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martedì, Maggio 14, 2024

Alla Cop26 l’industria fashion dimentica l’economia circolare. Assenti i concetti di riduzione e riutilizzo

Moda inquinante e sprecona: è così che viene etichettata la filiera fashion basata sul modello lineare. Essendo coinvolta nei settori con l’impronta carbonica maggiore, non poteva essere snobbata alla Cop26 di Glasgow che ha ospitato il panel Fashion industry Race to Zero con alcuni dei brand leader della filiera

Simone Fant
Simone Fant
Simone Fant è giornalista professionista. Ha lavorato per Sky Sport, Mediaset e AIPS (Association internationale de la presse sportive). Si occupa di economia circolare e ambiente collaborando con Economia Circolare.com, Materia Rinnovabile e Life Gate.

L’obiettivo delle Cop (Conferenza delle Parti), da quella di Parigi in poi, è raggiungere gli accordi tra Paesi che permettano di tenere l’aumento di temperatura sotto il grado e mezzo.

Riconoscendo il ruolo significativo dell’industria della moda nella crisi climatica, alcuni dei più grandi marchi globali nel 2018 hanno siglato la Carta per l’Azione Climatica dell’Industria della Moda (Fashion Industry Charter for Climate Action) per contribuire a rispettare quel limite di temperatura; un impegno congiunto degli stakeholders a ridurre le emissioni climalteranti del 30% entro il 2030, anche nelle catene di approvvigionamento.

“L’obiettivo è coinvolgere gli stakeholders.– dice Jerome le Bleise, chief supply chain officer alla Burberry -, i governi che dovranno emanare le leggi al fine di decarbonizzare l’industria e infine i consumatori con il potere della domanda”.

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Gli scarsi risultati della Fashion Industry Charter

Di tutto questo si è parlato alla Cop26, in corso di svolgimento a Glasgow, dove quasi tutti i Paesi della Terra – con le significative eccezioni di Cina e Russia – stanno cercando un faticoso accordo per contenere le emissioni di gas serra. Nelle discussioni non poteva mancare la filiera della fast fashion, etichetta come moda inquinante e sprecona e, soprattutto, con una delle maggiori impronte carboniche. Ecco perché il panel Fashion industry Race to Zero ha messo insieme alcuni dei brand leader della filiera.

Durante la conferenza si sono susseguite promesse e buoni propositi su come rendere più sostenibile tutta la catena del valore. “Entro il 2040 vogliamo raggiungere la piena sostenibilità – promette Le Blesie di Burberry – il problema è capire dove agire. Le materie prime sono la sfida che abbiamo scelto di affrontare per prima, poi si dovrebbero adottare sistemi di tracciabilità del 100% dei materiali entro il 2025”.

Si è discusso di sinergie tra settori, produzione e materiali bio-based da usare invece di quelli fossili. “Le materie prime non fossili e i materiali biodegradabili sono il futuro su cui dovremo investire – interviene Bjørn Gulden, ceo di Puma – Attualmente usiamo molto il poliestere riciclato per le magliette e credo che se acceleriamo con gli incentivi per innovare siamo messi meglio di quanto crediamo”.

Tuttavia, dopo la creazione della Carta per l’azione climatica, la strada verso la transizione è ancora parecchio lontana. Un’analisi di Stand.earth di fine ottobre ha preso in esame nove delle principali aziende firmatarie della Carta per l’Azione Climatica per capire nei fatti come si stanno comportando nel ridurre le emissioni nella filiera secondo gli obiettivi del -55% al 2030. Nel documento si evince che nessuna delle società considerate – American Eagle Outfitters, Fast Retailing (UNIQLO), Gap, H&M, Inditex (Zara), il gruppo di alta moda Kering,  Lululemon, Levi’s e Nike – riuscirà a ridurre le emissioni nella loro catena di approvvigionamento a meno che non vengano intraprese azioni concrete già da quest’anno, come eliminare gradualmente carbone e gas, puntando su efficienza energetica e rinnovabili in tutta le loro catene di approvvigionamento.

Il report del 2020 di McKinsey, “Fashion on climate”, afferma che nel 2018 l’industria dell’abbigliamento è stata responsabile del 4% delle emissioni globali, circa 2,1 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti, in pratica quanto Francia, Regno Unito e Germania messi insieme. I dati si basano sugli indumenti prodotti, utilizzati e smaltiti nel 2018.

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Economia circolare assente nel dibattito

Nell’incontro della Cop26 si è parlato di tecnologie, di fibre a basso impatto carbonico, di incentivi da chiedere al governo per un’agricoltura rigenerativa e di strategia comunicative per convincere il consumatore ad adottare uno “stile di vita da 1.5°”. Davvero pochi accenni e impegni invece su virtuose pratiche di riutilizzo dei materiali, di un riciclo credibile che punti a chiudere il cerchio (il close the loop di cui si parla tanto) e di come eliminare gradualmente le sostanze tossiche di cui sono fatti tanti materiali che, essendo non riciclabili, finiscono nell’inceneritore o in discarica.

Nessun accenno al tema della fast fashion e alla riduzione della produzione, fino a che la moderatrice dell’incontro concede la parola a una giovane ragazza (probabilmente un’attivista) che pone la seguente domanda: Com’è possibile che il settore della moda punti alla sostenibilità quando registra un tasso di crescita annuale del 3%?

Delle speaker presenti, l’unica a rispondere con una strategia credibile è Claire Berkamp di Textile exchange, unica organizzazione non profit. “Secondo noi si può ottenere una riduzione dal punto di vista produttivo attraverso tre punti: scalare le esistenti soluzioni come i preferred fibers and materials (definiti come materiali socialmente ed ecologicamente più virtuosi). Il secondo è implementare un’agricoltura rigenerativa che ancora soffre di un gap tecnologico. Il terzo sta nella riduzione – sottolinea la Berkamp-  se continuiamo con il 3% di crescita annuale, da adesso fino al 2030, sarà veramente difficile raggiungere gli obbiettivi climatici.”

Per i brand che puntano particolarmente sulla fast fashion, la riduzione di produzione e uso delle risorse idriche non sembra rientrare nei piani. L’unica a citare la fallacità del modello lineare è la stilista inglese Stella Mcartney che ricorda l’importanza della circolarità come modello di business sostenibile e profittevole. L’industria della moda è responsabile anche dell’estrazione di materiali e sostanze che possono impattare negativamente su foreste e biodiversità.

“Il rayon è una fibra trasparente che si ottiene dalla cellulosa del legno. Per produrre il tessuto rayon si tagliano circa 150 milioni di alberi all’anno senza che ci sia una ripiantumazione adeguata. Quindi abbiamo trovato una foresta in Svezia nella quale c’è la possibilità di riforestare gli alberi che tagliamo. Se usi il rayon senza un programma di riforestazione ci dovrebbero essere delle sanzioni, oppure degli incentivi per chi lo acquista in modo sostenibile”.

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