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domenica, Maggio 19, 2024

Bandi MiTE per l’economia circolare: molto rumore per poco

I bandi del Ministero per la Transizione Ecologica (MiTE) destinati al settore dei rifiuti stanno dimostrando di avere diversi limiti. Dopo le polemiche degli stakeholder e la poca qualità dell’offerta, soprattutto dal Sud, il Mite ha prorogato di un mese la deadline per la presentazione dei progetti

Antonio Pergolizzi
Antonio Pergolizzi
PhD in Scienze Sociali, laurea in Scienze Politiche e master in Relazioni Internazionali. Analista ambientale, esperto di (eco)mafia e corruzione e in genere di Compliance e Public Affaires, è Advisory per Ref Ricerche e consulente di enti pubblici (tra cui il Commissario Straordinario per le bonifiche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e privati. È membro dell’Osservatorio Antimafia della Regione Umbria, insegna e fa ricerca in diverse università e svolge docenze in numerosi master e percorsi formativi, sia accademici che professionali. Dal 2006 è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente

Come avevamo facilmente profetizzato qualche mese fa da queste stesse pagine, i bandi del ministero per la Transizione Ecologica (Mite) destinati al settore dei rifiuti stanno dimostrando di avere il fiato corto. Lo dicono molti operatori ascoltati per questo lavoro, che hanno preferito non comparire trattandosi di iter procedurali ancora in corso. L’obiettivo di fondo dei bandi dovrebbe essere di migliorare l’intelaiatura dei vari modelli di gestione dei rifiuti, cucire le varie tessere, dando omogeneità. I finanziamenti dovrebbero servire a questo, a unire i puntini. Lo stanno facendo?

Sebbene la partita non sia ancora finita, la gran parte degli ascoltati concorda su alcuni difetti di impostazione dei bandi: senza alcuna programmazione di carattere nazionale – il Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti (PNGR) del Mite è ancora in fase di VAS –, si è finito per confondere una parte con il tutto e, soprattutto, confondere i mezzi con i fini, alimentando distorsioni di mercato – principalmente nei progetti Faro –, il tutto aggravato da una tempistica che non si addice affatto per operazioni così complesse. La fretta non è mai buona consigliera e l’efficienza non si ottiene spingendo sull’acceleratore, alla cieca, anche considerando che in assenza di adeguati meccanismi di compliance preventivi, e una valanga di soldi pubblici in arrivo, si rischia di incentivare ulteriormente confusione e opacità. Diverse procure antimafia sono già al lavoro.

Viste le polemiche e le aspre critiche di molti stakeholder e la poca qualità dell’offerta a pochi giorni dalla chiusura dei termini, soprattutto proveniente dal Sud, il Mite è stato costretto a prorogare di un mese la deadline per la presentazione dei progetti, che slitta a metà marzo. Una piccola boccata d’ossigeno soprattutto per i progettisti.

I limiti dei bandi

Quali limiti, dunque? Intanto si è scelto di finanziare con 1,5 miliardi di euro (la fetta più grossa delle risorse a disposizione – l’Investimento 1.1 della Missione 2 del Pnrr) gli enti locali e in generale gli Egato (cioè gli Enti di governo d’ambito, laddove esistono) per sostenere la chiusura del ciclo dei rifiuti urbani, ossia del 10% dell’ammontare prodotto ogni anno.  Senza una pianificazione nazionale e solo sulla base dei Piani Regionali, si è dato mandato ai singoli attori locali di ritagliarsi il proprio spazio, con il rischio di ingenerare delle sovrapposizioni o addirittura alimentare disomogeneità impiantistiche (con ovvie ripercussioni sulla loro tenuta economica) a livello di macro aree, bene che vada a beneficio degli enti con migliori capacità progettuali. Peraltro, non essendo gli enti locali delle imprese e non avendo di solito dimestichezza con le catene del valore ha prevalso, naturalmente, l’approccio di puntare su impianti intermedi e di prima selezione. Ovviamente il recupero è faccenda completamente diversa. L’economia circolare non è mestiere degli enti locali.

Secondo Andrea Razzini, CEO di Veritas, per esempio, tra i limiti del PNRR c’è quello di non guardare ai mezzi di trasporto, quasi considerandoli come un trascurabile orpello. Al contrario, sarebbe bastato incentivare il rinnovo del parco mezzi, spesso composto da autoveicoli vecchi e logori per i troppi chilometri macinati, soprattutto dove c’è il porta-a-porta. La leva fiscale in questo senso avrebbe potuto sostenere soprattutto chi finora ha lavorato bene ed è stato davvero sul campo raccogliendo in maniera particolarmente selettiva. Se peraltro, continua Razzini, è ragionevole aver assicurato il 60% alle Regione del Centro Sud, salvo eccezioni quelle che hanno fatto peggio, sarebbe stato altrettanto ragionevole ipotizzare forme di premialità a chi, invece, finora si è impegnato nella direzione giusta, per dare in qualche modo riconoscimento al merito. Invece nulla.

