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venerdì, Novembre 15, 2024

I 9 nodi irrisolti dei bandi del MiTE sugli impianti per la gestione dei rifiuti

La pioggia di soldi provenienti dall'Ue potrebbe non bastare a risolvere le tante carenze della gestione dei rifiuti in Italia. I recenti bandi del ministero della Transizione ecologica intendono finanziare la costruzione di nuovi impianti. Ma si tratta di una soluzione calata dall'alto, che parte dai piedi e non dalla testa

Antonio Pergolizzi
Antonio Pergolizzi
PhD in Scienze Sociali, laurea in Scienze Politiche e master in Relazioni Internazionali. Analista ambientale, esperto di (eco)mafia e corruzione e in genere di Compliance e Public Affaires, è Advisory per Ref Ricerche e consulente di enti pubblici (tra cui il Commissario Straordinario per le bonifiche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e privati. È membro dell’Osservatorio Antimafia della Regione Umbria, insegna e fa ricerca in diverse università e svolge docenze in numerosi master e percorsi formativi, sia accademici che professionali. Dal 2006 è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente

La recente pubblicazione dei sette bandi del Ministero della Transizione ecologica (MiTe) per finanziare l’ammodernamento e il consolidamento dell’infrastruttura impiantistica nella gestione dei rifiuti rappresenta il cigno nero nella gestione dei rifiuti.

Una pioggia di denari da parte dell’Unione europea, destinati a finanziare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Dei 2,6 miliardi di euro complessivi, 1,5 miliardi saranno dedicati a realizzare nuovi impianti di gestione dei rifiuti e ammodernare quelli esistenti; altri 600 milioni vanno ai cosiddetti progetti faro, sulle filiere di carta e cartone, plastiche, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) e tessili. Il 60% di questi fondi va alle Regioni del Centro e del Sud Italia (Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Molise, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna) e ci sono meno di cinque anni per realizzare i progetti, entro giugno 2026.

Tutto bene, dunque? Non proprio.

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Non è una questione di soldi

Nell’unanime entusiasmo che anima il settore, non mancano nodi irrisolti e domande che chiedono risposte. A cominciare dalla falsa illusione che il problema della gestione dei rifiuti risieda nella mancanza di soldi per costruire gli impianti. La vera iattura è sempre stata la carenza di programmazione e di pianificazione strategica, insieme alla scarsa capacità manageriale nella gestione responsabile dei servizi pubblici, dalla scala nazionale a quella regionale. La presunta mancanza di risorse è stata semmai un facile alibi, comodo nascondiglio per classi dirigenti irresponsabili (nel migliore dei casi) e incapaci che oggi con i bandi sul tavolo si mostrano nude e balbettanti.

Insomma, se fosse solo un problema di quattrini potremmo far festa, ma non è così. Peraltro, l’attuazione del Pnrr si inserisce in un contesto di forte evoluzione della regolazione del settore a cui sta lavorando Arera (l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente), che ha recentemente evidenziato, appunto, in maniera ufficiale e senza infingimenti, l’assenza di una rete integrata di impianti di raccolta e trattamento rifiuti attribuibile all’insufficiente capacità di pianificazione delle Regioni e, in generale, alla debolezza della governance. Anche per Arera è necessario, appunto, sviluppare un programma nazionale per la gestione dei rifiuti e supportare Regioni, Province e Comuni, viste le problematiche dovute alla mancanza di competenze tecniche e amministrative del personale impiegato. Dal MiTe traspare, invece, un approccio apertamente tecnocratico, vecchio stile, che non tocca affatto i nervi scoperti, semmai li riveste d’oro zecchino.

Per mettere in campo un intervento impostato correttamente, bisogna piuttosto intervenire su una serie di nodi irrisolti che proveremo ad analizzare qui di seguito.

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Primo nodo: progetti senza programmi

Il principale limite del piano finanziario, come accennato, è di destinare risorse a proposte progettuali svincolate da qualsiasi programmazione nazionale e persino nell’assenza sostanziale di una vera cabina di regia di natura politica.

