densità e la simultaneità dei loro eventi ne rendono più difficile la comprensione. Il rischio è quello di restare imprigionati in una cronaca di sintomi – guerre, disastri climatici, instabilità finanziarie, polarizzazioni politiche – senza coglierne le dinamiche sistemiche. Le riflessioni che seguono hanno l’obiettivo di fornire una cornice interpretativa entro cui leggere come la definizione corrente del valore, lo stadio evolutivo del capitalismo e la moltiplicazione dei rischi globali si intreccino come aspetti inseparabili della nostra condizione storica.

Che cos’è il capitalismo? E a cosa dà valore?

Uno dei tratti distintivi del capitalismo è la riduzione del valore al solo prezzo di mercato. Questo significa che il suo sistema economico premia tutto ciò che genera profitto circolando come merce, indipendentemente dall’impatto che ha in altri campi. In questa riduzione del concetto di valore si perde la radice composita della ricchezza – comprendente anche caratteri sociali ed ecologici – e si generano paradossi: per esempio, se il prezzo (e quindi il valore) non incorpora i costi ambientali e sociali, allora la convenienza è tale per pochi soggetti, spesso i più ricchi, come nel caso in cui lo sfruttamento intensivo di risorse umane e naturali viene registrato in contabilità sotto la voce di “reddito”, facendo apparire come crescita ciò che erode le basi della stessa economia e società. Allo stesso modo, un miliardario che acquista un jet privato contribuisce al PIL più di un’intera comunità che ottiene accesso all’acqua potabile sicura. E ancora, nonostante il calo dei costi delle energie rinnovabili, le politiche globali continuano a privilegiare i combustibili fossili, con sussidi stimati in 7.000 miliardi di dollari nel 2022 – pari al 7,1% del PIL mondiale – in aumento di 2.000 miliardi rispetto al 2020 e destinati, secondo il Fondo Monetario Internazionale, a crescere fino a 8.200 miliardi entro il 2030.

Questo chiarisce perché il capitalismo non discrimini tra ciò che sostiene la vita collettiva e ciò che la compromette: tutto ciò che può essere trasformato in profitto trova spazio nella produzione. Ne deriva che beni privi di reale utilità o addirittura dannosi continuano a essere immessi in grandi quantità sul mercato, mentre beni comuni e servizi essenziali, dalla tutela della salute alla protezione degli ecosistemi, restano sottofinanziati. 

In questa logica, riparare un disastro ambientale o curare malattie causate dall’inquinamento produce lo stesso incremento contabile che avrebbe potuto generare evitarli, con la differenza che i costi sociali e ambientali restano non contabilizzati. È così che la crescita diventa fine a sé stessa e il sistema arriva a confondere la proliferazione di attività economiche con un progresso reale, anche quando queste attività, superata una certa soglia, smettono di aumentare il benessere collettivo e iniziano invece a ridurlo, erodendo le condizioni stesse di sussistenza.

L’iperconsumismo e la sua architettura sociale e materiale

Uno dei risultati diretti di questa dinamica è l’iperconsumismo, che non va inteso come la semplice somma di scelte individuali, ma come l’esito strutturale di un’economia che, per garantire la propria crescita, organizza produzione, desideri e stili di vita attorno all’imperativo di stimolare incessantemente la domanda. L’accesso a beni di massa prodotti in serie ha effettivamente significato un miglioramento delle condizioni materiali: tra gli altri, automobili, elettrodomestici, televisori e successivamente computer e telefoni cellulari hanno reso più agevole la vita quotidiana e la mobilità, ampliato le possibilità di informazione e comunicazione, aprendo spazi di inclusione e mobilità sociale prima precluse.

Ma se la misura di questo progresso è ancorata a un’unica metrica – quella del valore economico – ciò che conta non è l’utilità sociale o la sostenibilità dei beni, bensì la loro capacità di generare transazioni. Oltre una certa soglia, il consumo non ha più il significato di progresso, ma di espansione contabile accompagnata da distorsioni strutturali. L’acquisto della seconda automobile non aumenta la libertà di movimento, ma la congestione; il nuovo elettrodomestico in offerta 2×1 non riduce la fatica, ma introduce nuove dipendenze energetiche e un’accezione viziata di comodità; l’invasione di imballaggi monouso non aggiunge sicurezza, ma lascia eredità di rifiuti; l’accumulo di gadget superflui, comprati sugli e-commerce a poco prezzo, non aumenta più reputazione e status, ma satura gli spazi e gli immaginari, e accelera la produzione di scarti e sprechi.

