Dal primo gennaio 2022 è operativo il primo Atto delegato della Commissione europea sulla tassonomia. Al suo interno si trovano le indicazioni su quali settori e attività economiche sono compresi nella tassonomia stessa e quali sono i criteri tecnici per considerarli allineati agli obiettivi della mitigazione dei cambiamenti climatici e l’adattamento ai cambiamenti climatici.
Vi avrebbero dovuto far parte anche gas e nucleare, ma le difficoltà nel trovare un accordo hanno spinto Bruxelles a stralciarle dal documento e a discuterne separatamente con gli Stati membri elaborando un Atto delegato complementare, atteso per il 21 gennaio. Proprio questa mattina sul Financial Times si apprende che il gruppo di scienziati consultati dall’Unione europea ha criticato la scelta della Commissione di dare al gas e al nucleare l’etichetta green, secondo le anticipazioni diffuse negli scorsi giorni (e in cui anche l’Italia ha avuto il proprio ruolo)
Stesso destino per l’agricoltura: in questo caso, tutto rimandato al prossimo Atto delegato. Mentre tutti guardano alla “partita” sull’energia, EconomiaCircolare.com sceglie dunque di fare il punto su un’altra tassonomia, quella relativa alla mitigazione e all’adattamento, che è già stata approvata. Ecco cosa prevede.
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Cosa cambia per aziende, banche e fondi di investimento
L’Atto delegato su mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici comprende settori importanti come i trasporti, inclusi quelli marittimi, l’edilizia, il manifatturiero, le biomasse e le fonti di energia rinnovabili. Messi insieme coprono il 40 per cento delle attività delle società quotate e valgono l’80 per cento delle emissioni di gas serra dell’Unione europea.
I criteri elaborati nell’Atto delegato permetteranno alle aziende finanziarie e non finanziarie di capire quanto siano in linea con gli obiettivi di mitigazione dei cambiamenti climatici e di adattamento agli stessi. “Questo favorirà il finanziamento delle attività a bassa impronta di carbonio e combatterà il greenwashing”, è stato il commento della commissaria per i servizi finanziari Mairead McGuinness.
Anche se le prime verifiche sull’attuale grado di allineamento alla tassonomia delle attività e dei portafogli di investimento delle imprese per quanto riguarda i criteri climatici hanno evidenziato quanto sia in generale basso (tra l’1 per cento e il 5 per cento, con zero allineamento per molte imprese e portafogli di investimento).
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Le reazioni al primo Atto delegato
Il risultato raggiunto nel primo Atto delegato è stato apprezzato dai tecnici della piattaforma della finanza sostenibile, che hanno collaborato con la Commissione nella stesura del documento, e dalle associazioni ambientaliste. Mariagrazia Midulla, responsabile clima ed energia del WWF, lo definisce un “grande passo in avanti”. Mentre per quanto riguarda i trasporti Luca Bonaccorsi, dell’ong Transport&Enviroment e membro della piattaforma per la finanza sostenibile, sostiene sia una decisione “visionaria”.
Unica “pecca”, non da poco: le biomasse e la gestione delle foreste. Qui gli umori cambiano notevolmente. Bonaccorsi parla senza mezzi termini di “scandalo”, ma dichiarazioni dure sono arrivate da tutte le associazioni ambientaliste, tra cui lo stesso WWF. Ecco cosa prevede nel dettaglio l’Atto delegato in questi due settori chiave. Basti pensare che solo i trasporti contribuiscono per quasi il 26 per cento delle emissioni di gas a effetto serra totali dell’Unione europea.
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Il settore dei trasporti: obiettivo emissioni zero
Partiamo dagli aspetti positivi. “Sul settore dei trasporti è una tassonomia che guarda al futuro e afferma un concetto fondamentale: l’unica auto verde possibile è quella a zero emissioni”, commenta Luca Bonaccorsi. In pratica, dal 2026 solo le auto a batteria elettrica oppure a idrogeno potranno ottenere la patente “green”.
