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venerdì, Maggio 17, 2024

Preparazione per il riutilizzo, analisi e criticità del decreto ministeriale

A 13 anni di distanza dal recepimento della direttiva europea sui rifiuti arriva il decreto ministeriale sulla preparazione per il riutilizzo, ovvero di tutto ciò che accade prima che uno scarto torni a essere considerato un prodotto. Finalmente il settore ha una cornice legislativa ma non mancano le perplessità

Antonio Pergolizzi
Antonio Pergolizzi
PhD in Scienze Sociali, laurea in Scienze Politiche e master in Relazioni Internazionali. Analista ambientale, esperto di (eco)mafia e corruzione e in genere di Compliance e Public Affaires, è Advisory per Ref Ricerche e consulente di enti pubblici (tra cui il Commissario Straordinario per le bonifiche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e privati. È membro dell’Osservatorio Antimafia della Regione Umbria, insegna e fa ricerca in diverse università e svolge docenze in numerosi master e percorsi formativi, sia accademici che professionali. Dal 2006 è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente

Sebbene dopo un lungo ritardo, durato più di un decennio, il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (MASE) ha definito le condizioni normative per lo svolgimento delle attività indirizzate alla preparazione per il riutilizzo, ovvero di tutto ciò che accade prima che uno scarto torni a essere considerato un prodotto, quindi non più un rifiuto. Come da copione non mancano le voci critiche.

Se, infatti, l’aspetto senz’altro positivo è che finalmente il settore ha una norma di riferimento, di negativo c’è l’approccio usato del legislatore, che, come denunciano gli operatori sentiti, rischia di mettere a rischio la professionalità e l’industrializzazione del settore.

Un settore, è bene ricordare, che vede l’Italia tra i paesi maggiormente attivi in Europa, con un giro d’affari stimabile, secondo la Rete Operatori Nazionali dell’Usato (ONU) in 1,6 miliardi di euro (dato riferito al 2021).

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Le caratteristiche della preparazione per il riutilizzo

Andiamo con ordine. Il decreto ministeriale n°119/23, che è entrato in vigore il 16 settembre, definisce quattro criteri imprescindibili per chiunque voglia cimentarsi in questa particolare attività di prevenzione nella generazione dei rifiuti. Esso stabilisce:

  1. Le modalità operative e i requisiti minimi di qualificazione degli operatori in procedura semplificata;
  2. Le dotazioni tecniche e strutturali necessarie per l’esercizio delle attività di cui al punto a);
  3. Le quantità massime impiegabili, la provenienza, i tipi e le caratteristiche dei rifiuti, nonché le condizioni specifiche in base alle quali prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono sottoposti a operazioni di preparazione per il riutilizzo;
  4. Le condizioni specifiche per l’esercizio di operazioni di preparazione per il riutilizzo.

Il decreto ministeriale n°119 spiega anche cosa debba intendersi per preparazione per il riutilizzo –  figura giuridica introdotta nell’ordinamento italiano nel 2010 con il recepimento della direttiva quadro rifiuti n. 98 del 2008 –, ovvero “le operazioni di preparazione per il riutilizzo hanno a oggetto rifiuti idonei ad essere preparati per il loro reimpiego mediante operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione che garantiscono l’ottenimento di prodotti o componenti di prodotti conformi al modello originario”. Fanno eccezione i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), i cui criteri minimi per verificare l’idoneità di cui sopra sono stabiliti dalla norma tecnica di settore, la CENELEC 50614:2020.

È necessario che i prodotti preparati superino una sorta di test di conformità, che secondo l’art. 3 si raggiunge “quando le operazioni di preparazione per il riutilizzo consentono di ottenere prodotti o componenti di prodotti che, rispetto ai prodotti originari, abbiano la stessa finalità per la quale sono stati concepiti e le medesime caratteristiche merceologiche e garanzie di sicurezza come individuate dalla normativa tecnica di settore ovvero gli stessi requisiti previsti per l’immissione sul mercato”. È necessario, quindi, che il responsabile del processo certifichi che si sia superato lo status di rifiuto.

Novità assoluta è, infatti, la previsione di una vera e propria etichettatura che deve indicare la seguente dicitura: «Prodotto preparato per il riutilizzo (PPR)». Nel caso di prodotti usualmente commercializzati per partite, l’etichettatura può essere apposta per singolo lotto imballato.