Conviene progettare beni meno durevoli perché la loro sostituzione equivale a nuova produzione, conviene stimolare obsolescenze programmate e simboliche perché l’usa e getta alimenti cicli sempre più rapidi di consumo e conviene creare e ricreare artificialmente la domanda, invece di soddisfarla pienamente, grazie a pubblicità persuasive che infondono nuovi desideri tra i bisogni. Il risultato è una proliferazione di merci senza precedenti che ci rende ricchi di una ricchezza che, invece di accumularsi in forma di beni durevoli e sostenibili e di capitale sociale condiviso, si trasforma in flussi di oggetti effimeri e in montagne di scarti, lasciando dietro di sé un debito ecologico crescente che non compare nelle statistiche economiche, ma che segna profondamente le condizioni di vita presenti e future.

Leggi anche: Che cos’è la società dei consumi? Un glossario per comprenderla

I limiti planetari e il debito ecologico

I limiti planetari (planetary boundaries) non sono un “esterno” che si aggiunge a posteriori a questa discussione, ma l’orizzonte interno e non negoziabile entro il quale società e teoria del valore dovrebbero muoversi. La letteratura sui planetary boundaries ha mostrato come il sistema Terra funzioni attraverso soglie e non linearità, con processi biogeofisici che si rafforzano reciprocamente. La trasgressione simultanea di più confini – dal cambiamento climatico alla perdita di biodiversità, dall’acidificazione degli oceani al ciclo dell’azoto – non genera soltanto una somma di rischi, ma li moltiplica, amplificando le probabilità di destabilizzazioni irreversibili. L’iperconsumismo, che combina filiere produttive energivore ed estrattive, catene di approvvigionamento lunghe e logiche dell’usa e getta, accumula debito ecologico spostando sistematicamente i costi lontano dai benefici: i vantaggi immediati si concentrano infatti nei Paesi ad alto reddito, mentre il prezzo viene pagato altrove, nei territori che subiscono deforestazione e inquinamento e non solo, nelle comunità marginali trasformate in zone di sacrificio e nelle generazioni future, che erediteranno un pianeta spinto fuori dal suo safe-operating space.

A che stadio è il capitalismo?

capitalismo - ciclo adattivo
Il ciclo adattivo come concepito da Crawford Holling e Lance Gunderson. Fonte: Panarchy: Understanding Transformations in Human and Natural Systems (Island Press, 2001)

Per comprendere il momento storico che stiamo attraversando non basta leggere il capitalismo come una sequenza lineare di crescita e crisi, ma come un sistema complesso, soggetto a trasformazioni cicliche analoghe a quelle che caratterizzano gli ecosistemi naturali. In questa prospettiva, il modello dei cicli adattivi elaborato dall’ecologo Crawford Holling e dal botanico Lance Gunderson nell’ambito della teoria della panarchia offre una chiave utile per descrivere le quattro fasi attraverso cui i sistemi, sociali o ecologici, evolvono e si riorganizzano: una di espansione e sfruttamento delle risorse (r), una di accumulazione e conservazione (K), una di rilascio o collasso (Ω) – detta anche back loop – e infine una di riorganizzazione (α). Secondo questo schema, i sistemi non evolvono lungo linee rette di crescita infinita, ma si trasformano ciclicamente: nella fase di conservazione (K) raggiungono la massima efficienza apparente, ma al prezzo di una riduzione progressiva della flessibilità e della capacità di adattamento; nella fase di rilascio (Ω) queste rigidità si allentano, risorse e connessioni si sgretolano, rendendo possibile sia il collasso, sia nuove combinazioni organizzative.

