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lunedì, Novembre 4, 2024

Batterie, la corsa dell’Ue per l’autosufficienza: ora servono le gigafactory

Riciclo dei materiali e seconda vita delle batterie sono la via maestra. Se però l’Europa vuole stare al passo con la transizione energetica, deve aumentare drasticamente la produzione. Una panoramica dei progetti di gigafactory, gli impianti dove verranno costruite: c’è ottimismo, ma restano incognite e mancano informazioni certe. E già si assiste ai primi intoppi. Come in Italia con Italvolt

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

L’elettrificazione dei trasporti causerà un’impennata nella domanda globale di batterie. Le stime attuali prevedono una crescita di addirittura il 25% all’anno fino al 2030. Un cambiamento epocale che l’Unione europea ha cominciato ad affrontare dal punto di vista normativo con il Regolamento batterie. E se in altri articoli abbiamo esaminato quanto sarà importante nei prossimi anni investire sul riciclo e la seconda vita delle batterie, la stessa produzione porta con sé sfide enormi.

L’Unione Europea rappresenta attualmente il 7% del mercato mondiale di batterie per veicoli elettrici, ma ha l’ambizione di migliorare fino a rendersi autosufficiente entro il 2025 e coprire insieme agli Stati Uniti un quarto della capacità mondiale di produzione di sistemi di accumulo di energia entro la fine del decennio. Sebbene alcuni studi suggeriscono sia sulla buona strada per raggiungere il traguardo, se facciamo il confronto con la Cina, appare indietro nella corsa.

Pechino ha attualmente una capacità di produzione annua di 465 GWh, pari al 78% del totale mondiale. Il timore di un dominio cinese in un settore strategico come quello delle batterie non è infondato. Se da un lato il Regolamento batterie interviene su questo aspetto dal punto di vista normativo, richiedendo requisiti di qualità e di due diligence sul prodotto che le aziende cinesi spesso non riescono a garantire, aumentare la produzione è imperativo.

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Le gigafactory in Europa: una panoramica dei progetti

La Commissione europea stima che l’Ue avrà bisogno di 400 GWh di capacità di batterie entro il 2025. Per riuscirci, ci vorranno molti investimenti: uno studio citato dal Financial Times li ha calcolati intorno a 78,2 miliardi di dollari. Ci sono molte aziende che stanno lavorando in Europa. Alcune sono piccole startup specializzate nella produzione di batterie sostenute da investimenti pubblici e privati, come Northvolt, Verkor, Freyr o Italvolt in Italia, altri sono progetti gestiti dalle case automobilistiche affermate, come Volkswagen, Nissan e Tesla.

Su tutto il territorio dell’Unione europea più il Regno Unito sono previste in tutto 33 gigafactory operative entro il 2035, l’anno in cui diventerà obbligatorio il passaggio all’elettrico nel settore dei trasporti. Almeno sette dovrebbero essere pronte già entro la fine del 2023: tra queste CATL in Germania, uno stabilimento in Ungheria di SK Innovation e due tra Germania e Francia di Automotive Cells Company, una nuova società sostenuta da Saft, Stellantis e Mercedes.

Se tutti i progetti saranno realizzati senza intoppi, la società Benchmark Mineral Intelligence (Bmi) calcola una capacità produttiva annua di 789 GWh, ben al di sopra delle attese di Bruxelles. Ma gli annunci sulla capacità di produzione si riferiscono agli ultimi stadi di sviluppo dei progetti, quindi non è ben chiaro quale sarà la capacità definitiva in GWh.

Le più grandi gigafactory in Europa sono lo stabilimento polacco della coreana LG Chem, che punta a 65 GWh di capacità produttiva all’anno, e quello di tedesco di CATL, fino a 100 GWh. Northvolt, la gigafactory che finora ha ottenuto più capitali in Europa, ha già un impianto attivo in Svezia e ha dichiarato di voler aumentare la capacità fino a 110 GWh. Sta inoltre lavorando a una seconda gigafactory in Germania, nazione leader in Europa con ben 12 progetti in cantiere. In Francia, Spagna, Italia, Ungheria e Regno Unito tra i Paesi extra Ue, sono previste tre gigafactory per ciascuna nazione.

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Le gigafactory italiane: a che punto siamo

In Italia c’è lo stabilimento di Teverola, in provincia di Caserta, della società Faam, del gruppo Seri Industrial. La produzione attuale è di circa 33 MWh all’anno, ma sono in corso lavori per realizzare una seconda linea produttiva da 8,5 GWh. Di dimensioni sicuramente più rilevanti c’è la gigafactory di Italvolt a Scarmagno, vicino Ivrea negli ex stabilimenti dell’Olivetti. Dovrebbe avere una capacità produttiva di 40-45GWh annui nel 2024, che equivalgono a batterie per circa 550.000 automobili, e arrivare a 70 GWh nel 2030. Infine Stellantis a Termoli, una gigafactory in collaborazione con la casa di produzione di batterie Saft. Capacità produttiva prevista di 40 GWh entro il 2030.

