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venerdì, Novembre 15, 2024

Diritto alla riparazione, nuovi passi in avanti da parte degli Stati Uniti

In approvazione nello stato di New York una legge che riconosce il right to repair per le apparecchiature digitali. La comunità dei consumatori esulta contro l’obsolescenza programmata e parte la battaglia per una legislazione valida in tutto il paese. Anche l'Europa si muove, seppur lentamente

Nicoletta Fascetti Leon
Nicoletta Fascetti Leon
Giornalista pubblicista, allevata nella carta stampata. Formata in comunicazione alla Sapienza, in giornalismo alla Scuola Lelio Basso, in diritti umani all’E.ma (European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation) di Venezia. Ha lavorato a Ginevra e New York nella delegazione UE alle Nazioni Unite. Vive a Roma e da nove anni si occupa di comunicazione ambientale e progetti di sostenibilità

Sulle battaglie per i diritti, l’America ci insegna sempre qualcosa, anche quando parliamo di una rivendicazione apparentemente da “nerd”, come il diritto alla riparazione degli apparecchi digitali. Lo Stato di New York ha annunciato di recente che sarà il primo stato ad approvare una legge che riconosce questo diritto a tutti i cittadini. Un passo avanti che potrebbe generare una svolta globale. La rivendicazione del diritto alla riparazione delle apparecchiature digitali, infatti, non è cosa da poco, se si pensa agli interessi dei colossi della Silicon Valley, che non a caso si oppongono strenuamente al suo riconoscimento. In discussione è un intero modello di business e di guadagno – in questo caso, proprio del mercato delle apparecchiature elettroniche e digitali, ma non solo –  consolidato negli anni e passato indisturbato fino a tempi più recenti.

Tale modello si basa sull’obsolescenza programmata che, incrementando i consumi e i rifiuti, danneggia i cittadini e l’ambiente. Si tratta di una pratica aziendale volta a pianificare il fine-vita – o più precisamente la fine dell’efficienza – di un prodotto sin dalla sua ideazione, per fare spazio nel mercato, nell’arco di pochi anni, a un nuovo prodotto di uso identico, ma di “nuova generazione”. L’esempio più comune è quello dello smartphone, che ognuno di noi usa e sa – a prescindere dalla cura con cui lo tiene – che non durerà più di 2-4 anni.

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Obsolescenza vs circolarità

L’obsolescenza programmata può considerarsi l’alter ego del modello circolare dell’economia, che intende concepire i prodotti per farli durare il più a lungo possibile e prevederne la permanenza nel ciclo economico con “fine vita mai”. Fino a qualche decennio fa, è stato possibile per le aziende fare “cartello” e decidere quanto dovessero durare oggetti di consumo come le lampadine della luce, o le lamette dei rasoi, in modo da incrementare gli acquisti dai parte dei consumatori e i propri guadagni. Al di là delle strategie di obsolescenza programmata delle aziende, siamo tutti un po’ vittime del modello consumistico, che ci spinge a comprare cose che abbiamo già o che non ci servono davvero.

Ma quando le aziende fanno deliberatamente in modo di “sabotare” i propri prodotti per farceli buttare via, si spingono in una pratica illegale. È quello che è successo con alcuni prodotti di Apple e Samsung, sanzionate dall’Antitrust nel 2018 per aver “realizzato pratiche commerciali scorrette in violazione degli articoli 20, 21, 22 e 24 del Codice del Consumo in relazione al rilascio di alcuni aggiornamenti del firmware dei cellulari che hanno provocato gravi disfunzioni e ridotto in modo significativo le prestazioni, in tal modo accelerando il processo di sostituzione degli stessi”.

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Il right to repair può cambiare il volto dell’industria

Al di là di strategie commerciali scorrette, esistono molti modi per i produttori degli apparecchi elettronici, come laptop e cellulari, per ostacolare la longevità e la riparabilità dei propri prodotti: aumentare, per esempio, in modo esorbitante i costi di riparazione, oppure non fornire i pezzi e le istruzioni per le sostituzioni alle piccole aziende che sarebbero disposte a fare le riparazioni a prezzi più bassi. È per questo che il Digital Fair Repair Act di New York, recentemente approvato dal senato dello stato e che presto passerà all’assemblea per la sua approvazione, intende obbligare i produttori a rendere disponibili informazioni, pezzi di ricambio e strumenti di riparazione diagnostica, sia alle persone fisiche che alle officine autorizzate.