“Un bel colpo alla Fiat e a tutti i produttori che negli ultimi anni non hanno investito seriamente nell’elettrico e hanno pochi modelli adatti”, aggiunge l’esperto di T&E. Infatti, le auto ibride plug-in saranno considerate green solo fino al 2025, “quindi alcune case automobilistiche rischieranno di essere verdi al 2-3 per cento”, avverte Bonaccorsi.
E lo stesso accadrà con i camion: “Sono tutti fuori dalla tassonomia, visto che l’unico camion riconosciuto verde è elettrico o ibrido”. Il fatto è che attualmente i camion di questo tipo sono pochi. “Solo Volvo è avanti nella ricerca di camion a basse emissioni, Iveco e Daimler sono usciti per la prima volta sul mercato solo nell’autunno 2021”, spiega l’esperto di T&E. Un serio problema per l’Italia, dove il trasporto merci avviene principalmente su ruota.
E non è l’unico. Basti pensare che nel 2021, in base ai dati forniti dagli operatori del settore, in Italia c’erano 24.794 colonnine di ricarica per 47mila auto elettriche. Considerando l’impennata di vendite attesa nel futuro (già rispetto al 2020 la crescita è stata del 168 per cento) il pericolo è che il mercato non sarà in grado di assorbire un numero elevato di auto a batteria per l’assenza di punti di ricarica.
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Il problema degli autobus a gas e delle navi
Dove, invece, è mancato coraggio alla Commissione europea, secondo Bonaccorsi, è nel trasporto pubblico urbano. “Inizialmente – racconta – era considerato green solo se a zero emissioni, poi sono stati inseriti gli autobus a gas: ma si tratta dell’ennesimo combustibile fossile, con trascurabile riduzione degli inquinanti e dei gas climalteranti”, sostiene il membro di T&E.
Lo stesso si può dire per il trasporto marittimo, sia per quanto riguarda i cargo sia le navi da crociera. “Tutte le navi che usciranno dai cantieri entro la fine del 2025 saranno green”, spiega Bonaccorsi. “Potete immaginare quanto catrame bruci per muoversi una nave intercontinentale”, sottolinea.
Mentre dal 2026 saranno green solo le navi a zero emissioni. Che ancora, però, non esistono. Insomma, l’Atto delegato su questo aspetto è poco chiaro e la Commissione europea stessa si è resa conto siano necessari degli aggiustamenti. Già dal prossimo anno le regole verranno riviste e probabilmente andranno nella direzione di prevedere un periodo di transizione più ragionevole.
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Lo “scandalo” delle foreste
L’errore più vistoso contenuto nel primo Atto delegato sulla tassonomia, secondo i tecnici della piattaforma per la finanza sostenibile e le associazioni ambientaliste, riguarda però il settore della gestione delle foreste e della selvicoltura e le biomasse. “In pratica si può tagliare e abbattere alberi senza restrizioni, in base a criteri completamente al di fuori di ogni valutazione scientifica. Con il serio rischio di compromettere la biodiversità e danneggiare il clima”, accusa Mariagrazia Midulla.
Insomma, senza pericolo di estremizzare: chi produce pellet sarà considerato alla pari di un’azienda di pannelli solari, a patto rispetti alcune limitazioni sulla deforestazione che secondo le associazioni ambientaliste definire “generose” è un eufemismo. Mentre sono giudicate insufficienti le misure per la protezione dei boschi. Tanto che le ong, durante i lavori, sono uscite per un mese dalla piattaforma per la finanza sostenibile in segno di protesta.
L’Atto delegato, per come è stato approvato, di fatto classifica il disboscamento industriale e l’utilizzo di legname per scopi energetici come investimenti sostenibili. Nonostante siano evidentemente due attività dannose, come ricorda Bonaccorsi: “La lotta ai cambiamenti climatici si fa con la riduzione delle emissioni e con l’aumento dei sink, tutto ciò che assorbe il carbonio. Quando si taglia una foresta e si brucia legname avviene esattamente l’opposto, si riducono i sink e aumentano le emissioni”, spiega.
