Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che il governo ha stilato e presentato al Parlamento per integrazioni e modifiche contiene un elemento di certezza tutt’altro che scontato: il progetto di Eni per la cattura e lo stoccaggio di carbonio (in sigla Ccs dall’inglese carbon capture and storage), che il gigante energetico intende realizzare a Ravenna nei giacimenti del gas ormai esauriti, non sarà finanziato con i soldi del Recovery Fund, i 209 miliardi di euro che l’Europa ha messo a disposizione dell’Italia per la ripresa post-Covid.
Si tratta di una decisione importante, specie se si considera che nelle precedenti bozze il progetto di applicare la tecnologia Ccs sulle sponde dell’Adriatico aveva sempre trovato posto e, nelle iniziali indicazioni del governo, prevedeva un finanziamento di 1,35 miliardi di euro. Se da una parte il cane a sei zampe ha registrato lo smacco preferendo astenersi da commenti ufficiali – anche se più parti indicano possibili piani B, sui quali torneremo – esperti e attivisti hanno tirato un sospiro di sollievo.
“Il Ccs non risolve la crisi climatica”
Quasi in contemporanea con la decisione del governo di estromettere il progetto della più nota azienda energetica italiana, in Gran Bretagna le ong Friends of the Earth Scotland e Global Witness hanno diffuso una ricerca che analizza l’impatto climatico della cattura e lo stoccaggio di carbonio. La ricerca, effettuata dal Tyndall Center, si concentra sulle recenti scelte del governo britannico – che prevede un investimento di 200 milioni di sterline in Ccs – ma ha elaborato risultati interessanti a livello globale.
Anche perché la stessa Eni a ottobre 2020 ha ottenuto la licenza, assegnata dall’Autorità britannica per il petrolio e il gas (Oil and Gas Authority, in sigla Oga), per lo sfruttamento di un’area situata nella porzione della Baia di Liverpool, nel Mare d’Irlanda Orientale, in cui il cane a sei zampe conta di utilizzare i giacimenti esausti di idrocarburi (Hamilton, Nord Hamilton e Lennox) e di riconvertire le relative infrastrutture per lo stoccaggio permanente della CO2 catturata nell’Inghilterra nordoccidentale e nel Galles settentrionale. Un progetto molto simile a quello che si intende realizzare a Ravenna, dove l’intento è di costruire il più grande impianto di questo tipo al mondo.
Secondo lo studio inglese, in ogni caso, “fare affidamento sul Ccs metterebbe in pericolo gli obiettivi di sicurezza climatica”. Inoltre, “a livello globale ci sono solo 26 impianti Ccs in funzione” (segno che la tecnologia non è matura e almeno per ora antieconomica, come già ribadito dalle pagine di EconomiaCircolare.com). Le due ong hanno descritto la tecnologia Ccs come una “distrazione pericolosa” dalle soluzioni climatiche che funzionano, come le energie rinnovabili e l’efficienza energetica.
“La fattibilità tecnica del Ccs – si legge nella ricerca – è stata dimostrata nel 1996, tuttavia, la diffusione è stata lenta e i siti in fase di sviluppo non sono riusciti a concretizzarsi. Secondo il Global Ccs Institute, meno di un quinto della capacità Ccs in via di sviluppo nel 2010 era operativa entro il 2019. Nonostante ciò, il Ccs occupa un posto di rilievo in molti percorsi energetici futuri con un netto contrasto tra le proiezioni e l’attuale capacità globale di soli 39 milioni di tonnellate di CO2 all’anno”. Insomma, le promesse fatte non sono state mantenute e non si può non tenerne conto.
Un’apripista per l’energia fossile?
Nella sua comunicazione ufficiale Eni afferma spesso di ispirarsi ai principi dell’economia circolare. Inevitabile, dunque, chiedersi quanto ci sia di circolare in una tecnologia e in un progetto, quello ravennate, così fortemente sostenuto dalla multinazionale energetica. È sufficiente l’obiettivo dichiarato di voler dare nuova vita ai giacimenti di gas non più attivi mettendo in campo una sorta di azione di riuso? Il notevole dispendio di suolo e di risorse energetiche, a partire dall’elettricità necessaria per l’impianto di cattura, non è incompatibile con il concetto di circolarità? In più, come sottolineato dal chimico Vincenzo Balzani a EconomiaCircolare.com, questa tecnologia richiede “l’uso di grandi quantità di prodotti chimici (amine) che poi debbono essere recuperati, riciclati, con grande consumo di energia (fossile)”. Col paradosso che “spesso la CO2 prodotta dall’energia che si usa per l’impianto è in quantità maggiore rispetto a quella che l’impianto recupera”, esattamente il contrario del principio di rigenerazione e prevenzione alla base dell’economia circolare.