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Innovazione tecnologica

Così come altrettanto discutibile appare – nel tipico approccio della burocrazia europea, molto in voga anche nelle stanze del nostro Mite – l’enfasi riconosciuta, a tavolino, all’innovazione tecnologica, vista quale strada obbligata per migliorare il sistema. Una presunzione priva di fondamento, almeno per chi conosce il settore. Dove si è fatto male o peggio non è dipeso dall’assenza di tecnologia ma dai deficit di governance, dalle incapacità delle classi dirigenti, dalle inefficienze gestionali e dalla generale maladmistration, se non quando malaffare.

Quindi, per ottenere punteggi e strizzare l’occhio al Mite quasi ogni proposta progettuale è stata farcita di riferimenti tecnologici ad arte, al solo fine di soddisfare le voci innovazione e digitalizzazione, qualche chip per stare dalla parte giusta.

Come fanno notare molti operatori – tra cui Unirima, associazione che riunisce le imprese attive nel recupero e riciclo di carta e cartone – non si capisce per quale ragione un progetto debba essere finanziabile solo nella misura in cui contenga “innovazione tecnologica”. Paradossalmente, ma nemmeno tanto, un progetto buono solo sulla carta ma ricco di software accumula maggiori punteggi di uno che mira invece, semplicemente, a migliorare un pezzo della filiera, anche senza ricorso a chissà quale tecnologia. Questa dovrebbe essere un mezzo, non un fine. E il fine dovrebbe essere di efficientare e migliorare le filiere, nell’ottica di garantire la migliore tutela ambientale e sanitaria attraverso metodi improntati all’economicità, all’efficienza e alla trasparenza.

Alla fine, dunque, non sorprende se stanno arrivando al Mite progetti per finanziare prevalentemente isole ecologiche e centri di trasferenza e qualche digestore o impianto di essiccazione/disidradatazione dei fanghi e poco altro. Quindi, se tutto andrà bene, avremo attinto ai soldi del PNRR, quindi un’altra voce di debito, per costruire impianti che avrebbero dovuto trovare posto con la semplice gestione ordinaria e tramite il finanziamento attinto dalla Tari (la bolletta pagata dai cittadini), seguendo le indicazioni di ARERA sulla tariffa puntale a copertura dei costi/efficienti, comprendendo anche gli investimenti per la chiusura efficiente del ciclo.

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Biodigestori nelle grandi città

L’unica buona notizia è che sembra realistica la nascita di biodigestori in alcune grandi città perennemente in emergenza, soprattutto Roma e Napoli, anche se – ripetiamolo – si tratta di impianti che potevano vedere la luce semplicemente grazie alla tariffa e operando nel mercato, come fanno da decenni diversi operatori. Insomma, molto rumore per poco. Probabilmente fa ancora più presa per i ministeri accedere a nuovi debiti nella babele del mercato finanziario privato che costruire sistema.

Rifiuti speciali

Le criticità si confermano anche sul restante 90% dei rifiuti prodotti dal mercato, ossia gli speciali, ai quali sono stati riservati 600 milioni tramite i “progetti Faro”. Puntando soprattutto su filiere già sottoposte a schemi di responsabilità estesa del produttore – EPR (Raee, carta e cartone e plastiche) o in via di prossima definizione (tessile) – il Mite sta lavorando su uno schema di EPR da applicare al settore tessile e il ricorso a tale meccanismo è ritenuto utile dalla gran parte degli operatori -, di fatto si rischia di creare meccanismi distorsivi del mercato, andando a finanziare settori già coperti da forme di finanziamento pubblico. Il contributo ambientale dei modelli di EPR, pagato teoricamente dai produttori/importatori al momento dell’immissione nel mercato dei beni e che alla fine si scarica sul prezzo finale (paga come sempre il consumatore finale, come con l’Iva), è già una forma di finanziamento pubblico destinato – in teoria – proprio a spostare la produzione verso forme più circolari (in ossequio alla gerarchia prevista dal TUA – art. 179) e a risolvere i fallimenti di mercato, garantendo sempre la raccolta, anche nelle condizioni più avverse.

Nel caso dei consorzi, per esempio, partecipare ai bandi è un controsenso o, ancora peggio, una concorrenza (sleale) nei confronti dei propri soci. Se questi, enti senza scopo di lucro, nascono esclusivamente per assolvere all’obbligo di raccolta dell’equivalente immesso nel mercato dei propri soci-produttori, dando applicazione al principio europeo del chi-inquina-paga, che senso ha partecipare ai bandi?

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Il paradosso dei produttori

Dal lato dei produttori, invece, considerato che si muovono all’interno di logiche di mercato, il Mite dovrebbe semmai incentivarli a ridurre la produzione di rifiuti, agendo su ecodesign ed ecoprogettazione, non certo incentivarli a riciclare i rifiuti che loro stessi hanno prodotto (guadagnando così un extra profitto). Ciò non ha nulla di sostenibile, considerato che con questo aiuto l’effetto paradossale potrebbe essere di togliere ogni incentivo a ridurre, il vero fine dell’EPR. Finanziando nuovi impianti di riciclo, infatti, si rischia di alimentare una spirale perversa di produzione e riciclo senza limiti, dove la circolarità starebbe solo nei bilanci dei produttori. Gli interventi pubblici del Mite dovrebbero incentivare scelte sostenibili, a monte e a valle, lasciando comunque il mercato libero di regolarsi di conseguenza.  Insomma, per come sono stati pensati i bandi potrebbe essere provvedimenti che portano la firma del Ministero dell’Economia e Finanze (MEF), non certo dal Mite.