Il Piano nazionale di gestione dei rifiuti, previsto dal DLgs 116 del 2020 e dalla stessa Strategia nazionale, cioè dal Pacchetto sull’Economia Circolare del 2020, non è mai stato emanato e le Regioni procedono, come sempre, in ordine sparso. Finanziare gli impianti senza una strategia nazionale e senza criteri univoci rischia di diventare un pericoloso boomerang. Gli impianti sono l’hardware di una pianificazione integrata, sono strumenti e non soluzioni di per sé. Costruire impianti senza un’idea di gestione integrata in ottica industriale di nuova generazione rischia di costituire un errore irrimediabile, alimentando le inefficienze del sistema. Sebbene stando ai bandi i progetti dovranno essere coerenti con i singoli Piani regionali – e anche considerando che spesso questi Piani sono dei libri dei sogni, capaci di far sparire artificiosamente i rifiuti addomesticando i dati sulla prevenzione e sulle performance delle raccolte differenziate –, manca comunque una regia nazionale e un chiarimento di fondo sulla direzione da prendere, a cominciare dalle opzioni tecnologiche e impiantistiche: decidere da che parte andare è dirimente. La scienza e la tecnologia non sono mai neutre.

Se fino a oggi non si è fatto abbastanza, principalmente nelle Regioni del Centro e del Sud, non è dipeso dalla mancanza di tecnologia a disposizione, ma è mancata la testa, la direzione politica, la visione. C’è stata connivenza ai vari livelli per mantenere lo status quo, il vecchio modello lineare, assumendo scelte consapevoli. Per costruire impianti di compostaggio servivano i soldi del Pnrr?

Roma e mezzo Lazio si trovano in piena emergenza non certo perché il Supremo Manlio Cerroni non avesse soldi per fare impianti, anzi. La vittoria delle discariche in Sicilia o in Calabria, per non parlare delle vergognose spedizioni di rifiuti dalla Campania in giro per il mondo non è dipesa dalla mancanza di soldi e/o tecnologia ma dalla totale incapacità politica e gestionale, al netto, ovviamente, degli interessi privati cristallizzatisi attorno a logiche non sempre specchiate. Per capirsi, il problema non sono le discariche in sé ma il sistema che le gonfia di rifiuti che potrebbero andare altrove. Il problema è e rimane di natura politico-amministrativo e manageriale, di chiusura intelligente delle filiere, non è certo una questione impiantistico-tecnologica.

Ora, senza entrare troppo nel dettaglio di queste dinamiche, non ci sono dubbi sul fatto che la responsabilità di molte Regioni nel non aver fatto una buona programmazione, offrendo contorni percorribili di cicli integrati a vocazione industriale, rappresenta, da sempre, il cuore del problema. Se gli impianti a valle non sono sorretti da una buona pianificazione a monte, capaci di attivare filiere efficienti, possono servire a poco se non ad alimentare l’entropia. La vera rivoluzione non è impiegare, senza limiti, energia e risorse per ricavare altra materia e/o energia dagli scarti, in un moto perpetuo, seppure ciò possa apparire “figo e telegenico, ma dare una governance meditata, efficace, trasparente ed economicamente sostenibile. Se non si risolvono a monte questi nodi, se non si dota il Paese di un perimetro d’azione finalmente sgombro da queste incrostazioni e deficienze, a nulla servono soldi e tecnologia. Ebbene, questo tema cruciale continua a non trovare risposte e a poco o nulla servono i finanziamenti a fondo perduto.

Domanda al ministro Cingolani: non sarebbe bastato finanziare l’attuazione dei Piani Regionali finora approvati, chiudendo i cicli laddove non si è riusciti, stornando buona parte dei finanziamenti verso politiche di formazione (soprattutto per gli amministratori e funzionari pubblici) e di prevenzione, rivolte soprattutto al riutilizzo e alla preparazione per il riutilizzo?

Secondo nodo: il grosso dei fondi ai rifiuti urbani

Aspetto non secondario dell’assenza di programmazione integrata è che i bandi e tutta l’azione di finanziamento si riferisce quasi esclusivamente (se si escludono i progetti faro) ai rifiuti urbani, appena il 15-20% del totale dei rifiuti prodotti ogni anno. Scelta motivata dalla responsabilità pubblica nella loro gestione certo, ma riduttiva se si considera che lascia fuori dalla programmazione l’80-85% dei rifiuti (prodotti in gran parte dalle imprese), precludendo così qualsiasi possibilità di chiudere i cicli in una dimensione industriale.

