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venerdì, Ottobre 4, 2024

Via libera alla valorizzazione energetica degli scarti di legno lamellare e X-LAM

Lo prevede un decreto ministeriale. Numerosi i limiti (di inquinamento e di efficienza degli impianti) fissati dal ministero. Rispettato l’uso a cascata della biomassa forestale. Ma la combustione del legno è sempre sostenibile?

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Redazione EconomiaCircolare.com

Il cippato di lamellare e altri scarti di falegnameria contenenti colle possono essere utilizzati – a determinate condizioni – come combustibili. Lo ha stabilito il decreto 152 del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica pubblicato la prima settimana di maggio.

“Più volte ci era stata rappresentata, da enti pubblici ed operatori privati, l’esigenza di utilizzare i residui provenienti da processi di lavorazione del legno trattati con colle, a fini energetici – ha commentato il viceministro all’Ambiente e Sicurezza energetica Vannia Gava – lo schema di regolamento a cui abbiamo lavorato prevede, per l’appunto, che, a determinate caratteristiche e condizioni, il legno può essere qualificato come combustibile nel pieno rispetto dell’ambiente, sottraendolo così al circuito della gestione dei rifiuti”.

Cosa prevede il decreto

Il testo del decreto interviene sul Codice dell’Ambiente, in particolare sull’allegato X della parte quinta, che disciplina i combustibili. Tra i combustibili vengono appunto inseriti anche “residui di legno derivanti da lavorazione di tavole di legno incollato, pannelli di tavole incollate a strati incrociati, legno per falegnameria come definito dalla norma UNI EN 942”. Si tratta di lamellare, CLT (Cross-Laminated Timber) o X-LAM e prodotti dalle caratteristiche simili.

“Secondo me il decreto va nella direzione giusta: consentire alle aziende di risparmiare dal punto di vista energetico utilizzando quello che oggi viene mandato in discarica”, ci dice Benedetto Pizzo dell’Istituto per la BioEconomia, Cnr-Ibe: “Tutto è perfettibile ma mi sembra buon punto di partenza, buon compromesso”.

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I limiti imposti dal decreto

Infatti il testo, aggiunge Pizzo, “pone ragionevolmente parecchi paletti all’uso del cippato come combustibile”. L’uso di questi scarti come combustibile deve rispettare alcune condizioni:

  • non devono essere stati sottoposti a trattamenti diversi dal lavaggio, l’essicazione, l’incollatura o processi di natura meccanica (il taglio e la piallatura, ad esempio);
  • non devono contenere metalli pesanti o composti alogenati (sostanze tossiche).

Poi viene fissata una serie di limiti alle sostanze presenti negli scarti da avviare a combustione: collanti non devono superare il 2% in massa, il piombo la concentrazione di 10 milligrammi per chilogrammo, il mercurio 0,1 milligrammi, l’arsenico 1 mg e così via per zinco, nichel, rame, cromo, cadmio, cloro, zolfo, azoto. Come si fa a sapere se questi livelli sono rispettati dai materiali che verranno bruciati? “Non è un problema semplicissimo – commenta Pizzo – a meno che non sia il produttore a certificare la concentrazione degli inquinanti: chi produce fisicamente il pannello, e soprattutto chi produce l’adesivo, dovrebbe dare queste informazioni – e mi risulta che Paesi produttori come Austria e Germania abbiano già adottato una normativa analoga. Altrimenti si dovranno fare delle analisi”.

Alle condizioni alle quali devono sottostare i rifiuti da incenerire, si aggiungono le condizioni per gli impianti. Si potranno usare il cippato di lamellare e gli altri scarti come combustibile “esclusivamente nello stabilimento in cui i residui sono stati prodotti”. No al trasferimento e al commercio degli scarti per valorizzazione energetica, dunque. E poi la caldaie dove bruciare questi prodotti dovranno essere caldaie molto efficienti: efficienza sopra l’85% in grandi impianti – oltre i 500 kW – e classe 5 della norma UNI EN 303-5 per impianti più piccoli.

