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lunedì, Dicembre 16, 2024

Cosa resterà della Cop28? Per Oxfam “i Paesi ricchi hanno mancato ancora una volta i propri obblighi”

La formula interlocutoria con la quale la Cop28 ha introdotto per la prima volta la possibilità di un'eliminazione graduale delle fonti fossili non affronta i nodi irrisolti delle responsabilità della crisi climatica. Hanno prevalso la real politik e gli interessi nazionali, come insegna il caso dell'Unione Europea

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“Potete cacciarmi dalla Cop28 ma ne usciranno centinaia di Licypriya”. A 12 anni l’auspicio di Licypriya Kangujam è forse la migliore proiezione che arriva dalla fine della 28esima Conferenza Annuale sui Cambiamenti Climatici. Nella dorata cornice di Dubai, dove il dissenso è stato fortemente ridimensionato, la giovanissima attivista indiana, in passato la più giovane speaker mai intervenuta all’Onu, è riuscita a rendersi protagonista dell’unico vero gesto di protesta di questa Cop, salendo sul palco dei relatori e mostrando un foglio con la scritta “End fossil fuel save our planet and our future” (la fine dei combustibili fossili salva il nostro pianeta e il nostro futuro). Successivamente la ragazza è stata allontanata dagli agenti di sicurezza.

“Ho detto ai nostri leader di eliminare gradualmente i combustibili fossili dal nostro pianeta. Invece mi hanno gradualmente eliminato dalla Cop28” ha chiosato dopo l’azione su twitter (ora X). Più tardi, commentando il cosiddetto “avvio dell’inizio della fine” dei combustibili fossili, sancito con la decisione finale di ieri mattina, Licypriya Kangujam ha affermato che “questo non è ancora sufficiente” e che “questa era nera dovrebbe finire adesso”. Sarà per la giovane età, sarà perché l’attivismo fa rima con conflitto, ma l’approccio di Licypriya Kangujam respinge in parte la sensazione più comune emersa a caldo ieri mattina, cioè che comunque alla Cop28 si è raggiunto un accordo certamente insufficiente ma comunque storico per via dell’esplicito riferimento alle fonti fossili, i principali responsabili del collasso climatico.

Da qui si può ripartire per provare a immaginare l’eredità di una delle Cop più complesse che ci siamo mai state, segnata dal conflitto di interessi della presidenza di Sultan Al Jaber, dal genocidio che sta avvenendo in Palestina (al delegato palestinese sono stati riservati lunghi applausi) e più in generale da tante, tantissime esigenze nazionali (e nazionalistiche) in un mondo che faticosamente prova a diventare multipolare.

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Chi finanzia la transizione dalle fonti fossili?

Uscire dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050 in linea con la scienza”: è questo il punto cruciale (comma e dell’articolo 28) emerso dalle 21 pagine della decisione finale della Cop28.

Nella sua newsletter Areale il giornalista Ferdinando Cotugno sintetizza la questione in questi termini: “sono solo trentaquattro parole, ma sono trentaquattro parole condivise da ogni Paese della Terra: l’era dei combustibili fossili inizia a concludersi così, in un Paese costruito sul gas e sul petrolio (…) Le trentaquattro parole prodotte con enorme fatica a Dubai sull’allontanarsi velocemente dai combustibili fossili ora sono un patrimonio di tutta l’umanità, sono la richiesta di tutti i Paesi, compresi quelli produttori di combustibili fossili. Il punto non è lo scarso valore legale di questo testo, ma il suo immenso peso politico”.

Un peso politico che però dovrà comunque fare i conti con i rapporti di forza a livello internazionale. “Il testo che abbiamo sul tavolo riflette la realtà politica” ha detto Susana Muhamad, ministra  dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile per la Colombia. Non si può essere d’accordo con una delle figure più carismatiche della Cop, attorno alla quale si sono concentrate le speranze dei movimenti per il clima.

Dopo l’approvazione del testo, sulla quale aleggia un piccolo giallo (il presidente Al Jaber non avrebbe consentito un adeguato tempo per la presentazione delle opposizioni e avrebbe escluso le delegazioni degli Stati insulati), sono seguite sei ore di commenti e dichiarazioni da parte dei delegati dei 197 Stati (più l’Unione Europea) presenti a Dubai. Le perplessità maggiori sull’accordo sono arrivate dagli Stati più vulnerabili.

In uno dei discorsi più applauditi il portavoce della Bolivia ha detto che “non possiamo sostenere risultati che ci portino verso una nuova era senza equità, responsabilità comuni ma differenziate o finanziamenti concreti. Resistiamo all’essere vittime del colonialismo del carbonio. È necessario un cambio di paradigma”. Il punto è proprio questo: chi finanzia la transizione dalle fonti fossili che è stata votata alla Cop28 di Dubai? Si tratta del nodo centrale che difficilmente potrà essere sciolto dalla prossima Cop29 di Baku, e che resta come un macigno nella discussione sugli esiti di questa Cop.

