Pare che il famoso scambio di competenze tra i ministri Fratin e Zangrillo, designati rispettivamente alla Pubblica Amministrazione e all’Ambiente e Sicurezza Energetica per poi scoprire che i ruoli dovevano essere invertititi, sia stato risanato perché Zangrillo avrebbe avuto timore di affrontare una questione spinosa e calda come la crisi energetica. E in effetti sull’energia il neonato governo Meloni si gioca molto della propria credibilità.
Lo scoglio più difficile da superare resta proprio quello del caro bollette che si unisce al reperimento del gas necessario per fronteggiare l’assenza del gas russo. Già negli scorsi giorni dal passaggio di Tarvisio, dove approda tramite il gasdotto TAG (Trans Austria Gas Pipeline) la maggior parte del gas russo, non si è registrata neanche una goccia di gas. Ma l’Italia, nonostante la rapidissima corsa del governo Draghi verso nuovi fornitori, non appare ancora pronta a sostituire 29 miliardi di metri cubi di gas (è la quantita di gas russo che arrivava in Italia nel 2021, prima della guerra in Ucraina).
Cosa farà in questo senso il governo Meloni? Proseguirà la strada tracciata da Draghi o metterà sul campo proprie soluzioni? Finora la premier non si è pronunciata su questi temi né, tantomeno, lo ha fatto il ministro Fratin – che credeva di essere passato alla Pubblica Amministrazione. A fare fede al programma elettorale torna utile il vecchio adagio “poche idee e pure confuse”.
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Cosa significa sicurezza energetica
Sulle denominazioni dei nuovi ministeri, e sulla riapproprazione da destra di determinate parole, si sono concentrati tanti giornali. Lo stesso tipo di analisi si può porre nel cambio voluto all’ex ministero dell’Ambiente, che ritorna tale. La transizione ecologica lascia il passo alla sicurezza energetica, dunque, e ciò lascia intuire che il governo Meloni intende mettere in secondo piano gli obiettivi ambientali. Preferendo approcciare le questioni energetiche unicamente come un accaparramento di risorse.
Da questo punto di vista la nomina del ministro Fratin è esemplare, dato che più volte lo stesso si è pronunciato a favore di un aumento delle estrazioni di gas in Italia. Come sanno però gli esperti, di gas in Italia ce n’è comunque poco e al momento l’unico giacimento copioso in più, in procinto di essere attivato, è quello di Argo Cassiopea, nella costa siciliana di Gela, dove Eni ha annunciato che potrà contribuire fino a 1 miliardo di metri cubi l’anno. Poca roba rispetto ai 29 miliardi russi. L’altro giacimento di dimensioni simili a quelle isolane è quello sull’Alto Adriatico, su cui però pende da anni una contesa con la Croazia e da cui in ogni caso, secondo le stime di Nomisma Energia (che appaiono ottimistiche), si potrebbero ricavare altri 3 miliardi di metri cubi l’anno.
Sul giornale Domani il giornalista ambientale Ferdinando Cotugno ha scritto che “l’unica sicurezza che il ministro Fratin è la difesa delle aziende“. Plausibile, ma va aggiunto che in realtà da anni la politica energetica dell’Italia viene dettata dai grandi colossi a partecipazione statale, Eni e Snam su tutte, e lo si è visto ultimamente proprio nella fase di rincorsa ai fornitori di gas. Nella fase di costituzione del governo Meloni si sarebbe rivolta, secondo le indiscrezioni dei giornali, prima a Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato di Eni, per poi passare ai suoi predecessori Scaroni e Bernabè. A loro avrebbe voluto affidare proprio la gestione dell’energia. Un segnale che lascia ulteriormente intendere la preferenza verso le fonti fossili, a discapito delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica e della riduzione della produzione.
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Il nodo di Piombino
Il Foglio lo ha definito un “bel regalo“, l’ultimo del governo Draghi. Di certo il rigassificatore di Piombino, sul quale è arrivato il sì dalla parte della Conferenza dei Servizi lo scorso 21 ottobre, è un’opera che farà ribollire qualche stomaco all’interno di Fratelli d’Italia, il partito di Meloni. A partire dal sindaco della città toscana Francesco Ferrari, esponente di FdI, che ha già annunciato ricorso al Tar contro la decisione presa ufficialmente dopo una valutazione di impatto ambientale ma sulla quale, in realtà, la spinta decisiva è arrivata con il decreto Aiuti del governo Draghi.
