Sono passati più di due anni dai primi ritrovamenti di carcasse di cinghiali affetti da Peste Suina Africana (PSA) in Piemonte e Liguria. Oggi l’area di contagio è quattro volte quella iniziale, copre tremila chilometri quadrati, i principali centri di contagio sono in Lombardia ed Emilia-Romagna, focolai minori sono stati rilevati intorno Roma, Salerno, Potenza, Reggio Calabria. Si era ben formati sul cosa fare, a incepparsi è stato il come, nei rimpalli tra burocrazie regionali e conflitti tra categorie.
Un lavoro insufficiente per la prevenzione delle cause si traduce in maggiori costi di mitigazione delle conseguenze: nella sola Lombardia si sono già spesi oltre 15 milioni tra i ristori economici agli allevatori e gli abbattimenti, operati su quasi 40 mila maiali, secondo gli ultimi dati diffusi a settembre 2023. In Regione se ne allevano oltre 4 milioni, la metà di tutti i suini in Italia. Gli allevatori operano secondo logiche aziendali, una morte compensata rientra nella contabilitá di impresa come qualsiasi altra regolare transazione dall’animale al ricavo. Questa non è la storia di una crisi sanitaria, non c’è alcun rischio per la salute umana, è la storia di una crisi economica, e in questa distinzione percettiva sta tutta la differenza del mondo.
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La cattiva gestione dell’epidemia di PSA tra ritardi e interessi
La malattia era già nota, circola in Sardegna dagli anni Settanta senza aver mai varcato i confini regionali. Questa volta, a preoccupare è fin da subito la grande concentrazione di allevamenti di maiali nelle regioni vicine. La PSA si trasmette da animale ad animale, senza distinzione tra cinghiali e suini domestici, che appartengono alla stessa specie, come ogni virus passa anche dal contatto tra superfici, da tracce sui vestiti, sotto le suole. Gli esperti concordano nel dire che sia stata inconsapevolmente introdotta dalle persone, non dai cinghiali: bisogna farne un racconto di sistema oltre la gestione della fauna selvatica, prestare grande attenzione alla movimentazione degli animali allevati, al lavoro degli operatori.
Due anni fa le autorità non erano impreparate, esiste da qualche anno un Piano nazionale di sorveglianza ed eradicazione della malattia. A gennaio 2022 scatta la sospensione dell’attività venatoria nelle aree boschive interessate, come da linee guida. Viene vietato anche il solo attraversamento: il rischio è quello di espandere l’area di contagio. Nessun allevamento è una scatola davvero chiusa al mondo esterno, occorre limitare gli spostamenti dei cinghiali anche attraverso barriere fisiche per contenere le aree di circolazione virale. Così prescrive il piano, così testimoniano le esperienze di successo di altri paesi europei.
Di fronte alla nuova situazione epidemiologica, le misure del Piano non sembrano convincere più la politica locale. Le recinzioni attirano antipatie diffuse: non piacciono né al settore turistico, né ai cacciatori, impediscono di andare a funghi, di tagliare il bosco. Si promette che le barriere saranno pronte per giugno 2022, ma si inizia a costruirle solo a luglio, senza mai finirle. Una recinzione non chiusa equivale però a nessuna recinzione, è una spesa pubblica inutile, un monumento alla lentezza e all’inefficienza della frammentazione amministrativa.