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Cosa è escluso dalla preparazione al riutilizzo

Il provvedimento si assume anche la responsabilità di escludere dall’ambito di applicazione del regolamento una serie di rifiuti, non di poco conto:

a) rifiuti destinati alla rottamazione collegata a incentivi fiscali;

b) rifiuti di prodotti a uso  cosmetico, farmaceutico e i rifiuti di prodotti fitosanitari;

c) pile, batterie e accumulatori;

d) pneumatici fuori uso (PFU);

e) RAEE aventi caratteristiche di pericolo e i rifiuti di prodotti contenenti gas ozono lesivi;

f) prodotti ritirati dal mercato da parte del produttore o sprovvisti di marchio CE ove previsto;

g) i veicoli fuori uso.

Le ragioni evidentemente di questa esclusione sono da ricercare a garanzia di maggiore tutela ambientale e per evitare, come nel caso degli PFU, che filiere disciplinate da schemi di responsabilità estesa del produttore (REP), quindi già coperte dal contributo ambientale, possano alimentare circuiti ambigui nel segmento dell’usato.

Mentre risulta meno comprensibile il motivo di escludere i frigoriferi e condizionatori (cioè apparecchi che contengono gas ozono lesivi) da tale procedura, che invece rappresenta una bella fetta di mercato dell’usato, anche in considerazione dei rischi ambientali legati al loro smaltimento.

È bene precisare che tale disciplina riguarda esclusivamente le operazioni di trattamento di oggetti classificati come rifiuti, mentre rimangono escluse le normali pratiche di riuso, cioè nei riguardi di beni che non hanno mai acquisito lo status di rifiuto. Mentre la recente riforma del TUA ha definitivamente distinto la preparazione per il riutilizzo dalla disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto (articolo 184-ter), essendo quest’ultima destinata prevalentemente a operazioni di riciclo e non di riuso.

Per tornare all’esempio dei pneumatici, se rimane consentito che si possano vendere e/o cedere pneumatici usati nel mercato del riuso e della ricostruzione, dal 16 settembre prossimo è  invece vietato che gli pneumatici classificati come rifiuti, quindi PFU, possano essere sottoposti a operazioni di preparazione per il riutilizzo, avendo quale unica strada il recupero, preferibilmente di materia e residualmente di energia, ai sensi del TUA e della gerarchia dei rifiuti (artt. 178-179).

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Il caso dei RAEE

Il decreto ministeriale n°119 prevede dei dettagliati requisiti oggettivi che devono essere in possesso dei centri per la preparazione per il riutilizzo, così come numerose prescrizioni sulle modalità di gestione, stoccaggio e trattamento dei rifiuti, che come filo conduttore hanno sempre la garanzia che le operazioni siano eseguite nella massima sicurezza, sia per l’ambiente che per gli stessi lavoratori.

Sono previsti pure dei requisiti soggettivi, come quello di essere cittadino italiano o di Stati membri dell’Unione europea (oppure se cittadino di uno Stato terzo, che almeno questo riconosca analogo diritto ai cittadini italiani, con l’obbligo di stabilire comunque il proprio domicilio in Italia), requisito evidentemente richiesto per evitare che soggetti privi di professionalità o di qualifiche riconosciute possano usare le attività di preparazione per il riutilizzo come paravento di attività illecite, potendo facilmente far perdere le proprie tracce all’occorrenza, senza pagare dazio, come succede spesso.

Ad ogni modo, tutti coloro che vorranno lavorare in questo settore “ad esclusione delle persone svantaggiate impiegate in percorsi di inserimento lavorativo”, dovranno dimostrare di possedere determinati “requisiti minimi”, tra diploma di scuola secondaria superiore conseguito, con specializzazione relativa al settore di attività, attestato di qualifica professionale ed esperienza pregressa nel settore per un periodo non inferiore a due anni.

Rispetto al caso particolare dei RAEE, il dm assegna al Centro di coordinamento RAEE il “corretto trasferimento delle informazioni funzionali alle operazioni di preparazione per il riutilizzo dei RAEE e la cura dell’aggiornamento professionale per chi intenda svolgere attività di questo tipo”. Previsione ritenuta dagli operatori alquanto vaga e che necessita di una precisazione ulteriore.

