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domenica, Dicembre 22, 2024

Trattato globale sulla plastica, ce la faremo entro il 2024?

I progressi fatti a Ottawa con l’ultimo Comitato intergovernativo di negoziazione (INC-4) sono minimali. Tanto che qualcuno si interroga sull’opportunità di prolungare i lavori oltre la data (2024) indicata dalla risoluzione dell’ONU

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Quando a Ottawa, Canada, il 23 notte si chiude la quarta sessione del Comitato intergovernativo di negoziazione per il trattato internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica (INC-4), Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), afferma che gli obiettivi della vigilia di questa sessione di lavoro sono stati raggiunti: ma sono obiettivi minimali, progressi quasi impercettibili se commisurati al percorso ancora da fare per arrivare all’obiettivo. “Siamo venuti a Ottawa per far avanzare il testo e con la speranza che i membri si accordino sul lavoro intersessionale necessario per compiere progressi ancora maggiori in vista dell’INC-5”, ha detto: “Lasciamo Ottawa avendo raggiunto entrambi gli obiettivi e avendo davanti a noi un percorso chiaro per raggiungere un accordo ambizioso a Busan”. Ma “il lavoro, tuttavia, è tutt’altro che finito. La crisi dell’inquinamento da plastica continua a travolgere il mondo e mancano pochi mesi alla scadenza di fine anno concordata nel 2022. Esorto i membri a mostrare un impegno costante e una certa flessibilità per raggiungere la massima ambizione”. Ad incrociare questa dichiarazione con quelle delle associazioni ambientaliste e con le iniziative dei Paesi più sinceramente impegnati per un trattato robusto dovremmo parlare forse di ottimismo della volontà. A Ottawa, infatti, non ci sono stati progressi reali sul testo del trattato, non sulle parti rilevanti che riguardano un tetto alla produzione, limiti al monouso, un bando per gli additivi pericolosi, i finanziamenti per gestire la crisi globale della plastica. E, stando a diverse ricostruzioni, anche i Paesi più motivati, quelli riuniti nella  High Ambition Coalition, alla prova dei fatti non hanno spinto l’acceleratore con convinzione.

Quanto al lavoro intersessionale, si tratta delle “riunioni di esperti” che si svolgeranno prima dell’ultima sessione ufficiale dell’INC (INC-5, dal 25 novembre al 1° dicembre 2024 a Busan, Repubblica di Corea: ricordiamo che il mandato dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente è concludere i lavori entro il 2024): difficile che degli esperti spianino la strada senza quel mandato politico di cui a Ottawa si è patita la mancanza. Il rischio, paventato alla vigilia di INC-4, è che si porti sì a casa un risultato, ma un risultato a ribasso: un trattato che guardi al problema plastica solo nelle ultime fasi dei ciclo di vita (la gestione dei rifiuti) piuttosto che coinvolgere anche la produzione dei polimeri, il design dei prodotti, l’uso degli additivi.

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Limiti alla produzione globale di plastica

 L’elefante nelle stanze che hanno visto al lavoro oltre 2.500 delegati rappresentanti 170 Paesi è la limitazione alla produzione di plastica vergine. Come abbiamo già raccontato alla partenza dei lavori di Ottawa, uno zoccolo duro di Paesi legati economicamente ai combustibili fossili (come Arabia Saudita, Russia, Iran, Cina) ha fatto muro rispetto a questa ipotesi. Secondo Joan Marc Simon, Fondatore e direttore di Zero Waste Europe, se “è positivo che siano stati fatti alcuni passi avanti sui prodotti in plastica, il design, la riutilizzabilità e la riciclabilità”, tuttavia, “il tema più critico, la necessità di ridurre la sovrapproduzione, è stato sempre messo da parte”. Graham Forbes, capo delegazione di Greenpeace ai negoziati e responsabile della campagna Global Plastics di Greenpeace USA, ha dichiarato: “Il mondo sta bruciando e gli Stati membri stanno perdendo tempo e opportunità. Abbiamo assistito a qualche progresso, favorito dai continui sforzi di Stati come il Ruanda, il Perù e i firmatari della dichiarazione Bridge to Busan, che hanno spinto a ridurre la produzione di plastica. Tuttavia, sono stati fatti dei compromessi sul risultato che non hanno tenuto conto dei tagli alla produzione di plastica, allontanandoci ulteriormente dal raggiungimento di un trattato che la scienza richiede e la giustizia esige”.

 Forbes accenna alle due due iniziative più rilevanti avvenute in Canada. La prima è stata la proposta congiunta di Ruanda e Perù – sostenuta nella plenaria del penultimo giorno da oltre 50 Stati membri – per stabilire l’obiettivo “40X40”: riduzione del 40% la produzione rispetto al 2025 entro il 2040.