Ancora una volta, solo una buona pianificazione può integrare i flussi degli urbani con quelli degli speciali attraverso una osmosi industriale, unica strada verso una vera valorizzazione degli scarti. Considerato che uno dei problemi principali legati alla gestione dei rifiuti è dato dall’assenza di mercati competitivi, che fanno precipitare i singoli flussi in casi di fallimento di mercato, costruire filiere efficienti, capaci di realizzare economie di scala e di densità, riducendo i costi di transazione e di trasporto, è l’unico modo capace di attrarre i flussi entro logiche economiche. Il mercato è una costruzione sociale, non un esperimento da laboratorio o un accidente degli dèi, e le policy a suo sostegno sono determinanti, per orientare sia l’offerta impiantistica che la domanda di materie prime seconde (come si dirà dopo).

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Terzo nodo: mancano i mercati di sbocco

Dunque, prima ancora degli impianti servirebbe costruire mercati di sbocco per le frazioni riciclate. È curioso, per esempio, leggere nella Linea d’intervento C dell’Investimento 1.1 – relativa all’attività di ammodernamento (anche con ampliamento di impianti esistenti) e realizzazione di nuovi impianti innovativi di trattamento/riciclaggio – che si possono finanziare “impianti per il riciclaggio di rifiuti da costruzione e demolizione”, considerato che i processi di trattamento sono semplicissimi e si fanno da sempre, quando l’unico problema è la totale assenza di competitività degli aggregati riciclati rispetto ai materiali vergini da cava. Se i primi costano almeno il doppio dei secondi, a che serve fare altri impianti, anche considerato che in molte Regioni esiste semmai un eccesso di offerta?

Senza meccanismi di incentivo (CAM-GPP o altre forme) per l’impiego dei primi e di disincentivo dei secondi (per esempio, aumentando gli oneri per il prelievo e/o restringendo le autorizzazioni nei Piani di cava) gli aggregati rimarranno nei magazzini e finiranno, prima o poi, in discarica, nonostante la finzione delle statistiche ufficiali indichino fantasmagoriche percentuali di riciclo. Stando all’ultimo Rapporto Rifiuti Speciali dell’Ispra la percentuale di riciclo si attesta al 77,4%: in realtà si tratta di rifiuti che sono transitati in impianti, mentre nulla si sa del loro utilizzo. Salvo rari casi, di aggregati riciclati nei cantieri non se ne vedono.

Semmai il rischio concreto è che la costruzione di impianti in assenza di criteri ponderati e di una corretta analisi dei fabbisogni (reali) dei singoli territori azzoppi sul nascere qualsiasi mercato competitivo. Sia dal lato della domanda, laddove i produttori (Comuni ed Enti di governo d’ambito territoriale – Egato) si potrebbero trovare dinnanzi alla paradossale situazione di avere a disposizione più impianti di quelli necessari, sia dal lato dell’offerta, ossia del mercato delle frazioni recuperate, che in una situazione di eccesso di offerta porta inevitabilmente all’azzeramento dei margini di ricavo. Impianti che girano a vuoto, fino a diventare fantasmi, sono manna dal cielo per il malaffare sempre a caccia di siti e capannoni dove architettare le truffe del finto riciclo, usando alla bisogna le fiamme per far sparire ogni traccia, come raccontano le cronache giudiziarie degli ultimi dieci anni.

La mancata valorizzazione delle singole frazioni (carta e cartone, plastiche, C&D, etc.) è stata causata prevalentemente dall’assenza di mercati di sbocco, basti guardare al crollo verticale dei prezzi sui mercati internazionali. Dopare con massicce dosi di denaro pubblico, distribuito a pioggia, un mercato così peculiare potrebbe essere una cura peggiore del male.

Per incentivare il riciclo basterebbe applicare leggi attualmente in vigore, come quella che regolamenta il Green Public Procurement, ossia gli acquisti green in capo alla pubblica amministrazione, la cui attuazione è ancora molto indietro in molti settori, come nell’edilizia. Se la pubblica amministrazione sostenesse davvero la domanda di materie e beni da riciclo, oggi racconteremmo un’alta storia. Troppo semplice, evidentemente.

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Quarto nodo: che fine fa la riduzione dei rifiuti?