Un decreto che non solo ha previsto il commissariamento per l’opera, con lo scopo di accelerare i tempi, ma soprattutto ha spalmato la spesa per la sua realizzazione per i prossimi 20 anni, destinando al rigassificatore parte dei Fondi per lo Sviluppo e la Coesione. Anche in questo caso finora la premier Meloni ha preferito non pronunciarsi apertamente, pur lasciando trapelare il proprio parere positivo a fine agosto quando ha parlato di “compensazioni” adeguate per il Comune di Piombino.
Se appare inevitabile che Fratelli d’Italia dovrà affrontare un po’ di “maretta” interna – ma bisogna riconoscere che non sono state indicate delle alternative – ciò non dovrebbe pregiudicare la tenuta del governo. Anzi, al massimo il “caso Piombino” appare indicativo di un fronte più ampio che potrebbe pregiudicare la stabilità, vale a dire “l’eccessiva” continuità con il governo Draghi. Osteggiato quando FdI era all’opposizione, anche sulle politiche energetiche, e di cui potrebbe raccogliere molte eredità.
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Le consegne del governo Draghi
Fino all’ultimo giorno utile l’ormai ex presidente del Consiglio Mario Draghi ha lavorato, esercitando i pieni poteri, per ricucire la falla aperta dall’assenza del gas russo. L’ultimo passaggio di testimone in questo senso è avvenuto il 21 ottobre, dove il Consiglio europeo ha votato alcune decisioni (che comunque dovranno poi essere approvate dalla Commissione): “acquisto congiunto volontario di gas”, “l’accelerazione delle negoziazioni con partner affidabili”, “un nuovo benchmark complementare entro l’inizio del 2023 che rifletta in modo più accurato le condizioni del mercato” e soprattutto “un corridoio dinamico temporaneo dei prezzi sulle transazioni per limitare immediatamente gli episodi di prezzi eccessivi”.
Quest’ultimo è il cosiddetto “price cap“, o “tetto al prezzo del gas“, tanto voluto da Draghi negli scorsi mesi. La formula che ha messo d’accordo i 27 Stati membri dell’Unione europea è però una formula vaga e difficilmente applicabile. Quel che appare in ogni caso difficilmente ereditabile è l’autorità indiscussa di Draghi a livello europeo così come la capacità di mediazione. D’altra parte sorge una domanda: se neppure uno come Draghi è riuscito a far approvare una misura come il tetto, pieno, al prezzo del gas, cosa potrà fare Meloni? E ancora: quali margini di manovra avrà d’ora in poi l’Italia? La destra italiana cercherà alleanze tra i propri simili – Ungheria e Polonia su tutte – o ribadirà l’asse con Francia e Germania, come invocato da Draghi fino all’ultimo? Si tratta di questioni essenziali per la futura strategia energetica del nostro Paese.
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L’ex ministro Cingolani diventa consulente
La lettura prevalente sul governo Meloni è quella di un’ampia continuità con il governo Draghi, che potrebbe scatenare qualche malumore interno. Non sorprende quindi che uno dei primi atti conseguiti dal neonato esecutivo vada proprio in questa direzione. Da fonti di governo, a riportarlo è l’agenzia Ansa, si è appreso che l’ex ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani lavorerà a Palazzo Chigi come consigliere.
Nello specifico Cingolani sarà un advisor per l’energia, e lo farà a titolo gratuito. Forse è la volta buona che l’ex ministro smetterà di professare il suo ottimismo sugli stoccaggi di gas, e dovrà ammettere che continuando come se nulla fosse si dovrà andare di razionamenti e riduzione della produzione? Potrà riprendere a sostenere il nucleare, come fatto a più riprese durante il suo incarico nel governo Draghi, e ad attaccare gli ambientalisti?
L’ultimo nodo da sciogliere, infine, riguarda il modo in cui si vorrà fronteggiare il caro bollette. Il governo Draghi ha messo in campo quasi 60 miliardi di euro in un anno per attutire i rincari. Meloni ha già detto che non intende ricorrere a scostamenti di bilancio, al contrario del suo alleato e vicepremier Matteo Salvini.
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