Cosa succede con i RAEE?

Ciò vale, per esempio in modo particolare per il settore dei RAEE (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche), i cui circuiti ufficiali attualmente riescono a raccogliere solo tra il 35 e il 40% dell’equivalente dell’immesso nel mercato, con uno spreco enorme di risorse e materie prime critiche, che finiscono anche per alimentare il mercato illegale. Come sanno bene gli operatori, non servono impianti random in giro per l’Italia ma serve costruire l’intera filiera, in grado di migliorare, oltre alla raccolta, soprattutto le fasi del remanufacturing e rigenerazione per il mercato del riuso e, infine, del recupero di materia. Senza una filiera efficace, capace di valorizzare ogni anello della catena, generando efficienza in ogni suo punto, nessun progetto può stare in piedi.

Secondo Erion – il principale sistema collettivo dei produttori –, circa il 18% del peso complessivo dei RAEE è costituito da frazioni di valore economico medio-alto quali metalli e sostanze contenute nei componenti elettronici, nei motori elettrici, nei gioghi di deflessione, nei compressori, nelle schede elettroniche e nei circuiti stampati. Si può dunque prudenzialmente stimare che il valore economico totale dei materiali ottenibili da un riciclo ottimizzato sia pari a circa 50 milioni di euro. Allo stesso tempo, si stima che il 90 delle suddette frazioni venga ceduto ad impianti esteri, generando introiti per appena 10 milioni di euro. L’emorragia verso l’estero delle frazioni pregiate è il vero nodo da sciogliere per consentire di far nascere anche in Italia una vera filiera del riciclo, rompendo la pericolosa dipendenza dagli altri paesi.

Consapevole dell’esigenza di avere sempre una visione di sistema, e agendo di conseguenza, sempre Erion alla fine del 2020 ha proposto al Mite un Piano articolato su 5 iniziative progettuali, complementari e integrate, prevedendo: 5 impianti di idro/bio metallurgia per recupero delle critical raw materials; 1.000 eco-point di piccole-medie dimensioni distribuiti in maniera capillare nel paese per intercettare più e meglio i RAEE da destinare sia alla preparazione per il riutilizzo che al riciclo; 100 centri di remanufacturing di apparecchi domestici; 2 impianti di riciclo delle plastiche ricavate dai RAEE; 2 impianti di riciclo dei pannelli fotovoltaici. Un progetto con una visione di sistema che avrebbe richiesto investimenti per 120 milioni di euro, che in appena quattro anni si sarebbe ripagato da solo e fatto dell’Italia, probabilmente, un paese leader del settore. Il piano è sempre stato in mano del Mite, che invece ha scelto la strada dei bandi del Pnrr, giocando solo di rimessa.

Insomma, se il miglior rifiuto è quello non prodotto, perché non si è puntato tutto sulla prevenzione? È qui che l’innovazione tecnologica avrebbe dovuto svolgere un ruolo chiave, è qui che si sarebbero dovuti fare gli investimenti pubblici a sostegno di policy capaci veramente di “rendere l’Italia un campione globale della transizione ecologica” (cit. ministro Cingolani).

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L’impiego di strumenti economici e fiscali

Appare evidente che per aiutare la transizione ecologica, oltre alla prevenzione, si dovrebbero usare strumenti economici e fiscali per sostenere i mercati delle materie prime-seconde, come dovrebbero già fare il Green public procurement (GPP) e i relativi Criteri ambientali minimi (CAM). Se le materie vergini continuano a costare meno di quelli provenienti dai rifiuti è qui che serve lavorare, non finanziare impianti per produrre materie senza sbocco. Probabilmente, l’impiego di strumenti economici tesi a colmare i fallimenti di mercato, principalmente in termini di sbocchi finali, avrebbero giocato un ruolo più efficace.

Sotto questo aspetto, l’enfasi del ricorso alla tecnologia sembra più orientato a coprire l’assenza di un nuovo e più efficiente framework di riferimento. È sin troppo evidente che la vera innovazione è di processo, di costruzione di reti, di osmosi, non di macchine. Prima di infilarli in una immaginaria macchina mangiatutto (come ancora in tanti pensano che esista veramente) i rifiuti vanno raccolti separatamente, trasportati e selezionati ulteriormente, e dopo ancora serve trovargli un mercato, una convenienza economica, che puntualmente si assottiglia a ogni passaggio. Prima delle macchine ci vuole una mission, uomini di buona volontà e un lavoro di squadra, e pure una politica all’altezza, che invece sembra precipitata in uno spaventoso vuoto. Buttarla in denari è un facile modo per non vederlo, quel vuoto.

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