Una parte importante degli impianti andrà inevitabilmente a toccare filiere di rifiuti gravitanti sotto schemi di Responsabilità estesa del produttore (Epr, nella sigla inglese), ossia modelli concreti di applicazione del principio UE del chi inquina paga. Principio che dovrebbe trasferire – seppure teoricamente – i costi della gestione del fine vita dei prodotti immessi nel mercato direttamente in capo ai produttori/importatori. In questo senso gli impianti a chi dovrebbero servire? Se li costruiscono i Comuni e/o gli Egato significa che questi si trasformeranno in attori economici (?), rendendo inutili persino i consorzi di filiera, per esempio. Nel caso delle plastiche, dei Raee e carta e cartone – dove sono destinati 600 milioni per progetti faro – se i destinatari dei contributi saranno le aziende produttrici, invece, queste, oltre alle risorse del contributo ambientale (di fatto trasferite nel prezzo di vendita finale, quindi pagate dai consumatori), potrebbero beneficiare anche di impianti destinati a vendere le frazioni recuperate.

Ora, se l’obiettivo di fondo è la riduzione dei rifiuti, questo meccanismo non sembra affatto agire su questa leva, anzi. Considerato che in molti schemi di Epr – Raee su tutti – non esistono nemmeno meccanismi di calcolo del contributo ambientale sulla base della riciclabilità dei prodotti immessi nel mercato, è ragionevole ipotizzare che i produttori avranno tutto l’interesse a produrre di più, potendo pure contare di valorizzare anche i materiali post consumo. Era questo l’obiettivo? Nel caso delle plastiche, per esempio, non sarebbe bastato vietare produzione e importazione di plastiche e poliaccoppiati non riciclabili? Troppo semplice?

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Quinto nodo: con tempi così stretti servono trasparenza e controlli

I tempi stretti imposti dall’Ue non sono garanzia di efficienza e trasparenza. Dovendosi i progetti in arrivo calare in un contesto di regolazione ipertrofica, la ricetta della semplificazione tout court potrebbe mettere in secondo piano le ragioni supreme della tutela ambientale, rischiando semmai di aggravarne gli impatti. Come peraltro sembra suggerire lo stesso Decreto ministeriale 397 del 28 settembre 2021, che argomentando il senso dei finanziamenti ribadisce con un lapsus freudiano come questi servano “al raggiungimento degli obiettivi di economia circolare, incremento occupazionale e impatto ambientale (corsivo nostro)”.

La corsa contro il tempo non va certo a favore dei controlli e delle verifiche, condizioni che scateneranno, inevitabilmente, le mire di mafie e corruzione, come stanno denunciando molte autorevoli fonti investigative, a cominciare dalla Direzione investigativa antimafia (Dia). Anche i criteri di valutazione previsti dal MiTe in apposito allegato, insieme all’elenco delle spese ammissibili e non ammissibili, non sembrano sufficienti a dare organicità e una guida autorevole ai progetti nel loro complesso.  Alla opportuna semplificazione di iter ancora troppo complessi, soprattutto in vista di finanziamenti di tale portata sotto l’occhio dell’UE, dovrebbe accompagnarsi un sistema adeguato di verifica e controlli incrociati e innovativi (non necessariamente di tipo giudiziario) per evitare brutte sorprese. Senza trasparenza delle filiere il rischio è spalancare le porte ai trafficanti di rifiuti, come accennato oggi più che mai padroni di società e impiantistica a servizio dell’economia circolare in nero.

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Sesto nodo: più fondi a chi ha fatto peggio

Il criterio di riconoscere il 60% delle risorse alle regioni del Centro e del Sud, ossia quelle che hanno finora fatto peggio, di fatto penalizza quelle amministrazioni che invece hanno svolto con responsabilità il loro ruolo, anche dando risposte alle ricorrenti emergenze ambientali causate dalla irresponsabilità programmatica delle prime. Queste realtà virtuose hanno peraltro finanziato l’impiantistica tramite la tariffa dei rifiuti, quindi attingendo ai soldi dei cittadini. Chi finora non è stato in grado di realizzare una corretta gestione riceve più fondi, ma quale certezza abbiamo che ora farà bene e spenderà meglio le risorse? Con una disparità di trattamento su scala territoriale non compensata da altre misure che messaggio si dà al Paese?