Il movimento del right to repair ha preso le mosse da una più attenta analisi delle conseguenze del consumismo sull’ambiente, oltre che sulle tasche dei cittadini. Man mano che il movimento si consolida, le aziende dovranno cambiare il modo in cui sono abituate a fare i propri affari. Più della metà degli stati negli USA stanno ora valutando una qualche forma di legge che renda più facile riparare le proprie cose, evitando rifiuti difficili da smaltire, come quelli elettronici, e costi eccessivi per i cittadini.

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Le reazioni USA al right to repair

Anche gli azionisti di Microsoft, attraverso l’associazione no-profit As you sow, hanno fatto sentire la propria voce attraverso una risoluzione a sostegno della legge in approvazione nello stato di New York e del Fair Repair Act presentato al Congresso degli Stati Uniti da Joe Morelle. “Microsoft si posiziona come leader in materia di clima e ambiente – ha dichiarato Kelly McBee di As You Sow  – ma facilita la fine prematura dei suoi dispositivi in ​​discarica limitando l’accesso dei consumatori alle riparazioni”. È opinione comune che per intraprendere un’azione genuina sulla sostenibilità e allentare la pressione sul pianeta con l’estrazione di risorse limitate, come i metalli preziosi di cui sono fatti i circuiti elettronici, le aziende devono estendere la vita dei propri dispositivi facilitando l’accesso alle riparazioni.

“Le grandi aziende tecnologiche – ha dichiarato Kerry Sheehan di iFixit – non dovrebbero essere in grado di dettare il modo in cui utilizziamo le cose che possediamo o impedirci di aggiustare le nostre cose”. “Garantire che le persone possano riparare i dispositivi e rivolgersi a officine di riparazione indipendenti non fa solo risparmiare denaro – ha commentato John Bergmayer di Public Knowledge – produce anche significativi benefici ambientali, riducendo i rifiuti elettronici e la produzione di CO2.

Nell’arena statunitense, prevedibilmente, ci sono anche i detrattori come l’Equipment Dealers Association e i suoi partner secondo i quali una legislazione di questo tipo danneggerebbe i rivenditori locali, mettendo i clienti e il pubblico a rischio di lesioni, con un impatto negativo anche sull’ambiente. La battaglia al Congresso è aperta.

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Anche l’Europa si muove

Il problema è altrettanto sentito anche in Europa. Sul tema l’Unione europea si è espressa con l’approvazione del Regolamento 2021/341 che obbliga i produttori di apparecchi elettronici come lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e televisori a rispettare determinati criteri di progettazione e realizzazione, per fare in modo che risultino facili da riparare anche al di fuori dei circuiti ufficiali. Con il diritto alla riparazione, inoltre, i produttori sono obbligati a rendere disponibili i pezzi di ricambio, finora spesso introvabili, e le relative istruzioni, aspetto fondamentale per i grossi elettrodomestici che rientrano tra i rifiuti Raee. È inoltre in corso la Sustainable Product Initiative, che punta a creare nell’Unione un mercato di soli prodotti sostenibili, sin dal loro design.

A gennaio 2021 la Francia, sulla spinta del movimento per il diritto alla riparazione, ha introdotto l’indice di riparabilità dei dispositivi elettrici ed elettronici. Si tratta di un elemento di informazione con una scala che va da 0 a 10 e aiuta i cittadini a distinguere i prodotti che, una volta guasti, potranno essere più o meno riparabili. Se la battaglia sul diritto alla riparazione dei dispositivi digitali sarà vinta negli USA, ce ne accorgeremo anche a casa nostra. Con pezzi di ricambio e istruzioni disponibili a tutti, potremmo non sentirci dire più – come è probabilmente successo a ognuno di noi – “il suo smartphone è rotto, costa meno comprarne uno nuovo che ripararlo”.

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