 L’altra è “The Bridge to Busan Declaration”, una reazione allo stallo nei negoziati sottoscritta da 33 Paesi (non l’Italia) per sottolineare che “l’intero ciclo di vita della plastica comprende la produzione di polimeri plastici primari”. In questo manifesto si ricorda che “gli studi dimostrano che il mondo non potrà raggiungere gli obiettivi di porre fine all’inquinamento da plastica e di limitare l’aumento della temperatura media globale a meno di 1,5° Celsius se non si affronta il problema della produzione insostenibile di polimeri plastici primari”. I 33 firmatari chiedono a tutti i Paesi di “impegnarsi a raggiungere livelli sostenibili di produzione di polimeri plastici primari”. Chiedono un “accordo su un obiettivo globale relativo alla produzione sostenibile di polimeri primari di plastica” che “può comprendere il congelamento della produzione a livelli specifici, riduzioni della produzione rispetto a valori di riferimento concordati o altri vincoli concordati per prevenire la produzione non sostenibile di polimeri primari di plastica”. Insomma un tetto, in forme da stabilire, alla produzione.

“Fin dall’inizio dei negoziati, sappiamo che è necessario ridurre la produzione di plastica per adottare un trattato all’altezza delle promesse fatte all’UNEA due anni fa. A Ottawa, abbiamo visto molti Paesi affermare, a ragione, che è importante che il trattato affronti la produzione di polimeri plastici primari”, ha commentato David AzoulayCenter for International Environmental Law (CIEL): “Ma per tutta la settimana abbiamo visto molti membri della High Ambition Coalition, compresa l’Unione Europea, abboccare all’amo [dei Paesi che frenano l’accordo]. L’ipocrisia è stata evidente anche nelle posizioni di presunti leader come gli Stati Uniti”.

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Foto: Canva

Trattato globale sulla plastica: la linea degli USA

“Gli Stati Uniti devono smettere di fingere di essere leader e riconoscere che stanno portando un fallimento”: così Carroll Muffett, presidente del Center for International Environmental Law riflette con Inside Climate News sulla posizione adottata dagli Usa nelle trattative. “Quando il più grande esportatore di petrolio e gas del mondo, e uno dei maggiori artefici dell’espansione della plastica, dice che ignorerà la produzione di plastica a spese della salute, dei diritti e delle vite della sua stessa popolazione, il mondo lo ascolta.” Ancora Inside Climate News racconta di uno scambio di email precedente l’incontro di Ottawa con un portavoce del Dipartimento di Stato in cui il funzionario ha piegato perché gli Stati Uniti guardano con scetticismo la limitazione della produzione di plastica: “Temiamo che un accordo che preveda tetti universali alla produzione, divieti sui prodotti e altri approcci prescrittivi possa indurre i Paesi – soprattutto i principali produttori e consumatori di plastica – a non aderire all’accordo, mettendo così a rischio i progressi verso il nostro obiettivo comune di affrontare l’inquinamento da plastica”. L’obiettivo dovrebbe invece essere ”cambiare radicalmente il nostro rapporto con la plastica. Ciò significa rendere più sostenibile ogni fase del ciclo di vita della plastica”.

Una questione di fondi

Come avvenuto per le COP sul clima, uno dei punti di caduta delle trattative riguarda i fondi da mettere in campo per gestire la crisi. Le economie più ricche, quelle che hanno maggiore responsabilità nella crisi globale della plastica, puntano sul Fondo mondiale per l’ambiente (Global Environment Facility, GEF). Chi questi soldi dovrebbe riceverli però, cioè i Paesi economicamente più deboli (che sono quelli che dovrebbero pagare i costi maggiori ), lamenta il fatto che si tratta di uno strumento spuntato: “I meccanismi di finanziamento di altri accordi ambientali multilaterali non funzionano per noi”, ha dichiarato Sivendra Michael, negoziatore principale delle Fiji a Ottawa. Per questo, Paesi come Figi, Ruanda, Cile, Micronesia e Senegal hanno proposto di creare un nuovo fondo per aiutare i Paesi svantaggiati a gestire programmi e politiche per affrontare l’inquinamento da plastica. “Dobbiamo progettare un pacchetto finanziario completo, nuovo e con finanziamenti adeguati, prevedibili, sostenibili e a lungo termine”, ha detto ancora Michael. Ma chi dovrebbe tirare fuori i soldi? Stati Uniti e all’Unione Europea chiamano in causa le istituzioni finanziarie e il settore privato. Arabia Saudita e Cina puntano sulle donazioni volontarie attraverso il GEF. “Ottenere fondi dai donatori non è sufficiente. Dobbiamo pensare fuori dagli schemi e coinvolgere il settore privato”, ha dichiarato Lydia Essuah, negoziatrice per il Ghana. Proprio il Ghana ha proposto di imporre tasse ai produttori di plastica da destinare alle gestione dei rifiuti disperi. Tra i temi emersi a Ottawa, ad esempio, la creazione di sistemi di responsabilità estesa del produttore per il fine vita dei prodotti di plastica. Anche nella forma di “crediti di plastica” (sulla falsa riga dei crediti per il riciclo).