Sono tante le voci che chiedono a Eni di concentrare piuttosto le proprie energie e risorse sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, mettendo in discussione una tecnologia inedita in Italia come quella della cattura e sequestro di carbonio. Gianni Silvestrini, dal 2003 direttore scientifico del Kyoto Club e da decenni impegnato sui temi delle energie rinnovabili e dell’economia circolare aggiunge altre domande: “Intanto diciamo che la tecnologia Css ha sempre goduto di finanziamenti pubblici – afferma – e il vero dato è che non si è riusciti a utilizzarli. Il discorso dunque è da ribaltare: perché nonostante gli ingenti contributi questa tecnologia non si è mai sviluppata in Europa? E perché la stessa Europa, che già ci ha provato negli scorsi anni, dovrebbe tornare a finanziare il Ccs italiano? La situazione degli Stati Uniti è diversa, perché lì la CO2 viene iniettata nei giacimenti di petrolio e gas quasi esauriti per aumentare la produzione di fossili“.
A meno che si voglia fare la stessa cosa sull’Adriatico, Silvestrini ricorda invece che “in Italia il Ccs non è neanche del tutto inedito, perché Enel voleva realizzare un progetto simile a Brindisi ma poi lo ha abbandonato quando ha valutato che non conveniva neanche avviarlo. I 36 progetti di Ccs attualmente esistenti sono per lo più collegati alla maggiore produzione di gas e petrolio, e attualmente catturano quasi 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno”. Il dubbio, dunque, è che la cattura e lo stoccaggio di carbonio serva più ad alimentare e a giustificare l’economia lineare che a foraggiare modelli concreti di economia circolare.
“Io sono piuttosto laico su questo tema – continua Silvestrini – ma mi pare evidente che il Ccs è una soluzione che le compagnie petrolifere scelgono per prolungare la vita dei giacimenti oil&gas, mentre sarebbe più utile e più circolare spingere sulla transizione energetica attraverso le rinnovabili”.
Non tutto è perduto, almeno per il cane a sei zampe
Eni comunque sembra continuare a puntare su questa tecnologia e, se non sarà il Recovery Fund a finanziarla, punterà, come già annunciato dall’ad Claudio Descalzi, sull’Innovation Fund, il programma europeo che sostiene progetti relativi alle tecnologie a basse emissioni di carbonio per le industrie ad alta intensità energetica. Nel primo trimestre del 2021, la Commissione europea procederà all’esame dei progetti e comunicherà gli ammessi alla seconda fase. I soggetti in short list dovranno poi trasmettere la domanda completa entro la fine del secondo trimestre e, se si sarà ammessi allo step successivo, ci sarà un ulteriore vaglio. I tempi, insomma, non saranno brevi. E intanto però, come fa notare ancora Gianni Silvestrini, “nei prossimi 10 anni le energie rinnovabili saranno competitive in molte aree del Pianeta e diventeranno l’arma maestra per la produzione di energia pulita”.
Il direttore scientifico del Kyoto Club riflette sul fatto che “le rinnovabili hanno dimostrato di poter ridurre i propri costi e di diventare competitive senza incentivi, mentre il Ccs al momento non può andare avanti senza contributi degli Stati, e come abbiamo visto spesso non bastano neanche quelli. C’è poi da valutare l’emission trading – continua Silvestrini – ovvero il sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra. Anche così si spiega la recente corsa alla produzione di idrogeno di rinnovabili da parte dei Paesi europei, che vogliono costruirsi le ossa nel settore al momento scoperto degli elettrolizzatori, per poi essere pronti quando, dopo il 2030, si ritiene che l’idrogeno verde sarà più competitivo dell’idrogeno blu. Questa è una visione strategica. Invece Eni insiste con l’idrogeno blu, da produrre a Ravenna, che se tutto va bene dovrebbe essere attivo nel 2025. Cosa si farà poi quando nel 2030 l’idrogeno verde sarà preferibile al blu?”.
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“Abbandonare le logiche del passato”
Intanto le attiviste e gli attivisti della campagna “No Ccs – Il futuro non si sTocca” – promossa da numerose realtà dell’universo ecologista – hanno scritto una lettera aperta, indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini e al sindaco di Ravenna Michele De Pascale.
Nel testo si legge che il progetto della cattura e dello stoccaggio di carbonio “si inserisce alla perfezione nella narrativa di greenwashing dell’azienda” e che se il progetto è scomparso dall’ultima bozza “i motivi possiamo intuirli: forse l’Europa, che scommette sull’idrogeno verde più che sul blu, non avrebbe approvato un progetto così costoso e allo stesso tempo vago e incerto. Eppure anche se dai giornali non traspare vogliamo pensare che le nostre mobilitazioni di dicembre in Emilia Romagna e in tutta Italia, insieme a prese di posizione forti delle associazioni che da anni si occupano di clima, siano servite a orientare in parte le decisioni che influenzeranno le nostre vite per i prossimi anni in maniera decisiva”.
La partita del Ccs non è ancora chiusa del tutto, come spiegano gli stessi attivisti e attiviste della rete, “perchè il Ccs figura ancora nel piano industriale di Eni, che sta già pensando di finanziarlo attraverso dei green bond”. Al contrario l’auspicio è che proprio Ravenna diventi “territorio fertile per avviare una riconversione alle rinnovabili che può essere d’esempio per l’intero Paese. Occorre però tracciare con determinazione una nuova strada abbandonando le logiche del passato che il Ccs, invece, ripropone”.