In Italia prevediamo un’offerta di 120 GWh all’anno di batterie entro il 2035. Sulla carta. Se fin qui siamo agli annunci, a volte con toni perfino eccessivamente trionfalistici, nell’ultimo anno diversi progetti hanno, infatti, già registrato i primi intoppi.

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I primi intoppi negli annunci trionfalistici e incertezze sui tempi

Nel Regno Unito la gigafactory di Britishvolt, come riferito da documenti riservati visionati dal Guardian, ha dovuto tagliare i costi e chiedere nuovi finanziamenti statali, alcuni investitori si sono ritirati e ci sono stati ritardi nei pagamenti che hanno fatto slittare la data prevista per l’inizio della produzione dal 2023 al 2025. Qualcuno parla addirittura di possibile fallimento. Un progetto con notevoli ritardi è quello dell’azienda cinese Farasis Energy, partner del gruppo automobilistico Daimler, a Bitterfeld-Wolfen, in Germania. Tutto rimandato dal 2022 al 2024, ma sulla stampa sono stati sollevati dubbi sulla sua effettiva realizzazione.

La situazione in Italia non è migliore. Teverola è l’unica con una produzione già avviata, ma si tratta di una quantità marginale rispetto alle altre. Stellantis non ha neppure individuato una data precisa per cominciare la produzione: sicuramente dopo il 2026.

L’amministratore delegato di Italvolt, Lars Carlstrom, raggiunto da Economia circolare.com, interrogato sulle tempistiche ha declinato di fornire dettagli più precisi. E viene da pensare sia stata una scelta dettata dagli ultimi eventi, che rischiano addirittura di mettere in discussione il destino della gigafactory: “Di che progetto stiamo parlando? Non si fa l’interesse del Piemonte a chiamare progetti quelle che ad ogni evidenza sono bufale”, ha dichiarato durissimo Franco Debenedetti, già vice presidente e poi amministratore delegato di Olivetti negli anni d’oro dell’azienda in un’intervista al Corriere della Sera.

Il caso Italvolt rischia di mettere seriamente in difficoltà l’Italia

Vista la centralità strategica dell’impianto di Italvolt per l’Italia, merita un focus a parte. Partiamo da Lars Carlstrom: è il fondatore di Britishvolt, che però ha lasciato in polemica alcuni mesi fa per dedicarsi al progetto italiano.  Che però rischia uno scenario simile alla “gemella” britannica. La regione Piemonte afferma che “Italvolt sta facendo le cose seriamente” e la società di Carlstrom solo pochi giorni fa annunciava la partnership con la startup israeliana StoreDot per la concessione della licenza della propria tecnologia di ricarica ultrarapida. Poi sono improvvisamente emersi una serie di ostacoli.

Prima di tutto, l’accordo vincolante con Prelios Sgr firmato nel 2021 per l’acquisto dell’area ex Olivetti di Scarmagno prevedeva l’inizio dei lavori entro dodici mesi dalla firma, ma adesso si ipotizzano almeno due anni di ritardo. Dietro ci sono problemi tecnici di enorme portata. In due interviste al quotidiano La Stampa e al Tgr Rai Piemonte, Carlstrom ha spiegato che la rete elettrica dell’ex polo Olivetti non è adeguata a sostenere le esigenze energetiche di Italvolt. Il gestore della rete elettrica Terna si è reso disponibile per creare degli elettrodotti ad hoc, ma è evidente come tutto sarà rallentato tra tempi di messa a punto e autorizzazioni burocratiche.

Il timore, adesso, è la fuga degli investitori. Non si parla di poco: servono almeno 3,4 miliardi di euro di investimenti. Il piano finanziario di Italvolt non appare, tuttavia, particolarmente dettagliato: prevede come fonti prestiti bancari, fondi pubblici e investitori istituzionali (fondi di investimento, private equity, venture capital). Carlstrom ha annunciato contatti con un “grande fondo pensionistico internazionale” per un accordo di “diverse centinaia di milioni di euro” per far sopravvivere il progetto. È stata, inoltre, fatta richiesta al governo per accedere ai fondi del Pnrr: ma ancora è tutto da vedere.

