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venerdì, Maggio 17, 2024

Presadiretta e il mal di plastica: “Per ridurre l’usa e getta servono regole più severe di sistema”

La recente inchiesta del programma Presadiretta si è concentrata sulle conseguenze della sovrapproduzione di plastica, tra le microplastiche ormai nel nostro corpo e le zone di sacrificio dove viene gettato ciò che non si può riciclare. Ne abbiamo discusso con la giornalista Teresa Paoli

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Mal di plastica è la recente inchiesta giornalistica del programma tv Presadiretta che ha messo nel mirino la sovrapproduzione di plastica, ha messo in evidenza come le microplastiche abbiano da tempo contaminato anche i nostri corpi, ha illustrato le difficoltà del riciclo e ha suggerito alcuni modelli positivi che si applicano già in giro per il mondo. Sono tutti temi che chi legge EconomiaCircolare.com conosce bene ma uno dei meriti del programma in onda sulla Rai è di averli resi accessibili a una platea più ampia, senza cedere a facili sensazionalismi e allo stesso tempo con una visione sistemica che va oltre le buone pratiche.

Di questo e di altro abbiamo parlato con la giornalista Teresa Paoli, tra le autrici di Mal di plastica.

Ci sono state reazioni alla vostra inchiesta? Da Eni e le aziende fossili fino alle industrie del riciclo, in tanti non ne escono bene… E quali sono stati i commenti delle telespettatrici e  dei telespettatori?

A livello ufficiale non c’è stata nessuna reazione dall’industria del fossile dopo la puntata, ma noi abbiamo interpellato tutti i settori prima. Non pensiamo che le industrie del riciclo non ne escano bene, perché abbiamo voluto evidenziare quali siano i limiti meccanici del riciclo delle plastiche, e non è certo colpa dell’industria del riciclo. Abbiamo anche sottolineato che il problema più grande è la sempre maggiore produzione di plastica, a cui il riciclo non riesce a stare dietro. Tra le telespettatrici e i telespettatori, che sono il nostro unico punto di riferimento, le sensazioni sono state varie e alcune di queste molto forti. A volte temi complessi hanno il risultato di veicolare la semplice indignazione mentre noi speriamo che l’indignazione si trasformi in riflessione, in sforzo concreto per migliorare le cose tutti insieme. Per esempio dire che le plastiche sono complesse da riciclare, non significa smettere di differenziarle bene, ma al contrario premere sulla politica perché legiferi sulle plastiche superflue e progettate male.

Il tuo reportage sulle discariche a cielo aperto in Turchia mi ha fatto pensare alle “zone di sacrificio”, così definite recentemente dall’Onu, luoghi cioè che vengono sacrificati in nome del profitto: cosa ti ha colpito in particolare di quell’esperienza?

Hai usato l’espressione giusta e penso che nessuno l’abbia mai applicata a quell’area della Turchia. Personalmente ho visto una situazione simile soltanto al confine tra Louisiana e Texas, dove la concentrazione di raffinerie e terminali di gas naturale liquefatto è pari solo alla concentrazione di povertà ed eventi estremi. In Turchia le aree dove abbiamo trovato la plastica europea abbandonata o bruciata sono anche quelle adiacenti ai quartieri più poveri e dove la contaminazione dell’acqua e dei suoli, non crea immediato scandalo. Questo dovrebbe interrogarci sulla nostra “presunzione” etica. Io e il filmmaker che era con me, Fabio Colazzo, siamo tornati piuttosto sconvolti da questa esperienza. Senza contare che a pochi giorni dal nostro ritorno quella regione della Turchia è stata colpita da un terremoto devastante.

La vostra inchiesta ha cambiato il modo in cui ti approcci alla vita di ogni giorno? La plastica è meno presente nella tua vita? E se sì in che modo?

Quando ho iniziato a studiare per questa inchiesta insieme alla collega Paola Vecchia, avevo un’idea di cosa significassero le plastiche ma non avevo capito quanto fosse complessa la questione. La sola scoperta della plastica segnalata come “7” quella che prende il nome di “other” nei miei imballaggi è stata una sorpresa perché non ci avevo mai fatto caso. Aver scoperto che per la “plastica 7” non esiste ancora alcuna filiera di riciclo mi ha scioccato. È cambiata dunque la mia consapevolezza e anche il mio disagio nello scoprire quanta plastica usa e getta, spesso non riciclabile, mi passasse sottomano. Il cambiamento dei comportamenti individuali è importante e necessario ma sono sempre più convinta che non sia sufficiente se non supportato da politiche nazionali e internazionali. Per decenni ci hanno inculcato come il problema dei rifiuti fosse qualcosa da risolvere lavorando solo sulla responsabilità individuale, sulla “colpa individuale” e non attraverso regole più severe di sistema e una riduzione sostanziale dell’usa e getta. E negli ultimi decenni la situazione non ha fatto che peggiorare. I rifiuti di plastica sono a livello globale fuori controllo e le stime dell’OCSE, dunque non di un’associazione ambientalista, ci dicono che triplicheranno entro il 2060.

Come giudichi la posizione italiana sul regolamento europeo sugli imballaggi? E’ stato detto più volte che il nostro Paese costituisce un’eccellenza nel riciclo, ed evidentemente vuole mantenere questo primato: per quello che hai visto è opportuno e possibile riconvertire le aziende del riciclo?

Dal mio punto di vista le aziende del riciclo hanno tutto l’interesse perché il regolamento europeo sugli imballaggi venga applicato alla lettera. I riciclatori sono coloro che ne beneficeranno di più. E poi si sta parlando di plastica. E il riciclo della plastica è nettamente in svantaggio rispetto al riciclo di altri materiali per tutti gli argomenti di cui abbiamo parlato nell’inchiesta. Fa resistenza l’industria, soprattutto quella del food e beverage, perché è vero che per investire nel “riuso” dei propri imballaggi, nell’eco design, nella riduzione, servono investimenti e serve riconvertire un sistema. L’Europa si è detta sensibile a fare deroghe e aiutare la piccola e media impresa. E poi fanno resistenza i consorzi che hanno un sistema rodato di raccolta dei rifiuti. In buona parte d’Italia siamo efficientissimi a raccogliere. Ma abbiamo più volte dimostrato quanto questa efficienza non sia omogenea nei territori e come “differenziare” non equivalga a “riciclare”.  È su questo punto che il regolamento europeo dovrebbe incidere.

Delle soluzioni positive, quelle di cui avete parlato anche voi, come il deposito su cauzione e la riduzione dell’usa e getta. noi scriviamo sin dalla nostra nascita. Ma la sensazione è che il regno della plastica, seppure recente, è difficile da scalfire o abbattere. Specie dopo il Covid, con l’usa e getta che viene disciplinato per legge e l’incapacità di andare oltre la raccolta differenziata. Quali sono le tue sensazioni a riguardo?

So quanto siete sensibili all’argomento e quante battaglie avete fatto a riguardo da sempre. Le colleghe Daniela Cipolloni ed Eleonora Tundo hanno egregiamente raccontato alcune delle soluzioni in campo per ridurre lo spreco della plastica. La mia sensazione è che la strada sia difficilissima finché ogni stato e ogni gruppo di interesse faranno da sé. Per questo considero il Trattato globale sulla plastica al quale stanno lavorando le Nazioni Unite una vera svolta perché definirebbe azioni da intraprendere a livello planetario e lungo l’intero ciclo di vita della plastica. Non per niente è stato definito “l’accordo ambientale multilaterale più significativo dall’accordo di Parigi”.

Leggi anche: Trattato globale sulla plastica, iniziano i lavori per il secondo round di negoziazione

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