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Settimo nodo: la partecipazione non interessa più

Come accennato, nei bandi manca ogni riferimento al tema della partecipazione dei cittadini in forme organizzate per accompagnare i progetti. Tema annoso che finora non ha mai trovato spazio. L’improvvisa accelerazione dei procedimenti metterà sicuramente da parte momenti di dialogo e condivisione con le comunità interessate e questo non è certamente un dato sostenibile né tanto meno circolare.

Chi ci dice, per esempio, che impianti waste to chemicals per la produzione di componenti chimici di base in una prospettiva di analisi di flussi di energia e materia siano più sostenibili di altre opzioni? Che studi abbiamo in tal senso? È sufficiente garanzia il fatto che ci stia investendo l’Eni? Siamo sicuri che le comunità interessate accoglieranno tutti i progetti di buon grado, considerato che di coinvolgimento non si parla da nessuna parte? Come recita il Testo unico ambientale la gestione dei rifiuti è attività di interesse pubblico, escludere i cittadini dalle valutazioni è la sua perfetta antitesi.

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Ottavo nodo: non c’è spazio per la prevenzione

Il rischio è che questa prospettiva tecnocratica faccia deragliare dal percorso tracciato dalla Strategia Europea sull’economia circolare, insieme all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile e all’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015, percorso fondato sull’uso razionale e sostenibile delle risorse naturali. In questo senso la prevenzione dovrebbe essere il vero focus. La corsa agli impianti, invece, potrebbe far perdere di vista l’obiettivo di ridurre la produzione, alimentando dinamiche da economia lineare, incentivando la produzione stessa dei rifiuti.

Sarebbe stato sicuramente molto più interessante cominciare, oltre che dalla programmazione, dalla ridefinizione dei modelli di produzione, puntando su ecodesign ed ecoprogettazione, e di consumo, così come di modelli di simbiosi industriale, dove lo scarto di uno è materia prima per un altro. Per una migliore gestione dei rifiuti ha molto più senso parlare di come si producono gli oggetti, di quanta energia e quanta materia (prima e seconda) è stata impiegata, invece di ipotizzare soluzioni avveniristiche per rifiuti che si poteva semplicemente evitare di produrre.

Come ci ha insegnato la bioeconomia, quella vera di Georgescu Roegen (non quella di mercato dell’Ue), le leggi della termodinamica devono accompagnare la valutazione della fattibilità dei processi (non solo industriali) sin dall’inizio, considerando sempre che ogni processo spreca e dissipa materia ed energia e che indietro non si torna mai.

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Nono nodo: stiamo usando i soldi dei nostri figli e nipoti

Infine, un accenno al fatto che i finanziamenti sono debiti, soldi presi in prestito dalle generazioni future. E debiti di tale portata andrebbero assunti con una programmazione di lungo periodo, senza lasciare nulla al caso. Quei soldi arrivano dalle obbligazioni emesse dall’Ue, quindi direttamente dal mercato finanziario di privati investitori. Per reperire i fondi del NextGenerationEU la Commissione europea raccoglierà dai mercati capitali circa 800 miliardi di euro da qui alla fine del 2026. Questo si tradurrà in un volume di prestiti di una media di circa 150 miliardi di euro all’anno.

Intanto il 12 ottobre la Commissione europea ha emesso il primo Green Bond di 12 miliardi di euro da utilizzare esclusivamente per investimenti verdi e sostenibili in tutta l’Ue. Tale operazione rappresenta la più grande emissione di obbligazioni green al mondo. Il prestito obbligazionario di 15 anni con scadenza 4 febbraio 2037 è stato sottoscritto 11 volte più del possibile (135 miliardi contro 12), incentivando l’interesse di una vasta gamma di investitori. Nessun pasto è gratis, appunto.

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L’alternativa era rinunciare ai soldi?

No, semplicemente sarebbe stato utile cominciare dalla testa, non dai piedi, e dal dare risposte ai nodi di cui si è detto. Pensare che tutto possa risolversi d’un tratto a forza di soldi pubblici è, a nostro parere, mera utopia.

Il rischio è che gli abbagli e le mistificazioni tipiche dell’economia lineare, capace di guardare solo a ciò che gli è comodo vedere e non anche alle conseguenze delle proprie scelte, facciano breccia anche nel nuovo paradigma della cosiddetta economia circolare. Che con un laccio al collo sembra essere solo una bella comparsa nel gran ballo dell’economia a tutti i costi, costi quel che costi.

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