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venerdì, Maggio 17, 2024

Chi era Laura Conti, la pioniera dell’ecologismo che abbiamo dimenticato

Partigiana, deportata in un campo di concentramento, parlamentare, medica impegnata nella difesa della salute nei luoghi di lavoro, narratrice e divulgatrice. Laura Conti è stata una figura di spicco del Novecento, poi dimenticata. Ne offriamo un ritratto a partire dai suoi scritti

di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi

Lo sguardo in prospettiva, al di là dell’immediato, sia nello spazio che nel tempo, e la scrittura divulgativa di una scienziata come Laura Conti è quello che oggi manca. Infatti Laura non c’è. È morta il 25 maggio del 1993. Se fosse ancora qui tra noi oggi avrebbe più di cento anni, essendo nata il 31 marzo del 1921, a Udine, qualche anno dopo la fine della prima guerra mondiale, da una famiglia costretta a cambiare più volte città: da Trieste a Verona e poi a Milano, perché il padre di Laura era un antifascista. Lei, figlia unica, di quegli anni aveva un ricordo limpido, come scriveva nei suoi manoscritti: “La mia divenne una famiglia che si opponeva al mondo, disperata e molto sola”.

Una grande famiglia

Crescendo la sua famiglia divennero le amicizie, le compagne e i compagni dei partiti dove militava, le centinaia di persone che incontrava nei luoghi di lavoro e di attivismo, nelle scuole dove insegnava e in quelle dove andava a spiegare alle bambine e ai bambini come funziona il pianeta Terra in cui siamo capitate.

Attiva nella Resistenza come partigiana, staffetta con il nome di Luisa e poi deportata in un campo di concentramento, è stata dirigente – spesso non allineata e non convenzionale – del più grande partito comunista occidentale e al tempo stesso medica impegnata nella difesa della salute in fabbrica e nei luoghi di lavoro, amministratrice pubblica e narratrice di talento. Non si è mai sposata, non ha avuto figli, viveva ospite – come amava ripetere – delle gatte che popolavano la sua casa.

Rimossa dalla memoria collettiva

Dopo la sua morte Laura Conti è sparita in gran parte anche dalla memoria pubblica del nostro paese, il patrimonio culturale di Laura Conti non è stato né valorizzato, né capitalizzato. Non c’è nei libri di storia, non c’è nei luoghi dove la storia si fa.

I partiti, le associazioni, i movimenti che lei ha attraversato, dopo la sua morte hanno cambiato passo e l’hanno dimenticata, cancellata, o prelevano farina dal suo sacco senza mai citarla. Hanno custodito il suo nome per un premio di giornalismo ambientale e per la miglior tesi di laurea, un piccolo giardino a Milano, una strada e una scuola media, qualche circolo di questa o quella associazione ecologista. Alcune donne, giornaliste e ricercatrici provano a tenere viva la sua memoria, mentre la maggior parte degli uomini sembra aver rimosso, forse proprio perché non si rivolgeva loro come fosse una madre, ma come la donna che era, una donna libera, spregiudicata, coraggiosa, scomoda, di eccezionale vitalità e combattività.

Laura non c’è nei grandi discorsi ambientalisti ed ecologisti della sinistra italiana degli ultimi trent’anni eppure Laura è stata marxista, comunista e insieme ambientalista, divulgatrice e parlamentare. Era tanto, forse per molti era troppo. E di più, perché era anche romanziera, affabulatrice, scrittrice compulsiva e appassionata lettrice, curiosa della curiosità stessa. Ma sapeva essere anche pedante, volendo fastidiosa e polemica, mai condiscendente, studiosa puntuale, attenta, scrupolosa, addirittura assillante. Era soprattutto un incredibile spirito critico, spiazzante, eretica, bizzarra.

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Laura Conti, una presenza critica

Quando le donne entrano in campi del sapere tradizionalmente maschili si sa che danno fastidio. E oggi Laura Conti non è onorata come una delle più grandi ambientaliste scientifiche che il Novecento ci ha regalato.

