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venerdì, Novembre 29, 2024

Microplastiche nei tessuti sintetici, quante ne indossiamo?

Le microplastiche sono dappertutto, in quello che mangiamo, nell'acqua che beviamo, e anche nei nostri vestiti. Capiamo in che modo queste minuscole fibre possono finire negli oceani e da dove partire per trovare delle soluzioni, con una norma ISO dedicata

Silvia Santucci
Silvia Santucci
Giornalista pubblicista, dal 2011 ha collaborato con diverse testate online della città dell’Aquila, seguendone le vicende post-sisma. Ha frequentato il Corso EuroMediterraneo di Giornalismo ambientale “Laura Conti”. Ha lavorato come ufficio stampa e social media manager di diversi progetti, tra cui il progetto “Foresta Modello” dell’International Model Forest Network. Nel 2019 le viene assegnata una menzione speciale dalla giuria del premio giornalistico “Guido Polidoro”

Siamo sempre più consapevoli dei potenziali danni dell’inquinamento da plastica per l’ambiente e per la nostra salute. Gli imballaggi in plastica monouso sugli scaffali dei supermercati iniziano ad essere sostituiti con carta o altri materiali, in quelle che spesso possono definirsi più manovre di greenwashing che azioni volte alla sostenibilità. Eppure c’è una plastica invisibile che tutte e tutti abbiamo nell’armadio: sono le microplastiche dei tessuti sintetici degli abiti che indossiamo.

Per quanto possiamo prestare attenzione ai nostri acquisti, orientandoci verso brand più sostenibili o second-hand, se osserviamo l’etichetta di indumenti termici, tecnici o sportivi sarà facile trovare almeno una parte di tessuti sintetici come poliestere, nylon, acrilico, spandex, elastan, pile o poliolefina. 

E siamo in buona compagnia. Secondo la Plastic Pollution Coalition, la plastica sarebbe presente in 70 miliardi dei 100 miliardi di indumenti venduti ogni anno a livello globale.

Il problema è relativamente nuovo: ricordiamo che fino a pochi decenni fa l’abbigliamento era realizzato principalmente con materiali naturali, come il cotone, la pelle, il lino, la seta e la lana. Materiali che erano per altro molto più duraturi e consentivano di essere riparati, riutilizzati e persino tramandati per molti anni. Il resto della storia la conosciamo: l’avvento della fast-fashion, ora giunta all’ultra-fast fashion, ha abbassato il prezzo di vendita dei prodotti per consentire di seguire le tendenze, al costo di un sovrasfruttamento dei lavori, di enormi danni ambientali e della salute di chi li indossa. 

microplastiche tessuti
Produzione di fibre nel mondo. Elaborazione grafica Plastic Soup Foundation. Fonte: TECNON ORBICHEM

Stando ai dati riportati da Statista, la distribuzione della produzione di fibre tessili a livello mondiale nel 2022 era al 54% di poliestere e al 22% cotone, seguite da altri materiali, come poliamide e fibre animali, in percentuali minori.

Dai vestiti agli oceani

Uno studio pubblicato su Science sostiene che le microfibre (con diametro inferiore a 5 millimetri) e le nanofibre (inferiori a 100 nanometri) di plastica sono state identificate negli ecosistemi di tutte le regioni del mondo. Si stima che costituiscano fino al 35% delle microplastiche primarie negli ambienti marini, una parte importante delle microplastiche sui litorali costieri e che persistano per decenni nei terreni trattati con fanghi provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue.

Per microplastiche primarie si intendono quelle rilasciate direttamente nell’ambiente sotto forma di piccole particelle a causa, appunto, del lavaggio di capi sintetici, dell’abrasione degli pneumatici durante la guida, o quelle presenti nei cosmetici. Le microplastiche secondarie sono invece prodotte dalla degradazione degli oggetti di plastica più grandi, come buste di plastica, bottiglie o reti da pesca.

Lo smaltimento degli abiti che vengono gettati via rappresenta un problema annoso, sia per via della sovrapproduzione che per la scarsa qualità dei tessuti stessi, con cui dobbiamo iniziare a fare i conti. Tuttavia, come anticipato, le problematiche legate a dei tessuti contenenti plastica non attengono solo al loro smaltimento: anche nella manutenzione e nella cura quotidiana di questi capi compiamo involontariamente e inevitabilmente un atto che danneggia l’ambiente.

Come confermato da un report sulle microplastiche primarie presenti negli oceani, curato dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), il lavaggio di tessuti sintetici, nelle lavanderie industriali e nelle lavatrici che abbiamo in casa, crea microplastiche primarie attraverso l’abrasione e lo spargimento di fibre. Le fibre finiscono poi nelle acque di scarico con il lavaggio e da lì, potenzialmente, negli oceani. Secondo lo studio, quantità significative di queste fibre tessili – tipicamente di poliestere, polietilene, acrilico o elastan – sono state osservate in molti studi di campionamento sia in acque libere che in sedimenti marini.

Leggi anche: Microplastiche in mare? Sono di meno se laviamo i capi a mano

Microplastiche nei tessuti, sì ma quante?

Per combattere questo fenomeno, come riportato da GreenBiz, il brand sportivo Under Armour ha pubblicato lo scorso dicembre uno strumento per aiutare i partner della sua catena di fornitura e altre aziende a valutare la quantità di microfibra che si disperde dai loro tessuti. L’azienda starebbe integrando il metodo nel suo processo di sviluppo dei prodotti per identificare, quindi modificare o eliminare, i tessuti ad alta emissione. Tra i partner per lo sviluppo figurano James Heal, un’azienda britannica leader nella produzione di strumenti di prova di precisione, e l’Istituto Hohenstein in Germania.

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Ma da questo punto di vista le norme tecniche si stanno muovendo verso una standardizzazione della metodologia che permetterà certamente di fare valutazioni più precise sugli effetti di queste particelle sull’ecosistema e sulla salute dell’essere umano.

Dopo un lavoro durato 5 anni, Aquafil, CNR-STIIMA Biella e UNI sono riusciti a sviluppare un metodo per la determinazione qualitativa e quantitativa delle microplastiche di tipo fibroso contenute in differenti matrici allo stato solido, liquido o aeriforme provenienti dal settore tessile: l’ISO 4484-2 sulle microplastiche.

“Questo strumento – riporta in una nota STIIMA – è in grado di apportare beneficio a tutto il settore tessile, poiché i prodotti potranno essere creati con maggiore consapevolezza relativamente all’impatto che le microplastiche hanno sull’inquinamento. Questa metodologia di misurazione, frutto della competenza di un gruppo di lavoro tutto italiano, ha dei risvolti pratici in quanto tutti i laboratori a livello mondiale avranno un protocollo standardizzato che permetterà di dare una dimensione e stabilire la composizione delle microplastiche”.

Leggi anche: Microplastiche e nanoparticelle nel corpo umano: tutto quello che c’è da sapere

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