Così non sorprende il fatto che le maggiori associazioni ambientaliste hanno comunque accettato il testo emerso alla Cop28, pur non risparmiando dubbi e critiche, mentre il giudizio più duro è arrivato da Oxfam, la ong internazionale che si occupa di contrasto alle povertà e alle disuguaglianze. “La Cop28 ha deluso il mondo intero e tutti coloro che si battono contro la crisi climatica globale – scrive su twitter Oxfam Italia –  Il petrolio, il carbone e il gas hanno di nuovo vinto, ma hanno dovuto lottare più duramente per farlo e la loro era sta volgendo al termine. Non sono stati stanziati fondi per sostenere i Paesi in via di sviluppo nella transizione verso le energie rinnovabili. I Paesi ricchi hanno mancato ancora una volta i propri obblighi nel fornire aiuto alle persone colpite dagli impatti devastanti del cambiamento climatico. Ora i Paesi in via di sviluppo e le comunità più vulnerabili si trovano a fronteggiare non solo la crisi climatica ma anche maggiori debiti e crescente disuguaglianza, con meno aiuto, più pericoli, fame e privazioni”.

Leggi anche: In Colombia sta per iniziare il controvertice sul clima. I movimenti non credono alla Cop28

La geopolitica e l’attività di lobbying della Cop28

Ha suscitato scandalo negli scorsi giorni la lettera fatta arrivare dall’OPEC, il gruppo che riunisce i Paesi produttori di petrolio e gas, affinché fosse respinta ogni accenno di ipotesi di eliminazione o diminuzione delle fonti fossili. Ma è un approccio errato che conferma il pregiudizio e una lettura occidentale delle Cop. La domanda invece è un’altra: perché i Paesi OPEC, che non sono certo i Paesi più ricchi del mondo né quelli storicamente più inquinanti, non avrebbero dovuto provare a preservare i propri interessi? Sono gli Stati più ricchi, cioè il Nord globale, e le grandi multinazionali fossili, con fatturati pari al PIL dei Paesi più colpiti dal collasso climatico, a dover finanziare la transizione dalle fonti fossili dei Paesi più poveri.

E invece nella logica dei rapporti di forza hanno prevalso altre dinamiche. Così ad esempio l’istituzione del fondo Loss and Damage, il primo risultato ottenuto all’inizio della Cop28, ha garantito in ogni caso che le donazioni, comunque volontarie, fossero nell’ordine dei milioni di dollari e non dei miliardi necessari, che si continuasse a fare affidamento sull’egemonia del dollaro e soprattutto che a gestire questi fondi sarà la Banca Mondiale, come volevano gli Usa e l’Unione europea, attraverso prestiti e debiti. Mentre al contrario è ormai opinione comune che per un’efficace opera globale di adattamento climatico sono necessarie le sovvenzioni, senza chiedere nulla in cambio.

Analoghi dubbi sorgono sul ruolo sempre più ridotto garantito nelle Cop alla cooperazione, che invece dovrebbe essere il fulcro di una costruzione di un mondo multipolare, con rapporti alla pari tra gli Stati. Nel testo finale della Cop28 viene più volte citato il concetto, introdotto alla Cop21, delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Ma a parte questa presa d’atto finora non è mai stato dato seguito a tale principio. E invece ciò sarebbe essenziale proprio per la decisione di avviare la “transizione dalle fonti fossili”, stilando una sorta di elenco di priorità di chi dovrebbe abbandonare l’uso di carbone, petrolio e gas: prima gli Stati più ricchi, poi quelli in via di sviluppo e poi quelli più poveri.

Basti pensare che il gruppo degli Stati che premeva inizialmente per l’addio alle fonti fossili, senza vaghe formule interlocutorie, era composto da oltre 120 Paesi, cioè quasi tre quarti  dei Paesi presenti a Dubai. In questa coalizione, chiamata High Ambition Coalition, figurava anche l’Unione Europea. Eppure l’Ue non ha mai dato la sensazione di essere davvero compatta. Hanno prevalso gli interessi della Francia per il nucleare, quelli dell’Italia sul gas e sui biocarburanti e sulla cattura della Co2, quelli della Polonia per il carbone, e così via. Anche in questo modo si spiega, ad esempio, l’assenza di qualsiasi riferimento specifico a petrolio e gas, che restano i veri grandi assenti, e dunque vincenti.

Pare che la formula della “transizione dalle fonti fossili” sia stata frutto di una mediazione di Stati Uniti e Cina, cioè i due Paesi con più emissioni di gas serra, interessati in questa fase storica a perseguire il proprio modello di sviluppo senza contrapposizioni. La vittoria della real politik, insomma, ancora una volta. La stessa che ha sancito che la futura Cop29 si terrà a Baku, in Azerbaijan, in un altro Stato a economia prevalentemente fossile. Soltanto che di real politik si muore, soprattutto a livello climatico.

Leggi anche: lo Speciale sulla Cop28

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