“La politica delle regioni inizialmente colpite è stata maggiormente attenta ad una parte dei portatori di interesse piuttosto che a una valutazione del danno economico e ambientale che la peste produce. Ognuno si è trovato il proprio esperto, ignorando le evidenze scientifiche, così si è potuto fare tutto e il contrario di tutto”. A dirlo è Vittorio Guberti, ricercatore veterinario di ISPRA. “L’Italia ha scelto una risposta muscolare, attraverso la struttura commissariale, promuovendo l’idea di una eradicazione a costo zero attuata quasi esclusivamente attraverso abbattimenti operati dai cacciatori. Tecnicamente è una scelta discutibile perché la peste continua ad uccidere più dei cacciatori, che sono sempre meno, sempre più anziani, non hanno una formazione specifica, se non tramite corsi di poche ore, spesso cacciano in braccata e in area infetta, facendo fuggire animali potenzialmente malati, accelerando il contagio. La caccia potrebbe dare un contributo essenziale solo se messa al servizio dell’eradicazione del virus, diretta in determinate aree e tempi. Parallelamente, mentre si parla solo di abbattimenti, manca completamente un sistema di raccolta delle carcasse infette nei boschi, un’importante fonte di contagio per i cinghiali sani. Oggi se ne recupera solo il 5%, occorre arrivare almeno al 80%, ma servono fondi”.
La PSA nei rifugi animali
Il fattore umano aggiunge imprevedibilità all’equazione del contagio. Il meccanismo di controllo veterinario e amministrativo non può filtrare tra le proprie maglie ogni furbizia, ogni omissione. Questo è successo a Zinasco, nel pavese, dove un allevatore ha scelto di non segnalare la morte di 400 maiali malati, generando una cascata di 9 focolai in Regione. Tra questi, anche il santuario animale Cuori Liberi, a Sairano, rifugio di animali usciti dal circuito degli allevamenti, mantenuti attraverso donazioni e lavoro volontario, senza alcuna produzione di carne o derivati. Non più cibo, non ancora animali da affezione, secondo l’ordinamento. I rifugi si trovano nella strettoia cognitiva di non poter accedere alle sovvenzioni per le misure di biosicurezza al pari delle aziende produttive, eppure è richiesto loro uguale sforzo e nessuna specificitá di trattamento.
“Se gli aiuti vengono distribuiti per arginare un rischio collettivo, perché scegliere di darli solo alle aziende? Si è scelto di tutelare la filiera, non certo l’interesse pubblico” racconta Sara D’Angelo, portavoce della Rete Nazionale dei Santuari. “Anche gli allevatori inadempienti hanno potuto accedere ai bandi successivi per mettersi in regola, noi abbiamo fatto tutto da soli. Il comparto racconta la tenuta di un sistema di eccellenze, ma il settore è fragilissimo: densità e povertà genetica negli allevamenti sono il terreno più fertile per la diffusione di epidemie”.
“I nostri maiali sono allo stato brado, esiste il rischio di contatto coi selvatici, certo, ma non escono mai da qui, a differenza di quelli destinati ai macelli, e poi sono pochi, li seguiamo con attenzione”. Di fronte all’emergenza anche il precedente riconoscimento giuridico salta, l’ASL applica ai maiali di Cuori Liberi lo stesso protocollo di abbattimento preventivo, tra il dolore e l’incredulità di attivisti e volontari che vedono soppressi i proprio maiali in una scena surreale di manganelli e copricalzari igienici.
La storia di Sairano rende l’idea di quanto sia ormai paranoico il dibattito tra comparto e istituzioni, che negando il valore sociale, educativo e culturale dei rifugi escludono la legittimità di qualsiasi dissidenza al tavolo decisionale. “Mai come dopo gli abbattimenti di Sairano abbiamo percepito una tale esposizione delle categorie produttive, si sono sentite attaccate, hanno mostrato forte chiusura, non vogliono si incoraggi un cambiamento nel modo di lavorare”, osserva D’Angelo.
