Finalmente anche Roma ha il suo Paesc,e questa da sola è già una buona notizia. Il Piano di Azione per l’Energia Sostenibile e il Clima consiste in un documento programmatico nel quale sono definite le azioni che il Comune intende intraprendere nel decennio 2020 – 2030 per raggiungere due importanti obiettivi: la mitigazione dei cambiamenti climatici, attraverso la riduzione di almeno il 40% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030; l’adattamento ai cambiamenti climatici, attraverso l’individuazione di ulteriori azioni che, pur non potendo essere valutate quantitativamente, portino il territorio ad acquisire una maggior resilienza nei confronti della crisi climatica. Entro il 2020 la Capitale avrebbe dovuto redigere il Paes, il Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile, così come previsto dal Patto dei sindaci per il Clima e l’Energia, l’iniziativa promossa nel 2008 dall’Ue per supportare le città a implementare gli obiettivi comunitari su questi temi.
Un appuntamento mancato (non solo a Roma), nel quale era previsto la riduzione delle emissioni climalterante del 20%, al quale l’Europa ha rilanciato nel 2015 chiedendo ai Comuni che ne fanno parte – oltre 7mila – di redigere i Paesc con obiettivi ancora più ambiziosi. Nei giorni scorsi la Capitale ha reso noto di aver adottato il proprio piano contro i cambiamenti climatici, già previsto da una deliberazione dell’assemblea capitolina nel 2017, proponendo addirittura con questo di voler dimezzare le emissioni in 8 anni e mezzo. Ce la farà? Di certo se ce la facesse una città complessa come la Capitale, ce la potrebbero fare tutte. Noi di EconomiaCircolare.com siamo venuti in possesso del documento, e a breve ne analizzeremo tutti gli aspetti circolari. Ma prima un po’ di storia.
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Nel Paesc di Roma poca economia circolare
Le città finora si erano concentrate, quando lo avevano fatto, su azioni di mitigazione. Adesso invece finalmente si parla di adattamento, visto che la crisi climatica è in corso. Il Paesc di Roma riconosce al movimento ambientalista “una grande influenza sull’opinione pubblica con effetti concreti, in alcuni casi, anche sulle scelte economiche ed industriali, oltre che legislative (vedi Direttiva Seveso, il Protocollo di Montreal, il Protocollo di Kyoto, il movimento No Global, il Movimento Fridays For Future nato sotto la spinta di Greta Thunberg)”. Mentre l’obiettivo del Paesc non è solo quello di “determinare un risparmio dei consumi attraverso l’efficientamento energetico e il maggiore ricorso alle fonti rinnovabili” ma di pianificare “in maniera strategica e omogenea le politiche di azione integrate e multisettoriali coerenti con gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti e l’adattamento ai cambiamenti climatici”. Quel che è più importante è che il documento redatto dal Comune di Roma non si limita, come si è visto troppe volte in passato, a fornire generiche linee guida. Più di metà del Paesc è infatti composto da schede di azioni che concretamente indicano come ottenere mitigamento e adattamento climatico, sottolineando per ciascuna azione periodo di attuazione, obiettivi, possibili ostacoli e monitoraggio.
Come scrive nel proprio intervento Katia Ziantoni, assessora ai Rifiuti e al Risanamento ambientale, “il dettaglio degli interventi previsti e la rispettiva quota di riduzione delle emissioni è indicata nelle schede di azione allegate al Paesc, frutto di un lungo lavoro di analisi che ha coinvolto tutti i dipartimenti di Roma Capitale e i relativi assessorati con il supporto tecnico-scientifico del gruppo di lavoro rappresentato da GSE, ENEA, ISPRA, il ministero della Difesa e numerose altre collaborazioni esterne senza le quali non sarebbe stato possibile arrivare ad un documento ambizioso e strategico con il quale Roma Capitale guarda al 2030 e oltre”. Dal documento si evince il mancato coinvolgimento delle associazioni cittadine, come denunciato a più riprese dalle stesse in questi mesi.
Ma quanta economia circolare c’è nel Paesc di Roma? Poco, a giudicare dalle occorrenze delle parole: solo 18, a fronte di un documento di 458 pagine. Come lo si fa? Lo scopriremo analizzando le singole voci che possono essere abbinate al tema, focalizzandoci sugli aspetti più trattati dalla nostra testata.
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Idrogeno solo verde (ma ci si crede poco)
All’idrogeno il Paesc dedica alcune pagine dal titolo evocativo “Partire oggi per esserci domani”. E subito premette che il Comune è disponibile ad effettuare sperimentazioni col vettore idrogeno a patto che sia “esclusivamente di idrogeno rinnovabile, cosiddetto verde, ovvero che non sia un prodotto di sintesi derivato dai carburanti fossili”. Oppure, per dirla in altra maniera, “non conforme ai princìpi più stringenti dell’economia circolare”. Si prevedono nello specifico l’introduzione di autobus a idrogeno nel parco in dotazione di Atac e la sperimentazione “in AMA di camion trasportatori/compattatori alimentati a idrogeno/celle a combustibile, inclusi gli energivori sistemi mobili integrati nei mezzi, di sollevamento cassonetti e compattazione dei rifiuti solidi urbani”. Il numero dei mezzi, però, è ancora da concordare con le due società pubbliche che si occupano di trasporti e rifiuti.