Nella terra del petrolio si investe sull’idrogeno verde
“L’Eni ha fatto in questi anni un forte pressing per sostenere questa opzione, legandola come cavallo di Troia a favore dell’idrogeno blu” afferma Massimo Scalia, uno dei padri dell’ambientalismo scientifico in Italia. “L’azienda sa che si tratta di una tecnologia vecchia e senza futuro, eppure spinge su di essa perché sostiene che in questo modo può sfruttare le competenze acquisite sulle fonti fossili, dalla cui produzione poi sequestra il carbonio per rendere la produzione più pulita. Speriamo che dopo questa batosta Eni che già aveva accettato l’accordo con Enel per decarbonizzare i suoi siti con idrogeno verde, la smetta di chiedere denaro pubblico per mantenere nel sistema dei combustibili fossili tutte le sue attività”. Scalia poi ricorda la recente nomina di Francesco Starace, amministratore delegato di Enel, alla guida di SEforALL, l’organizzazione internazionale senza scopo di lucro che lavora a stretto contatto con le Nazioni Unite per accelerare e realizzare su scala le soluzioni necessarie per raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile. E, soprattutto, le continue prese di posizione di Starace e del governo italiano, come ad esempio sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza recentemente stilato dal governo, sull’idrogeno verde.
“Il vento sta cambiando – dice lo scienziato cofondatore di Legambiente – L’Eni così rischia di rimanere fuori campo, al contrario di Enel. L’esclusione del progetto Css è la seconda batosta nel giro di poco tempo per il cane a sei zampe. Penso ad esempio al caso dell’Arabia Saudita, che si candida a diventare un hub mondiale per l’idrogeno verde tramite la società Acwa Power. Qualche mese fa la società ha varato un progetto per realizzare 5 gigawatt di elettrolizzatori: cioè nel Paese del petrolio ci si dà da fare per produrre idrogeno verde. E allora, un po’ per provocazione, ho suggerito in un paper (si può consultare qui) che forse bisognerebbe sostituire qualche dirigente Eni con il ceo di Acwa Power”.
Il professore romano ricorda infine che l’idrogeno verde è comunque una delle possibili soluzioni per fronteggiare il cambiamento climatico, nell’ottica del tanto auspicato mix energetico. “Penso per esempio all’eolico offshore, ma potrei fare tanti altri esempi- aggiunge Scalia – Non c’è mai un’unica soluzione ai problemi, se non in matematica, mentre invece nella realtà quotidiana ci sono sempre più soluzioni che concorrono a delineare uno scenario ampio. Il futuro si sta muovendo in diverse direzioni, il vento sta cambiando, mentre invece Eni continua a rimanere sempre uguale”.
La rabbia dei sindacati
“È un’assurdità che non compaia nel testo, approvato dal Consiglio dei Ministri relativo al Recovery Fund, il finanziamento all’impianto di cattura e stoccaggio della CO2 a Ravenna progettato dall’Eni. È l’esempio lampante di come quel piano nazionale manchi di governance, rinunciando a sostenere un’eccellenza italiana che poteva essere il più grande hub europeo del settore specifico”. Quella che a prima vista potrebbe sembrare una protesta ufficiale da parte di Eni, è in realtà la netta presa di posizione di Paolo Pirani, segretario nazionale di Uiltec, il sindacato che unisce i lavoratori del tessile, dell’energia e della chimica. Pirani esprime il proprio rammarico “sull’ennesima svista del governo Conte sulla via della transizione energetica. Da una parte si scrive che occorre sostenere l’economia circolare basata su quella verde e dall’altro si rinuncia a farlo come dimostra il caso in questione. Con queste illogicità manifeste il Paese non solo ci perde la faccia, ma occupazione, produzione energetica, col rischio sempre più evidente di dipendere energicamente da nazioni terze. Altro che resilienza e rinascita economica. Qui ci facciamo male da soli”.
Il leader della Uiltec ricorda quella che doveva essere la prospettiva adriatica. “Ravenna doveva divenire – ha ribadito Pirani – il più grande centro europeo per la cattura e stoccaggio della CO2. Ma si sarebbe dovuto tornare ad investire sulle attività estrattive del gas naturale di cui è ricco il mar Adriatico. Non ci sono altre strade: la decarbonizzazione del sistema industriale deve poter passare per il ciclo combinato del gas, sulla cattura e sullo stoccaggio dell’anidride carbonica. Quindi ci vogliono investimenti mirati a favore della transizione energetica, attraverso il Piano di ripresa denominato Next Generation Italia. Ma con tutte le risorse europee disponibili riusciamo a farne a meno. Confidiamo che il management di Eni riesca comunque a trovare i finanziamenti per sostenere il progetto di Ravenna come previsto dal piano industriale che ci ha presentato”.
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