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Le resistenze politiche dello status quo
“Ci sono province con più maiali che esseri umani, l’epidemia minaccia la sopravvivenza stessa di intere economie locali, eppure neanche questo è sufficiente a mettere in discussione un approccio che continua a fallire”, commenta Eleonora Evi, deputata alla Camera con l’Alleanza Verdi e Sinistra. “I macigni di resistenza dello status quo sono enormi, le istanze venatorie e zootecniche sono fortemente radicate in politica, a dispetto dei reali sentimenti della popolazione. La PSA ha fatto da leva politica per consentire tutto il consentibile ai cacciatori, rinnegando anche l’Articolo 9 della Costituzione e le direttive europee Habitat e Uccelli. È evidente la tendenza a normalizzare gli abusi, rincorrere le deroghe di emergenza in emergenza. Si è festeggiato quando la Commissione Europea ha tolto il divieto di esportazione dalla Sardegna, ma sono fuochi di paglia”.
Un’attitudine inscritta e sollecitata anche dal più ampio racconto di rimandi e miopie della PAC, la Politica Agricola Comune, che ancora assegna enormi quote di fondi pubblici europei ad allevamenti e monocolture intensive, spesso a loro volta destinate a diventare mangimi. “Il supporto politico è solido e trasversale”, denuncia Evi, “solo i partiti verdi e della sinistra radicale hanno votato contro il mantenimento dell’impianto corrente della PAC”.
Basterebbe già la drammatica realtà dei dati sulla qualità dell’aria in Nord Italia a indurre a pensare misure drastiche di trasformazione di processi e volumi dell’allevamento. La Pianura Padana ha una geografia sfavorevole, troppe case da riscaldare, persone da muovere, ma sono proprio gli allevamenti la seconda causa in Italia di PM2.5, il particolato più sottile e pericoloso, ne producono il 16,6% del totale (dati ISPRA 2019, anche se l’associazione Carni Sostenibili li contesta), più di tutti i trasporti, più dell’industria.
La relazione si spiega attraverso la pratica agricola dello spargimento dei fanghi della zootecnia, i liquami contengono ammoniaca, precursore delle polveri sottili. Ai costi ambientali e sanitari noti vanno sommati i rischi epidemiologici di diffondere materiale biologico potenzialmente infetto. La morfologia asfittica di Alpi e Appennini è un dato fisso, allevamenti, sussidi ed emissioni sono fattori mobili, scelte e mancate scelte di politica economica che collocano province come Brescia e Mantova tra le nuove zone di sacrificio.
Ripensare gli allevamenti significa trasformare i sistemi alimentari
Per spiegare la forza politica del comparto zootecnico occorre anche pensare alla sua complementarietà con la produzione agricola intensiva e specializzata. “Una volta la zootecnia serviva per mangiare, si curavano gli animali perché erano una fonte di cibo importante”, spiega Guberti di ISPRA, “oggi si ricorre al veterinario primariamente per garantire la commercializzazione internazionale delle produzioni animali”. I mercati richiedono volumi produttivi attendibili e certificati, la massimizzazione dei rientri economici.
“La zootecnia funziona da ingranaggio nell’economia agricola di scala, tanti animali servono anche a trasformare in proteine i tanti scarti delle monocolture. Si pensi alle enormi quantità di crusca, alle barbabietole da zucchero, all’uva da vino, usarli per la produzione di mangimi consente di recuperare un ricavo da quello che sarebbe altrimenti solo un rifiuto”. Non si tratta di circolarità ma di circolo vizioso.
Secondo Evi la cattiva gestione della PSA è l’ennesima occasione persa, si è andati poco oltre a un discorso su bossoli, cinghiali e ristori. “Si sarebbe potuto provare a elaborare alternative reali con gli operatori di sistema, per differenziare i modelli produttivi e sostenere una riconversione verso le produzioni vegetali, cercare nuovi mercati, produrre vera qualità”.
Salute pubblica, tutela ambientale e benessere animale sono ancora inquadrati nei termini di un processo a perdere, un privilegio che non possiamo concederci di fronte ai salari indegni della categoria. Ambientalisti contro agricoltori, animalisti contro allevatori: è un racconto insoddisfacente, un falso antagonismo, e riconoscerlo significherebbe concedersi un’opportunità preziosa di immaginazione politica.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente.
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