Inoltre “Roma Capitale si mostra disponibile a dare il suo supporto, patrocinio e facilitazione a qualsiasi evento, mostra o iniziativa (anche di carattere sportivo) che possa mostrare e rendere consapevoli cittadini e imprese delle possibilità offerte dalle tecnologie dell’idrogeno”. L’impegno della città sulla partita dell’idrogeno, messa così, non sembra molto consistente. Più interessanti, in questo senso, le schede guida che delineano, tra gli altri, l’avvio di un progetto pilota per “sperimentare l’impiego del vettore idrogeno su distretti urbani al fine di farli diventare energeticamente positivi”. Mentre sull’ipotesi di mezzi pubblici a idrogeno il Paesc segnala che “si rende assolutamente necessario l’individuazione di un esperto esterno che definisca i requisiti per la realizzazione di un impianto di ricarica dell’idrogeno”. Più ambizioso, in questo caso, appaiono i propositi di Atac che intende sostituire il 50% dei propri mezzi con autobus elettrici, specie in centro dove i tratti percorsi sono più corti e meglio si prestano alle ricariche, e afferma che è “in valutazione l’avvio di un progetto pilota per una miniflotta di 20 autobus ad idrogeno e relativa costruzione di un impianto di ricarica per l’idrogeno e prima implementazione, nel giro dei primi 5 anni, di 4 linee bus centrali”. Tra i timori del Comune di Roma, che poi sono quelli degli enti locali, c’è il fatto che gli autobus a idrogeno sono ancora progetti in itinere, di cui vanno risolti i problemi relativi alla sicurezza (come combustibile e come stoccaggio) e ai costi molto alti.
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Tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di rifiuti
“La produzione dei rifiuti urbani di Roma Capitale per l’anno 2019 ammontava a 1.688.345 tonnellate”. Basterebbe solo questo dato riportato dal Paesc per comprendere la necessità di intervenire su un settore strategico e complesso come la gestione dei rifiuti. Oppure si può pensare al fatto che la parola “rifiuti” compare sul Paesc ben 171 volte, occorrenze molto più numerose dell’economia circolare. La Capitale in questo senso non ha mai brillato, per usare un eufemismo, e negli ultimi giorni l’ennesima emergenza è alle porte, con cumuli di immondizia che tornano ad accumularsi nei quartieri, in centro così come nelle tante periferie della città.
Per questo motivo il Paesc scrive “la prevenzione della produzione dei rifiuti è uno degli obiettivi più sfidanti per le amministrazioni locali”. Per raggiungere l’agognata decarbonizzazione, dunque, non si può non partire dal principio di economia circolare per cui il miglior rifiuto è quello che non si produce. Ecco il motivo per il quale il Paesc ricorda il ruolo fondamentale che possono svolgere i cittadini, da sollecitare attraverso una “tariffazione puntuale”. Alla prevenzione dei rifiuti il Paesc dedica un intero capitolo, il 14, intitolato non a caso “Il flusso circolare della materia”. Particolare importanza assume in questa sede il desiderio di “autosufficienza di trattamento della frazione organica da raccolta differenziata” da parte dell’attuale giunta.
A settembre del 2017 Roma Capitale ha approvato il “progetto pilota per il compostaggio collettivo nella città di Roma”, che prevedeva “l’installazione di 15 macchine per il compostaggio collettivo da dislocarsi sia nei Centri di Raccolta di AMA SpA che presso strutture che dispongono di produzioni elevate di organico derivante dalla preparazione e consumo dei pasti, quali ad esempio le aziende sanitarie”. Un’iniziativa certamente lodevole di cui però a oggi c’è solo il contratto stipulato da Ama con la società Infratech (grazie ai contributi regionali) per la fornitura di 15 compostiere elettromeccaniche da 80 tonnellate l’anno, dalla durata di 5 anni. Troppo tempo, insomma, è trascorso e speriamo che non ne debba trascorrere altrettanto per l’installazione dei mezzi. Tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di rifiuti.
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I centri del riuso, l’ecorubrica, il Gpp
Sostenere i centri del riuso attraverso l’utilizzo della Tari: è la proposta che arriva dal Paesc per aiutare questo “nodo di scambio dell’economia circolare” e “realizzare una progressiva minimizzazione nella produzione dei rifiuti”. L’obiettivo al 2030 è di ottenere una riduzione della produzione dei rifiuti dello 0,5% (8.651 tonnellate). Non certo un grande dato, forse dovuto al fatto che la visione dei centri del riuso offerta dalla Capitale è limitata a un luogo dove “avviene un mero scambio di beni, senza alcuna attività di commercializzazione né di riuso creativo”. Né più né meno di quello che prevede l’attuale normativa, chiaramente, ma che non tiene conto del dibattito avanzato e delle richieste del settore.