Spiega ancora Pizzo: “Si richiede l’uso di caldaie ad alta efficienza, di impianti grosse dimensioni o avanzati dal punto di vista del controllo della combustione, quindi si rivolge sostanzialmente ad impianti industriali”. Una garanzia dal punto di vista ambientale e della sicurezza, “perché se il materiale non brucia in condizioni di efficienza elevata dal punto vista della combustione controllata rischia di produrre sottoprodotti indesiderati e pericolosi”. Anche il divieto di commercializzare gli scarti risponderebbe a questo obiettivo. “Se dovessi commercializzare questi scarti per la combustine – riflette Pizzo – dovrei accertarmi che il cliente garantisca condizioni ottimali per la combustione. Altrimenti ci sarebbero problemi”.
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La combustione del legno è sempre sostenibile?

Se, dunque, dal punto di vista degli inquinanti il decreto offre delle garanzie, cosa dire della combustione del legno dal punto di vista del clima? Siccome si tratta di bruciare scarti (biomassa legnosa secondaria) questo uso rispetta il Cascading principle: un uso a cascata della biomassa legnosa prevede che il legno sia usato quante più volte possibile e con il più alto valore possibile prima di diventare combustibile.

“Quando le azienda utilizzano i propri scarti di legno, questo non è un problema”, ci dice Gaia Angelini, presidente di Geen Impact, membro italiano della colazione Forest defenders alliance, unione di ONG in difesa di boschi e foreste. Il problema c’ è invece quando si brucia legno prelevato da foreste primarie o piantato solo per questo scopo, come prevede la direttiva sulle rinnovabili oggi in vigore e quella su cui Europarlamento e Consiglio hanno trovato un accordo alla fine di marzo e che aspetta solo di essere pubblicata (la cosiddetta RED III): “Ogni anno sussidi per circa 17 miliardi di euro vengono erogati dall’Unione Europea per sostenere le biomasse forestali, una fonte energetica ‘falsamente’ definita come rinnovabile – continua Angelini -. La biomassa legnosa produce, infatti, più CO2 di carbone, petrolio e gas; per essere prodotta, inoltre, distrugge le foreste – anche primarie, che assorbono CO2 – la biodiversità e gli habitat, sia nell’UE che in Stati terzi”.

In una lettera inviata nel 2018 al Parlamento europeo da quasi 800 scienziati per chiedere di intervenire sulla RED III per limitare la biomassa destinata alla valorizzazione energetica, leggiamo che “l’abbattimento di alberi per la bioenergia rilascia carbonio che altrimenti rimarrebbe bloccato nelle foreste, e il dirottamento del legno altrimenti utilizzato per i prodotti legnosi causerà ulteriori tagli altrove per sostituirlo. Anche se si permette alle foreste di ricrescere, l’utilizzo di legno deliberatamente raccolto per essere bruciato aumenterà il carbonio nell’atmosfera e il riscaldamento per decenni o secoli – come molti studi hanno dimostrato – anche quando il legno sostituisce il carbone, il petrolio o il gas naturale. Le ragioni – spiegano i firmatari – sono fondamentali e si verificano indipendentemente dal fatto che la gestione forestale sia “sostenibile”. La combustione del legno è inefficiente e quindi emette molto più carbonio della combustione di combustibili fossili per ogni chilowattora di elettricità prodotta. Inoltre, la raccolta del legno lascia dietro di sé una parte di biomassa, come radici e piccoli rami, che si decompongono ed emettono carbonio. Il risultato è un grande ‘debito di carbonio’. La ricrescita degli alberi e la sostituzione dei combustibili fossili possono eventualmente ripagare questo ‘debito di carbonio’, ma solo su lunghi periodi. Complessivamente, consentire la raccolta e la combustione del legno ai sensi della direttiva trasformerà le grandi riduzioni altrimenti ottenute grazie all’energia solare ed eolica in grandi aumenti di carbonio nell’atmosfera entro il 2050”.

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