Applicato al presente, questo schema suggerisce che il capitalismo maturo abbia abitato la fase K, caratterizzata da una straordinaria capacità di adattamento e accumulazione ma anche da una crescente vulnerabilità sistemica, ed entri ora nel back loop, dove shock ecologici, sanitari, energetici e geopolitici agiscono come fattori di rilascio e innescano processi di riorganizzazione ancora incerti nella loro direzione. Leggere il presente come back loop non equivale a prefigurare un crollo definitivo, ma a riconoscere segnali di policrisi tipici dei sistemi prossimi al rilascio. Con questa lente, la doppia transizione appare come un tentativo di riorganizzazione, una fase α che propone una nuova traiettoria dove si sperimenta una ricombinazione di tecnologie, regole e pratiche. Il fattore critico è la direzione della riorganizzazione, poiché il back loop non garantisce di per sé un esito emancipativo: può tradursi in nuovi lock-in, ossia in blocchi strutturali che ripropongono sotto forme rinnovate le stesse logiche insostenibili, oppure aprire la strada a un cambiamento di regime reale, capace di ridefinire il modello produttivo e i criteri di valore in coerenza con la giustizia sociale e con i limiti biofisici che sostengono la vita.

Leggi anche: Il linguaggio del consumo tra sociologia, marketing ed ecologia

Che cos’è la policrisi?

A questo punto lenti e quadro si ricompongono nel concetto di policrisi, che permette di spostare lo sguardo dall’elenco di crisi settoriali alla loro interdipendenza. La policrisi non è una somma di crisi, ma un pattern di co‑evoluzione in cui shock e vulnerabilità si amplificano lungo interfacce materiali, istituzionali e simboliche. Per “shock” si intendono eventi improvvisi e destabilizzanti – come una guerra, una pandemia, una crisi finanziaria o un disastro climatico – che spezzano le condizioni di stabilità di un sistema e si propagano. Analisi su 175 Paesi condotte tra il 1970 e il 2019 mostrano che le crisi tendono a non verificarsi più isolatamente, ma a co-occorrere: fino al 75% degli “shock” registrati in Asia si manifesta in simultanea con altri, contro il 25% dei Paesi OCSE. Così, la crisi climatica e quella della biodiversità interagiscono con le tensioni alimentari ed energetiche; le crisi finanziarie si intrecciano con la precarietà del lavoro e con la sfiducia democratica; le accelerazioni tecnologiche ridisegnano asimmetrie informative e poteri di sorveglianza.

In un mondo che consuma in soli cinque anni oltre 582 miliardi di tonnellate di materiali – quasi quanto l’intero XX secolo – e in cui le emissioni globali hanno raggiunto i 41,6 miliardi di tonnellate annue nel 2024, la policrisi non è una condizione temporanea ma l’indice che il sistema perde la capacità di assorbire perturbazioni mentre compaiono segnali di rallentamento e di improvvise transizioni di fase, le code di distribuzione degli eventi estremi diventano più spesse e i modelli previsionali si rivelano inadeguati perché basati su un passato che non descrive più il presente.

capitalismo shock
Le connessioni tra i segmenti colorati indicano le interazioni tra shock, con lo spessore delle linee che rappresenta la frequenza relativa delle occorrenze di multi-shock (periodo 1970-2019) | Fonte: Dynamics of the polycrisis (Cambridge University Press, 2025)

La riorganizzazione come sfida del presente

La narrativa della crescita come soluzione universale ha potuto affermarsi in un contesto storico in cui i costi sociali ed ecologici erano in larga parte invisibili, la disponibilità di energia a basso costo garantiva surplus abbondanti e gli indicatori economici registravano come “progresso” anche attività che compensavano perdite o danni. Oggi, nell’epoca della policrisi e del back loop, quelle condizioni sono tramontate: gli shock si moltiplicano e si intrecciano, mostrando che il problema non è quanto crescere, ma cosa ridefinire e ridurre. Attraversare la fase di rilascio senza precipitare nel caos o in nuovi squilibri che riproducono l’insostenibile sotto altri nomi significa costruire soluzioni capaci di sciogliere questi trade-off, realizzare un’economia che riconosca i limiti biofisici come vincoli costitutivi e  che affronti la questione della giustizia nella gestione delle risorse. È in questa ridefinizione e riduzione che si decide se la riorganizzazione sarà solo l’adattamento di un sistema in crisi o l’avvio di un cambiamento profondo che assicuri sostenibilità al rapporto tra società e vita.

Leggi anche: Oggetti superflui con un clic: ecco l’e-commerce dell’assurdo

© Riproduzione riservata

spot_img

POTREBBE INTERESSARTI

Ultime notizie