Eppure, nelle considerazioni che precedono il regolamento dell’Atto delegato la Commissione europea era stata chiara nell’individuare gli obiettivi. “Per raggiungere la neutralità climatica e godere di un ambiente sano – si legge nel documento – occorre incrementare la qualità e la quantità delle superfici forestali, che rappresentano il principale pozzo di assorbimento del carbonio nel settore dell’uso del suolo”.
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Dietro la decisione una lobby influente e “aggressiva”
Niente di tutto ciò si ritrova nell’Atto delegato nella pratica, è l’accusa mossa a Bruxelles. A finire sul banco degli imputati è il comportamento aggressivo delle potenti lobby svedesi e finlandesi del legname, che hanno trovato il sostegno dei loro Paesi e hanno stravolto questa parte del regolamento.
Il governo finlandese, in fase di trattativa, ha contestato i criteri tecnici della tassonomia per la gestione delle foreste, ritenendoli “ambigui” e “aperti a diverse interpretazioni”. Del resto, la selvicoltura rappresenta il 20 per cento delle esportazioni finlandesi. La Svezia si è immediatamente allineata, dati gli interessi comuni, visto che si tratta della terza industria forestale al mondo.
Una tassonomia rigorosa avrebbe indubbiamente reso più difficile accedere ai fondi per gli investimenti forestali e rappresentato un freno alle attività economiche ed energetiche che ruotano intorno alla selvicoltura. Perciò i governi di Finlandia e Svezia hanno lavorato per trovare alleati tra i Paesi con vaste risorse naturali e bassa densità di popolazione, sostenendo venissero maggiormente danneggiati dalla tassonomia, con cui fare pressioni sulla Commissione europea per modificare le regole.
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Le biomasse: il pericolo di applicare solo criteri produttivi
Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda le biomasse. La Finlandia è riuscita a creare un fronte, composto da Svezia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia e Polonia, per chiedere alla Commissione europea di riconoscerle come “cruciali per i mix energetici dei Paesi”. Indebolendo così la tassonomia.
“Se si tratta di aziende agricole che utilizzano i residui di lavorazione in piccole centrali a biomassa è una soluzione per produrre energia a chilometro zero senza controindicazioni”, premette Midulla del WWF. Diverso è il discorso per le coltivazioni di soia al solo scopo di produrre biocarburanti oppure le piantagioni di alberi a rapida crescita per avere legname. “In entrambi i casi – spiega Midulla – dal punto di vista ecologico hanno scarso valore perché non contribuiscono alla biodiversità e non è neppure detto che il bilancio nell’assorbimento di carbonio sia in attivo”.
Senza contare quanto siano fragili queste piantagioni, come hanno dimostrato i recenti casi in cui sono state spazzate via dalle tempeste di vento a causa della debolezza delle radici. Mentre le foreste hanno un altissimo valore ecologico e contribuiscono alla biodiversità grazie al sottobosco, dove si trovano gli alberi morti.
“Applicare criteri strettamente produttivi alla biodiversità e non proteggere adeguatamente le foreste è pericoloso”, mette in guardia la responsabile clima ed energia del WWF. Secondo Midulla, il rischio è andare incontro a situazioni come in Asia, in cui le foreste sono state abbattute per fare posto a coltivazioni vantaggiose dal punto di vista economico ma non ecologico.
Per fortuna, non è ancora detta l’ultima parola. L’Atto delegato contiene una clausola sia per le biomasse sia per le foreste che permette una revisione e un aggiornamento dei criteri basandosi su dati scientifici. Cosa che sicuramente avverrà, secondo gli ambientalisti, perché così come è stata elaborata questa sezione dell’Atto delegato è inadeguata agli obiettivi climatici del Green Deal.
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