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Più interessante (forse) appare l’istituzione dell’ecorubrica, ovvero “un vademecum per tutti i cittadini che desiderano evitare che gli oggetti di cui voglio disfarsi diventino inutilmente rifiuti e che cercano soggetti cui destinarli”. In pratica verranno forniti alla popolazione i contatti utili e le informazioni necessarie per provare ad avviare realmente nella Capitale concetti come il riuso e il riutilizzo, anche se non viene specificata la modalità.
Qualcosa in più viene previsto per il Gpp, il Green Public Procurement, che i lettori e le lettrici di questa testata conoscono bene. Si tratta degli acquisti sostenibili e dal minor impatto ambientale che le pubbliche amministrazioni possono compiere, con focus specifici sui Criteri Ambientali Minimi (CAM) previsti per legge. Il Paesc indica come necessarie “attività di formazione e informazione del personale capitolino”, condotte a distanza dalla Scuola di Formazione Capitolina, con l’obiettivo di ottenere al 2030 la riduzione dell’1% della produzione di rifiuti.
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I programmi per la riduzione degli imballaggi
Già nel marzo 2017 la giunta capitolina ha approvato il Piano Operativo per la riduzione e la gestione dei materiali post-consumo, nel quale sono delineate le azioni volte alla prevenzione della produzione dei rifiuti. Erano previste 10 azioni, ognuna delle quali con uno specifico obiettivo, per una stima di riduzione complessiva del 15%, cui si aggiunge un 1% conseguente all’adozione del Protocollo per la gestione dei rifiuti dell’edilizia. Tra questi vale la pena citare il “programma per la riduzione degli imballaggi”. Come ricorda il Paesc, infatti, “gli imballaggi in plastica costituiscono una parte importante dei rifiuti prodotti dalla città di Roma”. Due sono i progetti sui quali puntano Comune e Atac, da finanziare nuovamente attraverso la Tari e le risorse per la ristorazione scolastica: “Acque di Roma” e “Incentivazione per il ricorso di prodotti alla spina”, che partiranno quest’anno e si concluderanno sempre nel 2030.
Si mira innanzitutto a “una capillare campagna d’informazione rivolta alla cittadinanza” in modo da orientale le scelte dei consumatori. Inoltre “per l’approvvigionamento dei servizi di ristorazione scolastica destinati ai nidi capitolini, alle scuole dell’infanzia capitoline e statali, primarie e secondarie di primo grado site nel territorio di Roma Capitale, è prevista la minimizzazione degli imballaggi in plastica. In particolare, l’acqua per l’allestimento dei tavoli dei refettori dovrà essere approvvigionata utilizzando quella proveniente dal sistema cittadino della distribuzione dell’acqua pubblica e dovrà essere somministrata tramite brocche riutilizzabili, resistenti all’usura e ai graffi, lavabili in lavastoviglie. Tale servizio utilizza inoltre piatti di ceramica, fondi e piani, bicchieri di vetro infrangibile, posate di acciaio, igienizzabili e riutilizzabili”. Può bastare? D’accordo che i cambiamenti partono dai bambini, ma qualcosa di specifico destinato ai più grandi, che non sia una “semplice” campagna informativa, sarebbe auspicabile. Gli esempi di riuso e riutilizzo nelle grandi città a cui guardare non mancano, così come start-up, imprese e filiere da consultare.
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Gli ecoeventi
Allo stesso modo“Roma Capitale stabilisce che l’organizzazione degli eventi e delle manifestazioni che si svolgano in spazi pubblici debba minimizzare la produzione dei rifiuti derivanti”. Per farlo, e ottenere una possibile riduzione di rifiuti di un altro punto percentuale al 2030, il Comune sceglie però di non sbilanciarsi in merito all’applicazione della contestata direttiva Sup. E nulla dice sulla diffusissima pratica dell’usa e getta, da cui poi spesso derivano i rifiuti che riempono le strade della Capitale.
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In ogni caso nel Paesc si legge che “la riduzione della produzione dei rifiuti deve essere perseguita attraverso l’utilizzo di stoviglierie e posaterie per la somministrazione di cibi e bevande, qualora prevista, in materiali durevoli, riutilizzabili e igienizzabili o utilizzando utensili in materiali compostabili; l’installazione di postazioni per la distribuzione di acqua pubblica e bevande alla spina utilizzando bicchieri a rendere o in materiali compostabili; l’utilizzo del vuoto a rendere per la distribuzione delle bevande; la minimizzazione degli imballaggi primari e secondari; l’organizzazione della ridistribuzione delle eccedenze alimentari con la fornitura di family bags”. Resta poi definito che “il finanziamento del progetto è a carico degli organizzatori degli eventi”. I quali, a loro volta, scaricheranno i probabili aumenti sui consumatori. La domanda è sempre la stessa: chi paga la transizione ecologica?
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