Girare intorno alla soluzione non premia. E le iniziative che alcuni giganti del fast fashion hanno messo in campo per poter raccontare il loro impegno nella riduzione degli impatti iniziano a scricchiolare. Un esempio? Il recente studio che, negli Stati Uniti, ha verificato la scarsa efficacia, in termini ambientali, dei programmi finalizzati a rivendere gli abiti usati tramite piattaforme digitali.
A condurlo è stato Trove, sistema di “recommerce” che con la logistica inversa e le nuove tecnologie aiuta le aziende della moda a vendere i propri prodotti sul mercato dell’usato, insieme a Worldly, una società di analisi dei dati molto attiva sul fronte della sostenibilità.
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Un calo poco significativo delle emissioni
Secondo l’analisi, revisionata da università e società di consulenza, la riduzione delle emissioni di CO2 scaturita dalle piattaforme di rivendita on line per marchi del fast fashion come Zara, Shein e H&M ammonta allo 0,7%. Troppo poco per un settore che in media “pesa” 11,5 Kg di CO2 per ogni singolo capo di abbigliamento prodotto.
Il dato che emerge è che per questi marchi concentrare gli sforzi sull’uso di materiali più sostenibili o sulle tecnologie di riciclo renderebbe molto di più in termini di emissioni ridotte, perché il valore intrinseco dei capi di questo tipo è troppo basso rispetto al loro impatto. “Se vendi una maglietta originale per 8 dollari e la rivendi usata per 20 centesimi, non stai guadagnando abbastanza e in più svolgi molte attività (di logistica inversa, ndr) che aumentano l’impronta di carbonio” ha spiegato a CNBC il fondatore di Trove Andy Ruben, coautore dello studio.
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Le performance dei produttori di capi di maggiore qualità
Sotto i riflettori di Trove e Wordly non è finito solo il fast fashion: sono cinque le tipologie di abbigliamento analizzate e quello che emerge per case di abbiglimento “premium” come Tory Burch o Ralph Lauren (con 16 Kg di CO2 prodotta da ogni capo) potrebbero ridurre le emissioni del 14,8% con programmi di rivendita. I marchi outdoor come Patagonia e The North Face – che emettono circa 12,5 chilogrammi di CO2 per capo realizzato – potrebbero invece ridurre le emissioni del 15,8%.
Le proiezioni dello studio tengono conto di una minore produzione di nuovi articoli affiancata alla rivendita dell’usato, cosa che aiuterebbe a ridurre le emissioni. In pratica, le aziende potrebbero compensare il calo delle vendite di nuovi prodotti con i ricavi ottenuti dalla rivendita. Servirebbe dunque una disponibilità, tutt’altro che scontata, a non aumentare indiscriminatamente la quantità di merce.
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Il rischio greenwashing è dietro l’angolo
Difficile, dunque, per le aziende del fast fashion, che ci sia un grande mercato dell’usato in relazione a prodotti di basso valore. Ed è ancora più difficile che questo mercato produca benefici rilevanti sotto il profilo delle minori emissioni di gas serra. Eppure a inizio 2023 H&M ha lanciato una piattaforma che consente di acquistare articoli usati, dopo che Zara e Shein lo avevano fatto lo scorso autunno.
Ora lo studio di Trove conferma che lo sforzo è troppo elevato per il risultato che ci si può attendere e dunque il rischio è che questa operazione di marketing finisca, sia pure involontariamente, per trasformarsi in greenwashing.
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Riorientare gli investimenti
La ricerca suggerisce a questi operatori di orientare in maniera più efficace i propri investimenti se davvero vogliono raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati: Zara ed H&M hanno dichiarato di voler raggiungere zero emissioni nette entro il 2040, confermando i loro primi progressi in termini di consumi idrici ridotti e uso di materiali sostenibili.
Lo stesso vale per Shein, impegnata anche a ridurre l’invenduto incrementando la produzione on-demand, mentre H&M riconosce le criticità rilevate allo studio di Trove e fa sapere che sta puntano su “leve diverse” per ridurre i propri impatti, ad esempio impegnandosi a usare il 30% di fibre riciclate entro il 2025. Piccoli segnali per un settore altamente impattante, la cui efficacia sarà tutta da verificare.
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