A differenza di quanto accaduto finora, alla fine del processo di preparazione per il riutilizzo, il singolo RAEE sarà reimmesso al consumo munito di etichetta recante l’indicazione «PPRAEE» e in ogni caso il gestore garantisce che il PPRAEE sia sicuro per l’uso come originariamente previsto, non metta in pericolo la salute e la sicurezza umana e assicura le informazioni nei confronti dei consumatori ai sensi della norma tecnica di settore CENELEC EN 50614:2020.

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I commenti al decreto

Se da parte ministeriale si saluta il provvedimento come utile a prevenire la produzione di rifiuti, dando finalmente un quadro normativo certo agli operatori del riuso, dalla parte di questi ultimi invece emergono perplessità soprattutto sui criteri (oggettivi e soggettivi) considerati troppo stringenti, che a loro parere rischiano di frenare, invece di accelerare, il percorso sulla strade del riuso.

Secondo Pietro Luppi, direttore dell’Osservatorio del riutilizzo,  “il decreto ministeriale 119 è positivo perché, in via generale, indica procedure operativamente fattibili e perché riconosce la professionalità necessaria alla preparazione per il riutilizzo. Ci sono però possibili problemi di applicabilità in merito alle procedure imposte sui RAEE e alle economie di scala necessarie a far funzionare gli impianti; i tetti quantitativi per aver diritto all’autorizzazione semplificata sono molto bassi e non è detto che siano compatibili con l’attività d’impresa”.

Ancora più critica Unirau, l’Unione delle imprese di raccolta riuso e riciclo dell’abbigliamento usato, che paventa il rischio di una polverizzazione dei soggetti attivi nel settore, a detrimento della qualità e della professionalità degli operatori. Per Andrea Fluttero, presidente di Unirau, “il settore della selezione è caratterizzato dalla presenza di imprese di varie dimensioni, ma con la tendenza progressiva a crescere in dimensione e tecnologie, imprese sempre più capaci di muoversi su una scala industriale, che riescono a ricavare il massimo del valore dai flussi delle raccolte urbane differenziate, sebbene si tratti di frazioni eterogenee. Con il nuovo regolamento si va in direzione contraria, ovvero si apre il campo a un moltitudine di piccoli operatori che, potendo selezionare il massimo di 200 tonnellate anno (l’equivalente della raccolta di un Comune di 50.000 abitanti), difficilmente saranno nelle condizioni di fare economia di scala, sia in termini di selezione che in termini di mercati di sbocco delle frazioni selezionate”.

In più, la difficolta di controllare una miriade di piccoli impianti di questa natura potrebbe aprire la strada a smaltimenti illegali e ai cosiddetti circuiti informali.  “Traspare – continua Fluttero – una visione vagamente naïf, la solita che si ripresenta ogni volta che si parla di riuso, che fa immaginare un settore popolato solo da volontari e con finalità esclusivamente sociali, quando in realtà è già oggi un settore industriale con un mercato consolidato e buone professionalità in campo, e dove in questi ultimi anni si è investito, eccome, tempo e denaro”.

Giorgio Arienti, direttore generale di Erion, sottolinea che, sebbene il decreto ministeriale abbia colmato un vuoto normativo, non è in grado di garantire che per i RAEE preparati per il riutilizzo ci sia effettivamente un mercato di sbocco. “In generale, l’efficacia delle operazioni di riutilizzo dipende essenzialmente da tre fattori: che si parta da RAEE di qualità, che le ore di lavoro non siano eccessive per non gravare troppo sui costi che li porrebbero automaticamente fuori mercato e che anche i pezzi di ricambio siano facilmente accessibili e a prezzi sostenibili. Dunque, perché queste operazioni possano avere un ritorno economico è indispensabile che l’offerta si costruisca con accordi presi con la distribuzione – è presso i rivenditori che si trovano i RAEE di qualità – e che si abbia accesso facile ai ricambi, altrimenti il gioco non vale la candela”.

Ma esiste davvero una domanda per tali prodotti usati (che dovranno incorporare anche il costo del lavoro effettuato e di eventuali ricambi), soprattutto considerati i prezzi relativamente bassi delle apparecchiature nuove? Nessuno sa dare una risposta.

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