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È una questione di opportunità e la politica deve fare la sua parte

Tra le giustificazioni per i ritardi, infatti, Carlstrom ha tirato in ballo proprio la crisi di governo e il cambio ai vertici di Palazzo Chigi. Quello che è indispensabile, senza dubbio, è prima di tutto la volontà della politica dell’esecutivo di portare avanti gli obiettivi della transizione energetica: e le premesse non sono buone. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini non fa mistero di essere contrario all’elettrificazione perché ritenuta dannosa per il settore automobilistico italiano. Né sono rassicuranti le dure critiche alla mobilità elettrica dell’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares: chi, insomma, dovrebbe gestirla in prima persona.

“L’Italia, tra le nazioni dell’Unione europea, è stata spesso percepita come un freno per scelte più coraggiose in tema di auto elettriche”, nota Veronica Aneris, responsabile per l’Italia dell’associazioe Transport&Environment. Non comprendere la necessità di accelerare sull’elettrificazione e il riciclo di batterie, potrebbe causare notevoli danni all’Italia. “È una visione miope e sbagliata continuare a puntare sul motore endotermico per salvare posti di lavoro. I risultati saranno opposti, perché gli investitori saranno attratti dai mercati in cui troveranno le politiche più progressiste”, spiega la responsabile di T&E.

Presentando a Ecomondo 2022 uno studio di Erion sul nuovo Regolamento batterie dell’Unione europea, l’autore Federico Magalini, di Dss+, è stato chiaro: “La prima sfida è muoversi velocemente per aumentare la produzione. È vero che il contesto europeo va visto in maniera interdipendente, ma sono asset importanti da avere per ciascuna nazione”. Insomma, invece di pensare ad accaparrarsi quote di un mercato in ascesa, l’Italia potrebbe restare indietro.

La dipendenza dalle materie prime importate è un serio problema

Più in generale, a rischiare è l’intera Unione europea: secondo Heiner Heimes, accademico specializzato nella produzione di batterie presso l’Università di RWTH Aachen in Germania ed esperto sull’argomento “quasi tutti i progetti hanno dei ritardi sebbene raramente se ne parli – ha dichiarato in un’intervista – e ci sono soprattutto difficoltà nel reperire i materiali e i componenti necessari a costruire in quantità le stesse batterie”. Non si tratta, però, conclude il professore, di gravi ritardi o addirittura cancellazioni e dovrebbero risolversi nell’arco di alcuni mesi.

Heimes solleva tuttavia il tema centrale dell’attuale dipendenza dell’Unione europea dalle materie prime importate. “Un rischio critico per l’Europa” è definito nel già citato rapporto Erion: “Nonostante rappresenti circa il 12% della domanda globale di batterie, l’Ue produce infatti solo l1% delle materie prime necessarie per la manifattura delle batterie. Inoltre, sono state indicate 30 materie prime identificate come critiche per l’Europa, perché caratterizzate della combinazione di alti livelli di domanda e rischi di approvvigionamento associati alla loro provenienza. Questi materiali sono soggetti ai vincoli di disponibilità e al rapido aumento dei costi”.

Addirittura, nel caso del litio, non c’è neppure una miniera nelle nazioni dell’Unione europea. Una buona notizia è arrivata a inizio gennaio con la scoperta del più grande giacimento europeo di terre rare in Svezia, ma ci vorranno tra i dieci e i quindici anni perché comincino le operazioni di estrazione.

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Le possibili soluzioni: dalla sostituzione ai target di riciclo nel Regolamento batterie

La sostituzione è un’altra strada, che spinge verso una chimica delle batterie meno dipendente dai metalli maggiormente associati a impatti negativi. Faam, ad esempio, ha scelto di focalizzarsi su una chimica LFP (litio-ferro-fosfato), invece che su una chimica NMC (nickel-cobalto-manganese), giudicata una scelta più sostenibile. Volkswagen, Bmw e Daimler/Mercedes-Benz sono da tempo impegnate nello sviluppo di batterie allo stato solido che, tra gli altri vantaggi, grazie a una maggiore densità energetica richiedono l’impiego di meno materiali.

Considerando tuttavia gli alti costi ambientali e sociali dell’estrazione di terre rare e l’impatto associato alla costruzione delle batterie, diventa centrale avere un approccio fondato sull’economia circolare nella gestione delle batterie: riutilizzo, cambio di destinazione e riciclo. Il nuovo Regolamento batterie introduce target di riciclo per i materiali critici delle batterie a fine vita con lo scopo di ridurre la necessità di estrarre altri materiali vergini e fare in modo che l’Europa disponga del suo capitale di materie prime, senza affidarsi all’import. Anche per arrivare a questo, tuttavia, bisogna muoversi in fretta.

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