Un vero peccato, perché la sua pratica politica era radicata nei territori non solo perché è lì che accadono le cose, ma anche perché era convinta che bisogna parlare alle persone che li vivono. La fuoriuscita di diossina dalla fabbrica dell’ICMESA a Seveso nel 1976 porta Laura Conti sui luoghi contaminati per spiegare alle abitanti del luogo i rischi che correvano, e quello che veniva loro nascosto, per dar loro gli strumenti per scegliere e agire. La politica, pensava Laura, non può cadere solo dall’alto con norme e leggi, ha bisogno di relazioni costanti e proficue. Era convinta che bisognasse avere l’ambizione e la pazienza di spiegare anche i termini scientifici più rigorosi e complessi, perché dove c’è la volontà politica, non c’è nulla che non possa essere spiegato e discusso. Contrapponeva il suo ambientalismo scientifico all’ambientalismo elitario, quello che non si traduce in una crescita collettiva. Da comunista era persuasa che la collettività va praticata giorno per giorno e da ecologista era ben consapevole che non c’era ancora stato alcun partito – neanche il suo! – che avesse nel proprio patrimonio rigore e coerenza di scelte per ciò che riguarda la tutela ambientale.

Oggi, nel tempo pandemico da cui fatichiamo a uscire, con un’altra guerra che ci coinvolge da vicino, la sua presenza critica e indagatrice sarebbe stata indispensabile.

L’approccio di Laura e del suo ambientalismo scientifico sarebbe stato fondamentale perché avrebbe dato alla prevenzione la stessa priorità data alla cura, cura che troppo spesso e volentieri ricade solo sulle donne.

Laura, infatti, aveva certo colto nel segno: il criterio di sviluppo e di economia e la nozione di produzione che abbiamo raggiunto si basano su posizioni razziste, patriarcali, sessiste e ingiuste perché disuguali e totalmente ecocide.

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Crimini contro l’ambiente, crimini contro l’umanità

Distruggere un ecosistema, sterminare una specie, rubare terra e acqua a essere viventi e popolazioni indigene, sono crimini contro l’umanità al pari del genocidio e degli altri crimini contro la pace. Per questo è ancora attuale quello che disse Laura in una lettera contenuta nell’archivio della Fondazione Luigi Micheletti, nel suo essere anche profondamente gramsciana: “C’è una maggioranza assolutamente silenziosa e assolutamente invisibile, dotata di un potere immenso: le sue leggi segrete infiltrano tutte le forze politiche e sindacali, le università e le fabbriche, gli ambienti culturali, pur non possedendo giornali o riviste, né televisioni private e nemmeno una scalcinatissima stazione radio, pur non pubblicando mai né libri né articoli, nemmeno alla macchia, per sostenere in maniera esplicita le proprie opinioni, riesce tuttavia a imporle, con ferrea compattezza, quasi in tutte le grandi e piccole scelte collettive. Chiamo questa forza oscura partito degli antiambientalisti, pur avvertendo che non è un partito. Questo partito non sostiene che l’inquinamento fa bene alla salute, né che le piogge acide raddoppiano la fruttificazione degli alberi, né che le frane assestando il terreno a quote più basse gli conferiscono maggiore stabilità. Nulla di così paradossale.

Perché la maggioranza silenziosa ancora oggi vive del non prendere posizione, del rimanere nella zona grigia accontentandosi di una informazione mordi e fuggi, subendo con irresponsabile fatalismo le crisi ambientali prima ancora di quelle economiche e sociali.

Di seguito un estratto da un suo manoscritto:

“[…] Non è romanticheria riflettere che i nostri antenati piantavano alberi di noce, e noi – nel migliore dei casi – pioppeti. Chi non fa nulla per la pace, chi non fa nulla per l’ambiente, implicitamente ci invita a rassegnarci a questo stato di cose, a rinchiuderci nel “qui e ora”, senza esplorare con lo sguardo né lo spazio, né il tempo. E quindi si capisce molto bene che taccia, che non prenda parte, che parli di rado e con pochi argomenti stereotipati, che non agiti né pensieri, né bandiere, che faccia appello soltanto a una solidarietà silenziosa. Come una complicità”.

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