Leggi anche: Microplastiche nei tessuti sintetici, quante ne indossiamo?

Il lavoro delle lobby

Quasi 200 lobbysti dell’industria chimica e dei combustibili fossili si sono presentati a Ottawa, secondo un report del CIEL. Il 37% in più rispetto al precedente incontro di novembre. Per pesare la presenza dei lobbitsi, il CIEL ha utilizzato i dati di registrazione forniti dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente contando i rappresentanti delle compagnie petrolifere, delle aziende chimiche ma anche le organizzazioni non profit o i think tank che da queste industrie ricevono finanziamenti. Il numero dei lobbisti pro-plastica registrati supera quello dei rappresentanti diplomatici delle delegazioni dell’Unione Europea (180 persone), secondo l’analisi del CIEL.

trattato globale plastica
Foto: Canva

Rimandare il trattato sulla plastica al 2025?

Gli scarsi risultati raggiunti hanno fatto ipotizzare di posticipare la conclusione dei lavori oltre alla data indicata nella risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente. “Quando manca solo un INC alla conclusione del processo, la prospettiva di ottenere un trattato significativo che affronti la produzione dipende dalla promozione di un dialogo aperto e onesto. A tal fine è necessario stabilire i percorsi necessari, il che significa che può essere essenziale prolungare i negoziati per un altro anno e aggiungere altre 2 o 3 sessioni INC”, secondo Joan Marc Simon di ZWE. La stessa esigenza è stata sostenuta anche da chi lavora per indebolire il trattato: come riferisce Reuters, il principale negoziatore cinese a Ottawa, Yang Xiaoling, ha affermato esplicitamente che i Paesi dovrebbero ridurre le loro ambizioni di raggiungere un consenso su un trattato entro quest’anno.

Di parere diverso altre associazioni ambientaliste. “Dobbiamo lavorare di più da qui alla fase finale dei negoziati se vogliamo ottenere un trattato efficace e legalmente vincolante che le persone e il pianeta meritano”, ha sostenuto Erin Simon, vicepresidente e responsabile rifiuti di plastica del WWF. La stessa linea, almeno a parole, delle industrie chimiche: “Sebbene l’INC-4 abbia fatto passi avanti verso un testo definitivo, c’è ancora molto da fare. Esortiamo i negoziatori a continuare a fare progressi attraverso il lavoro intersessionale nei prossimi mesi”, ha dichiarato Chris Jahn, segretario dell’International Council of Chemical Associations.

Leggi anche: “Il riciclo della plastica è una frode”, secondo un report del Center for Climate Integrity

L’impegno (vago) dei Paesi del G7

Sul tema inquinamento da plastica si sono fatti sentire anche i Paesi del G7, i cui ministri dell’Ambiente si sono riuniti a Torino il 29 e 30 aprile. Si legge infatti nel comunicato conclusivo: “Il G7 rinnova il suo impegno a porre fine all’inquinamento da plastica, con l’ambizione di ridurre a zero l’inquinamento aggiuntivo da plastica entro il 2040 e di sostenere il Comitato intergovernativo di negoziazione (INC) affinché completi il suo lavoro per sviluppare uno strumento internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica, anche nell’ambiente marino, entro la fine del 2024, basato su un approccio globale che affronti l’intero ciclo di vita della plastica e promuova la produzione e il consumo sostenibili”.

A promuovere alla dichiarazione sarebbe stato Christophe Béchu, ministro francese della Transizione ecologica. Che su X ha scritto. “L’inquinamento da plastica è una questione importante che si trova all’incrocio di tre grandi crisi globali: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’inquinamento. Per la prima volta, su iniziativa della Francia, i Paesi del G7 hanno assunto un impegno comune per ridurre la produzione e il consumo di plastica e rendere il settore tessile più circolare e sostenibile. Sono determinato a condurre questa lotta su tutti i fronti, in Francia, in Europa e a livello internazionale”.

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